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18/06/2010 11:15 CEST - TENNIS E STORIA

C'era una volta Wimbledon

Tutto partì da un rullo che doveva essere riparato. Si è arrivati all'organizzazione del torneo più famoso al mondo,che è riuscito a mantenere le sue tradizioni e che ci ha regalato alcune delle migliori partite di sempre. Remo Borgatti

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Questa è la (breve) storia di un rullo che ha scritto la storia di uno sport.
Correva l’anno di grazia 1877 e l’attrezzo che serviva a tagliare l’erba dell’All England and Croquet Club necessitava di urgente riparazione. Tra le tante idee partorite durante la riunione dei soci, quella che trovò maggiori consensi fu l’organizzazione di un torneo di tennis su erba da disputarsi sui campi del club che occupava quattro acri in Worple Road.
A Wimbledon, periferia di Londra.
Come spesso accade, un grande futuro inizia da un presente quasi trascurabile. Del tutto inconsapevoli di ciò a cui stavano dando origine e preoccupati perlopiù di reperire i fondi utili alla bisogna, i soci del Club (che nel frattempo aveva assimilato la dicitura “Lawn Tennis” nella sua completa denominazione) avevano ottenuto l’appoggio determinante del direttore della rivista “Field”, Mr Walsh, e del suo più stretto collaboratore, tal Henry Jones.
Walsh, che divenne segretario onorario del club, e Jones, che si dilettava di giornalismo e di sport in particolare, trovarono interessante l’iniziativa e convinsero i proprietari della rivista a mettere in palio una Challenge Cup d’argento del valore di ben 25 ghinee allo scopo di premiare il vincitore della manifestazione. Il trofeo sarebbe rimasto nel club mentre un premio in oro sarebbe stata la ricompensa per il migliore tra i partecipanti.
Alla “singolar tenzone” si iscrissero in ventidue, ciascuno dei quali sborsò una sterlina e uno scellino per l’iscrizione mentre chi voleva assistere agli incontri doveva sborsare, si fa per dire, uno scellino al giorno. Disposti in un tabellone ad eliminazione diretta, già dal secondo turno si dovette procedere ad un bye per l’undicesimo giocatore mentre i quarti in realtà furono “terzi” (i cinque che avevano passato il turno precedente più Heathcote, il beneficiario del bye) e la semifinale una sola, tra Spencer Gore e lo stesso Heathcote, battuto in tre set.
Per la cronaca vinse Gore, ottimo esponente del gioco del racket, antesignano del moderno squash. Ma è un dettaglio, pur importante, perché a trionfare, quel giovedì 19 luglio 1877, fu il tennis. Il torneo diede ai coraggiosi pionieri un utile di una sterlina e mezza ma già due anni più tardi le sterline sarebbero state 706. Altro che rullo da riparare!
Sarebbe però un errore pensare che sia stato tutto verde e viola, nella storia di Wimbledon. Affatto. Nella notte dell’11 ottobre 1940, cinque bombe colpirono e danneggiarono le strutture del club, tra cui il tetto del centrale. Dal 1922, l’All England Lawn Tennis and Croquet Club aveva cambiato sede e si era trasferito in Church Road, dov’è attualmente.
Ligio alla tradizione, talvolta sopportata non senza una punta di fastidio, Wimbledon ha saputo crearsi una fama così robusta e consolidata da trasformare in evento ogni cambiamento, più o meno importante, che ne ha caratterizzato la secolare storia. L’ultimo, che ha richiesto anni di lavoro, è stato il tetto mobile che ha coperto il “tempio”, ovvero il Campo Centrale, ma altre correzioni in corso d’opera hanno adeguato e modernizzato il torneo.
Nel 1971 venne introdotto il tie-break ma, dato che siamo a Wimbledon, sul punteggio di 8-8 (solo otto anni dopo si normalizzerà sul 6-6) e comunque mai nel set finale. Fino al 1982 non si giocava di domenica e la finale del singolare maschile, che chiudeva il torneo, era programmata di sabato. Nel 1986 vennero introdotte le palle gialle al posto di quelle bianche e l’inchino dei tennisti verso il Royal Box è ormai un vago ricordo.
Ma su un aspetto, tuttora, non si transige: il bianco deve essere il colore dominante degli indumenti dei giocatori. Certo, non è più come oltre 130 anni fa, quando il cartello collocato sulla piccola club house suggeriva che: “i gentiluomini sono pregati di non giocare in maniche di camicia quando le dame sono presenti”. Però, pur passando attraverso gli “assalti” estetici di alcuni temerari più o meno anonimi (gli scaldamuscoli di Agassi, la canottiera di Nadal ma anche la britannica Sally Reeves, che scese in campo nel 1983 con una gonna gialla e venne rispedita negli spogliatoi a cambiarsi…) e qualche curiosa celebrazione (sempre nello stesso anno lo statunitense Trey Waltke si presentò sul campo numero 6 con tanto di pantaloni lunghi di flanella bianca acquistati a Londra per sedici sterline e camicia della stessa tinta, in onore agli assi che trionfavano a Wimbledon nei favolosi Anni Trenta), la regola non è mai stata messa in discussione.
Sia pur non necessariamente il più importante in fatto di organizzazione e qualità tecnica, Wimbledon è certamente il più famoso tra i quattro Slam e dunque il più famoso tra i tornei. Qui si dispensa gloria eterna ai vincitori e se ne celebra l’immortalità (e non me ne voglia Ken Rosewall, che giocò quattro finali nell’arco di vent’anni, perdendole tutte). Qui gli dei del tennis, di tanto in tanto, danno la loro benedizione alle migliori partite di sempre (Borg-McEnroe finale 1980; Nadal-Federer finale 2008, per citarne un paio). Qui, tra il verde e il viola che accomuna erba e fiori, divise di giudici e raccattapalle, vernici di muri e cancelli, si scrive ogni anno un nuovo capitolo della saga.
E tutto per un rullo e per un salvadanaio vuoto. Erano al verde, Walsh e compagnia bella, e proprio sul verde dei prati hanno edificato il mito. Com’è strana la vita, a volte.

 

Remo Borgatti

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Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker