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12/03/2011 14:59 CEST - Indian Wells

La guerra del cuore di Venus e Serena

TENNIS – ″A Indian Wells mi sono successe cose che mi hanno cambiato la vita″, ha confessato Serena Williams. Il riferimento è alla finale del 2001, vinta contro Kim Clijsters, in cui è stata fatta oggetto di fischi e insulti pesanti, vissuti come razzisti. Da allora le Williams boicottano il torneo. Ma come andarono davvero le cose? Alessandro Mastroluca

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Si può fischiare una giocatrice di colore senza essere razzisti? Si può fischiare una giocatrice di colore senza passare per razzisti? Per una giocatrice di colore è difficile distinguere gli attacchi razzisti dagli altri?

Per capire perché Venus e Serena Williams boicottano il Premier Mandatory di Indian Wells da dieci anni, incuranti del nuovo regolamento che le obbliga allo zero in classifica, a una multa e a una squalifica (a patto di dedicarsi ad attività promozionali) serve rispondere a queste tre domande.

Nel 2001 Serena vinse il torneo, in finale contro Kim Clijsters, ma accusò di essere stata oggetto di pesanti insulti razzisti da parte della maggioranza del pubblico e giurò di non tornare mai più nella Contea di Riverside.

Sembra tutto semplice, una questione di onore e rispetto. Ma a guardarla bene questa storia è più complessa. A guardarla bene c’è di più oltre il razzismo. A guardarla bene, forse, sotto sotto, il razzismo in questa storia nemmeno c’è.

L’edizione della discordia
Nel 1999 Serena vince Indian Wells battendo in finale Steffi Graf. ″Da quel momento divenne il mio torneo preferito per diverse ragioni. Mi piaceva il club. Gli spettatori erano intenditori, rispettosi e generosi. Soprattutto, era uno dei pochi tornei nei quali l'intera famiglia si poteva riunire″. Così scrive nel suo ″On the line″.

Due anni dopo queste frasi saranno poco più di un ricordo senza valore. Serena è testa di serie numero 7 del tabellone, Venus numero 3; sono dalla stessa parte. La Venere nei quarti vince facile 61 62 su Lindsay Davenport. Serena lascia tre giochi, 60 63, a Elena Dementieva, ma finisce il match disidratata, fatica a respirare. La Venere si è procurata un piccolo infortunio al ginocchio. Venus e Serena devono affrontarsi in semifinale, il giorno dopo.

In conferenza stampa un giornalista chiede a Elena Dementieva un pronostico sulla semifinale. La sua risposta è molto poco sibillina: ″Non so cosa pensa Richard. Penso che lui deciderà chi vincerà domani”. Dirà che è stata solo una battuta male interpretata.

La mattina della semifinale, il 16 marzo, Venus avvisa il fisioterapista: il dolore al ginocchio è aumentato durante la notte, insiste che non può scendere in campo. Il trainer la invita ad aspettare, gli organizzatori traccheggiano, lei per un po’ si va a scaldare. Serena, però, è sorpresa: perché, si chiede, nessuno ha ancora annunciato che Venus non scenderà in campo, dato che gli organizzatori lo sanno da tempo?

E’ l’inizio della fine. Lo stadio è già pieno. ESPN, che ha acquistato i diritti per il torneo, ha già venduto gli spazi pubblicitari per quella partita. L’annuncio del walkover di Venus viene dato solo cinque minuti prima dell'ora prevista per l'inizio del match. I tifosi si infuriano: in diecimila chiederanno il rimborso del prezzo del biglietto.

Sulla stampa si moltiplicano le critiche per le sorelle Williams, definite troppo capricciose da John Wertheim, che sulla sua “Tennis Mailbag” su Sports Illustrated del 19 marzo scrive: ″Questo episodio intacca la credibilità delle Williams e alimenta la diffusione delle malignità per cui loro vivono lo sport come una sorta di burla e delle speculazioni sul ruolo del padre nel determinare i risultati. Ma quello che rende la scena di sabato così difficile da accettare è il fatto che fosse anticipata. […] In sala stampa si scherzava dicendo che chiunque avesse perso il primo set si sarebbe ritirata per un infortunio”.

Sono gli stessi dubbi di Bill Dwyre, sul Los Angeles Times: “Se queste situazioni sono solo figlie del caso; se davvero il ginocchio di Venus ha iniziato a farle male prima della partita con Serena; se tutto questo è solo il prodotto di indiscrezioni e di troppa curiosità, allora perché le Williams non lo dicono chiaramente?

Insomma, è un fiasco per tutti. Per i tifosi, che si sentono traditi. Per gli organizzatori, che hanno perso una grande semifinale. Per Serena, che avrebbe beneficiato dei bonus point in caso Venus fosse scesa in campo (e questo riduce le possibilità che abbia ragione chi pensi a un esito combinato). Ma la forma finisce per nascondere la sostanza. La percezione ha la meglio sull’intenzione. E non è ancora finita.

La finale
Tra Serena e Kim Clijsters, che in semifinale ha battuto Martina Hingis, il pubblico sceglie la belga. È un maleducato tifo contro Serena, contro Venus e Richard, accolti da salve di fischi mentre cercano di prendere posto sugli spalti. (La partita è disponibile interamente su youtube, questa è la prima parte di 13).

Davanti ai 15 mila, Richard alza il pugno in segno di sfida. Le telecamere poi lo pescano mentre parla al telefonino: dopo pochi minuti nel box compare una guardia. “I bianchi di Indian Wells finalmente hanno detto quello che ci hanno sempre voluto dire: 'negro, stai lontano da qui, qui non ti vogliamo”, spiegherà a fine partita Richard. “È il peggiore atto di pregiudizio che abbia visto dall'uccisione di Martin Luther King″.

Già nel 1997 Richard aveva acceso polemiche di stampo razziale. Durante un cambio campo in semifinale, Irina Spirlea va a sbattere contro Venus. Richard la chiama ″un tacchino bianco″ e sostiene che si sia trattata di un atto dalle motivazioni razziste. ″Sono alta. Sono nera. Per me tutto è diverso″ diceva durante la prima settimana del torneo: nella seconda ha capito davvero quanto avesse ragione.

Sono diverse le critiche di allora. Sono diversi anche gli attacchi, i fischi, gli insulti di quattro anni dopo a Indian Wells. La poca chiarezza dell’organizzazione, i commenti a mezza voce, le risposte a metà diventano indizi che fanno la prova, nella mente dei tifosi, dell’antisportività, della gestione dei risultati come affari di famiglia che aleggia, e per anni aleggerà, intorno alle sorelle Williams.

La forma diventa sostanza. La percezione stravolge l’intenzione. E a un cambio campo, sotto 4-6 1-2 Serena scoppia in lacrime nascondendo la testa sotto l’asciugamano. Kim, però, non tiene la concentrazione mentre Serena sfoga tutta la rabbia, rimonta e vince.

Gli organizzatori non ricevono alcuna lamentela, da parte dei 15,938 spettatori presenti sugli spalti, di comportamenti o attacchi razzisti. E nemmeno Serena, nella conferenza stampa post-finale, ne parla,  come ricorda Joel Drucker:

"D.Anche se il pubblico ti ha fischiato, pensi di tornare il prossimo anno?
R.Ho un titolo da difendere, probabilmente mi rivedrete.
D.Credi che la razza abbia qualcosa a che fare con quello che è successo oggi?
R.Razza? I neri sono usciti dalla schiavitù da un secolo ma stanno ancora facendo fatica. Non so se la razza c'entri con questa situazione, ma certamente c'è ancora qualche problema di razzismo in America
".

Una settimana dopo le sue parole hanno un suono diverso. A Key Biscayne un giornalista le chiede: ″Cosa hai sentito quel giorno?″. E Meeka (questo il soprannome con cui viene chiamata in famiglia, lei che di secondo nome fa Jameka) risponde: ″Ho sentito quello che ho sentito″. ″Credi che gli insulti fossero di natura razzista?”. Risposta: “Tu cosa pensi?”.

Proviamo a rispondere a questa domanda, a dieci anni di distanza.

Probabilmente qualcuno genuinamente razzista ci sarà anche stato, ma la gran parte dei fischi non erano indirizzati a Serena per via del colore della sua pelle. Erano solo la rimostranza rabbiosa e impotente di chi ha pagato un biglietto invano, di chi ha pregustato uno spettacolo cui non ha potuto assistere. Erano la contestazione comprensibile di chi è stato avvisato nei tempi sbagliati e si è sentito preso in giro, di chi è stato indotto a sospettare dalla stessa tempistica delle comunicazioni di un’organizzazione decisa a salvare almeno le apparenze e le esigenze della tv, data la contemporaneità della semifinale con l’inizio della March Madness, la fase conclusiva del campionato universitario di basket.

Ma è una risposta che non basta a spiegare perché Serena, nel 2008, confessava a Cristopher Clarey che ″a Indian Wells mi sono capitate cose che mi hanno cambiato la vita″. Non basta perché Serena l’ha avvertita davvero l’atmosfera ostile, e ha percepito l’ostilità come motivata da ragioni razziste. La forma è diventata sostanza, la percezione ha generato un’emozione autentica e profonda.

There must be some misunderstanding, There must be some kind of mistake″ verrebbe da cantare con i Genesis, deve esserci stato un malinteso, un qualche tipo di errore. Cristallizzato dal ricordo che ha trasformato l’emozione in una verità costata alle sorelle Williams una guerra del cuore dalle cause solo apparentemente leggere.

Alessandro Mastroluca

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