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27/08/2011 14:34 CEST - Verso gli US Open

L'anno di Jimbo (e di Edberg...)

TENNIS - A distanza di vent'anni ripercorriamo l'edizione 1991 degli US Open, con l'impresa di Jimmy Connors, semifinalista a 39 anni, che riuscì a mandare in secondo piano anche la vittoria di Stefan Edberg, ottenuta mettendo in mostra un serve & volley dall'efficacia mai più eguagliata. Mauro Cappiello

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L’America stava uscendo dallo choc della prima guerra del Golfo. Alla radio suonava "Everything I do" di Bryan Adams, leader delle charts negli Stati Uniti per ben 16 settimane. Sui grandi schermi era apparso “Il silenzio degli innocenti”. A New York, invece, sui campi ancora color verdino di Flushing Meadows, tra l’agosto e il settembre di quel 1991 andò in scena una delle edizioni degli US Open più memorabili degli ultimi trent’anni. Capita raramente di ricordare un torneo per le imprese di un giocatore che non lo abbia vinto. Quell’anno però, forse, la leggendaria cavalcata di Jimmy Connors, il vecchio leone capace di raggiungere le semifinali del torneo all’età di 39 anni, riuscì quasi ad oscurare la vittoria finale di Stefan Edberg, che pure giocò nel 1991 a New York un tennis splendido, per sua stessa ammissione il migliore della sua carriera.

Entrato in tabellone grazie a una wild card e con una classifica precipitata al numero 174 per via di un infortunio che l’anno prima gli aveva permesso di giocare (e perdere) solo tre incontri, Jimmy Connors riuscì quell’anno a trascinare dalla sua parte tutto il pubblico americano, a far appassionare al tennis anche gli spettatori casuali, facendo impennare gli share televisivi. E a guadagnarsi un sostegno che non aveva avuto nemmeno nei tempi d’oro, quando, tra il 1974 e il 1983, aveva vinto lo US Open per cinque volte su tre superfici diverse (erba, terra e cemento), senza tuttavia mai brillare per simpatia sulle grandi masse.

Il 1991, invece, fu l’anno che lo consacrò come il nonnetto terribile del tennis. Già a Parigi Jimbo era stato capace di scrivere un grandissimo momento di sport, quando al terzo turno, contro un Michael Chang più giovane di quasi venti primavere, era arrivato al quinto set, aveva vinto il primo quindici e poi, stravolto dalla fatica, aveva gettato la spugna, ritirandosi quando era in vantaggio, sia pur di un solo punto.

A New York la sua corsa fu ben più lunga, inaspettatamente lunga. Sembrava che dovesse arrestarsi già al primo turno, quando il sorteggio gli mise di fronte Patrick McEnroe. In svantaggio di due set e sotto 3-0 40-0 nel terzo, Connors riuscì in una rimonta impronosticabile, vincendo per 6-4 al quinto dopo più di quattro ore e mezzo di lotta.

Dopo due turni comodi contro Schapers e la testa di serie numero 10 Karel Novacek, arrivò un altro match al cardiopalma contro Aaron Krickstein, proprio nel giorno del suo trentanovesimo compleanno. La sfida con un altro ragazzo che avrebbe potuto quasi essere suo figlio, un tipo soprannominato addirittura “Marathon Man”, perché, con quella fascetta tra i capelli un po’ alla John Rambo, a fine carriera potrà vantarsi di essere riuscito per ben 10 volte a rimontare uno svantaggio di due set a zero. Non quella notte, però. Contro un Jimmy Connors ai limiti dell’orgasmo agonistico, Krickstein fu lui vittima di una rimonta che probabilmente gli dà ancora gli incubi: vinse il primo set, ma perse il secondo al tie-break. Andò in vantaggio per due set a uno, ma non poté resistere all’impeto agonistico del rivale, che recuperò lo svantaggio e si impose al tie-break decisivo dopo aver rimontato anche da 2-5 nel quinto set. Fu così che Aaron il maratoneta passò alla storia per una battaglia persa, anziché per una vinta. Quando piove, a New York, ripropongono ancora sul maxischermo gli highlights di quella partita infinita che fece andare letteralmente fuori di testa il pubblico newyorchese, toccando punte di coinvolgimento raramente raggiunte in un match di tennis.

Ai quarti di finale ancora una vittoria in rimonta, contro Paul Haarhuis. Perso il primo set, con l’avversario che serviva per aggiudicarsi il secondo sul punteggio di 5-4, Connors fu capace di regalare alla storia del tennis un punto che viene ancora oggi soprannominato “the play” (“il punto” per antonomasia). Sulla palla break per rientrare in partita, il 39enne Jimbo resisté a quattro smash dell’avversario, controbatté all’ultimo con un formidabile dritto incrociato e, sulla volée di opposizione dell’olandese, passò con un grande rovescio lungolinea in corsa per poi andare a esultare come impazzito davanti alla prima fila del Centrale. Standing ovation!

Fu quello l’ultimo atto del suo straordinario US Open. La semifinale con Jim Courier finì forse ancor prima di iniziare. Troppo forte, troppo solido, troppo più giovane e più fresco Big Jim per essere spaventato da un avversario che era stato prosciugato dalla fatica e dalle emozioni dei turni precedenti. Finì in tre set facili, ma Jimbo ebbe comunque modo di regalare una sua perla al pubblico. Inciampando nel tentativo di effettuare un recupero, Connors finì per terra. Courier andò a sincerarsi delle sue condizioni chiedendogli il classico: «Are you alright?». Jimbo gli rispose con un memorabile: «Yes… And if I wasn’t?» («Sto bene… ma se non lo fossi stato?»). Fuori dal match, quasi umiliato dall’avversario Connors seppe ancora una volta ritagliarsi il suo momento, strappando un sorriso e un applauso anche al pubblico deluso, che avrebbe voluto vederlo in finale.

In finale ci andò invece l’altro Jim, che però dall’altra parte della rete trovò un Edberg ai suoi massimi. Oscurato dalle notti magiche di Connors, lo svedese si era fatto strada nell’altra parte del tabellone iniziando un po’ in sordina, ma crescendo progressivamente man mano che il torneo andava avanti. Dopo aver perso un set con Bryan Shelton al primo turno e uno con Jim Grabb al terzo (due giocatori classificati ben oltre i primi cento), Edberg diventò una macchina da guerra e andò a vincere il torneo con un percorso senza macchie.

Mentre l’anno dopo sarebbe riuscito a ripetersi grazie soprattutto al cuore e a un carattere che in molti gli disconoscevano, nel 1991 Edberg vinse lo US Open col gioco. Forse da quell’edizione di Flushing Meadows il tennis serve & volley non ha più raggiunto quelle vette di eccellenza e di efficacia. Lo svedese fu capace di alzare la coppa dopo aver portato a casa in tutto il torneo i due terzi dei punti sulle discese a rete. Una percentuale mostruosa per uno come lui, che a rete scendeva praticamente sempre, anche a seguito della seconda di servizio.

A New York Stefan non aveva mai brillato: troppo rumore e troppo vento per uno come lui, abituato alla tranquillità della Svezia o di Londra, la città in cui aveva stabilito la residenza nei suoi anni da professionista. Nel 1987 aveva buttato alle ortiche una semifinale con Wilander, perché la sera prima aveva giocato cinque set nella finale di doppio, vincendola al tie-break decisivo in coppia con Anders Jarryd contro Flach e Seguso.

Nel 1991 tutto iniziò ad andare alla perfezione a partire dagli ottavi di finale, che gli misero di fronte quel Chang che due anni prima gli aveva inflitto la più grande delusione della sua carriera, battendolo in finale al Roland Garros. Fu una partita straordinaria, mascherata dal punteggio abbastanza netto a favore dello svedese. Ma ci fu un contrasto di stili che oggi ormai non ammiriamo più, con un Edberg perfetto sempre proteso a rete, costretto a coprirla in tutta la sua larghezza, con allunghi al limite dell’impossibile, dai recuperi del cinesino che correva come un forsennato da fondocampo.

Dopo un quarto a senso unico con Javier Sanchez, arrivò la semifinale con Ivan Lendl, il match passato alla storia per “lo sgarro” che lo svedese si permise di fare a Ivan il terribile, replicando alla perfezione, a distanza di qualche game, un suo colpo effettuato da dietro la schiena, impattando la palla di dritto dalla parte del rovescio. Anche al coach Tony Pickard scappò un sorriso, mentre il grande Ivan, con il suo humor a volte nascosto da un atteggiamento arcigno, commentò sarcastico: «I guess anybody can make that shot…» («Credo che chiunque riuscirebbe a fare quel colpo…»).

La finale fu una dimostrazione impressionante di serve and volley: Courier, che aveva battuto Edberg nei quarti al Roland Garros (e che lo avrebbe battuto di nuovo nelle finali dell’Australian Open 1992 e 1993) quella volta non ci capì niente. Racimolò sei giochi in tutta la partita. Edberg perse in tutto il match solo 15 punti al servizio. Da quando ci era riuscito Frank Sedgman nel 1952, nessuno aveva ceduto così pochi giochi (16) negli ultimi due turni dello US Open. «Quel giorno è stato perfetto, non c’era un modo in cui avrei potuto vincere quella partita», avrebbe commentato Courier a distanza di tempo, mentre Edberg, ancora oggi, considera quella finale il match migliore della sua carriera. E poco gli importa che Connors gli avesse rubato la scena. Anzi, per uno come lui, meglio stare in secondo piano che sul palcoscenico della ribalta. «Jimmy ha davvero dato una spinta al torneo. Lo ringrazio. Ma quando tra cinquant’anni riguarderò l’albo d’oro accanto al 1991 leggerò il mio nome».

US Open 1991, un anno da ricordare

Mauro Cappiello

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