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Biografie

Un ace alla depressione

Cliff Richey, Davis man statunitense nonché semifinalista Slam nei primi Settanta, pubblica un'autobiografia in cui racconta la sua battaglia più dura. Prefazione, entusiastica, di Jimmy Connors Roberto Paterlini

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Nel 1970 Cliff Richey vinse entrambi i suoi incontri di singolare nel Challenge Round attraverso il quale la squadra statunitense sconfisse le Germania e conquistò la sua ventitreesima Coppa Davis. Quell’anno raggiunse anche le semifinali al Roland Garros e allo Us Open, e vinse il primo World Point Title, il Pepsi-Cola Grand Prix, precursore di quel ranking che sarebbe arrivato solo nel 1973. Nella speciale classifica americana, chiuse la stagione al primo posto, mettendosi dietro nomi quali Stan Smith e Arthur Ashe, suoi compagni di Davis, e in una lunga carriera terminata nel 1979 fu in grado di scrivere il proprio nome su ben 45 trofei, tra i quali l’Open del Canada e Cincinnati.

Membro fondatore dell’ATP, è in questi giorni riapparso sulle cronache tennistiche per un libro scritto a quattro mani con la figlia Hilaire, a metà tra il saggio e la biografia, intitolato Acing Depression: A Tennis Champion’s Toughest Match, nel quale ha ripercorso la sua carriera e la sua vita, accompagnate dalla depressione.

In uscita ad Aprile e sotto l’ala della New Chapter Press - già editore, tra gli altri, di The Roger Federer Story, Quest for Perfection di Rene Stauffer e The Bud Collins History of Tennis di Bud Collins - il libro è stato accompagnato da una calorosa prefazione firmata niente meno che dal suo collega e amico Jimmy Connors. “Ciò che rese Richey il campione che fu,” scrive Jimbo, “certamente è stato trasposto in questo libro. La sua storia ha coinvolto un tema di cui soffrì personalmente, la depressione, e lui l’ha portata allo scoperto. Questa malattia è qualcosa di cui nessuno ha mai veramente parlato, e poche persone persino ammettono di soffrire di tale condizione. Ma Cliff non ha paura di essere coraggioso, e rivelare cosa ha passato e cosa sia necessario per gestirla. Nello stesso modo in cui ha giocato a tennis, sta studiando come funziona la depressione, quali sono i suoi punti deboli, e quali strategie si possono usare per affrontarla. L’auspicio è che le persone che leggeranno la sua storia possano apprendere nozioni importanti su questa patologia, che è possibile arricchire la qualità della propria vita, che le cose possono migliorare, e che c’è speranza.”

La depressione - definita da Richey “la tragedia silenziosa della nostra cultura” - è dunque il filo conduttore di questo romanzo, dalla storia della sua famiglia, alla carriera professionistica, alla vita dopo il tennis, e ha rivelato uno scenario alternativo all’immagine spocchiosa e irriverente che aveva fatto guadagnare a Richey il soprannome di The Bull (Il Toro), prima che i vari McEnroe e Connors gli soffiassero il titolo di ragazzaccio del tennis.

Documentandomi per questo articolo, sono incappato in uno straordinario servizio che, su di lui e la sua famiglia, fece nel 1965 niente meno che Sports Illustrated, intitolato The Highest Ranking Family in Tennis. Leggerlo da la stessa sensazione che vedere un film ambientato negli anni ’60 ma girato negli ’80, trasmette il sapore di un tennis che ormai non esiste più, parente di quello moderno quanto i completi bianchi di allora lo sono dei bermuda che Rafa Nadal ha indossato la scorsa settimana ad Indian Wells, e che molti di noi (purtroppo) non hanno mai visto.

Dovevano ancora arrivare i fratelli McEnroe, le sorelle Maleva, più di tutti le Williams, ma allora i Richey erano davvero la famiglia più forte che il tennis avesse mai visto, anche perché i fratelli in questione erano di sesso diverso, e in tale fattispecie, dopo di loro solo i Safin hanno saputo fare di meglio. Accanto a Cliff, brillava infatti la sorella Nancy, vincitrice dell’Australian Open nel 1967 e del Roland Garros nel ’68, nonché finalista in altre 4 prove dello Slam in singolare e vincitrice di 4 titoli in doppio, compresi quelli di Wimbledon (1966) e dello US Open (1965-66); e prima di loro anche il padre George era stato un dignitosissimo giocatore, numero 8 della classifica americana nel 1952.

Confesso di aver letto le pagine di questo articolo con in mente gli stralci della ben nota biografia di Andrè Agassi, sicuro che vi avrei trovato le medesime prove di un padre padrone, di un odio viscerale per lo sport... ma tutt’altro. Ne emerge invece l’ossessione dello stesso Cliff nei confronti del tennis - “Stai zitto e tirami quella pallina,” era lui a gridare al padre. “Bè, IO non voglio smettere, quindi stai lì e tiramene ancora!” - e il disagio dietro al quale, da profano, è forse facile intravedere le tracce di quella depressione che a lui stesso venne diagnosticata solo attorno ai cinquant’anni. "Lo prendevano in giro a scuola - raccontava allora la mamma Betty - e gli chiedevano sempre perché non volesse mai divertirsi un po’. Lui a quel punto digrignava i denti e cercava di spiegarsi. Ma un paio di anni fa, quando stavamo tornando da Dallas dopo lo Sugar Bowl, e Cliff aveva vinto un trofeo davvero enorme, ad un certo punto lo prese e lo abbraccio, e disse: dicono che non mi diverto, ma questo è il più grande divertimento al mondo; è quel tipo di divertimento che dura per un anno intero!”

La maggiore sensibilità odierna nei confronti della depressione e dei disturbi mentali in generale, permettono anche di rivalutare la sua immagine, e vedere sotto una luce diversa le sfuriate - contro pubblico, arbitri, giudici di linea, raccattapalle... chiunque gli facesse un torto o lo disturbasse durante il punto - di cui Richey si rese protagonista in campo e che ai tempi furono attribuite unicamente all’ossessiva voglia di vincere e al “cattivo carattere”, vissute con disagio ed etichettate come “sissy”, da femminuccia.

Nel suo libro, Richey parla dei giorni più bui, durante i quali metteva dei sacchi scuri attorno alle finestre e passava l’intera giornata a letto, piangendo; poi delle cure antidepressive in seguito alla tardiva diagnosi e dei suoi miglioramenti, che l’hanno portato a diventare un attivista della salute mentale, oratore e organizzatore di numerosi eventi negli Stati Uniti. “Mi sono state date molte seconde opportunità,” ha scritto nel suo libro. “Il modo migliore di sintetizzare la mia malattia è: “perdita di speranza”. La speranza è una guida fondamentale nella normale condizione umana. Questo è davvero l’aspetto straordinario del recupero e della guarigione: una volta che ce l’hai fatta, tutta la tua vita sembra una seconda opportunità.”

Roberto Paterlini