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10/10/2011 19:25 CEST - Storie di tennis

Djokovic, l'orgoglio della nuova Serbia

TENNIS - Novak Djokovic lasciò la Serbia nel 1999. Con talento e determinazione per provare che ci sono “anche dei serbi buoni”, ha lottato per arrivare in cima al ranking. Il padre per finanziare i suoi primi anni si fece prestare soldi ad alto tasso di interesse. I suoi compatrioti ora lo guardano come il nuovo simbolo della rinascita del PaeseMaik Grossekathöfer, Der Spiegel. Traduzione di Daniele Vallotto

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Potrebbe sembrargli una vita fa ma Novak Djokovic – il tennista più forte del mondo – può ricordare precisamente il suo dodicesimo compleanno. Non per i regali che ricevette ma per le bombe che furono sganciate sulla sua città natale, Belgrado, la capitale della Serbia. Era il 22 maggio 1999.

Festeggiavo il mio compleanno al Partizan Tennis Club, dove sono cresciuto” ricorda Djokovic. “Era mezzogiorno circa e i miei genitori stavano cantando 'Tanti auguri a te' quando cominciò l'attacco.

Ora che ha 24 anni, Djokovic guarda indietro a quel fatidico giorno. Siamo nelle catacombe della Belgrade Arena, due ora prima che la sua Serbia giochi contro l'Argentina nella semifinale di Coppa Davis, il più prestigioso torneo per squadre nel tennis maschile.

Djokovic indossa una maglietta bianca con lo stemma della Serbia davanti, ben in vista. È un uomo calmo, magro che parla lentamente ma pensa velocemente. Chiude gli occhi e pensa al suo dodicesimo compleanno. “All'improvviso le sirene cominciarono ad urlare e, subito dopo, i bombardieri stavano ronzando nel cielo” dice. “Erano proprio sopra la mia testa. Poi delle esplosioni tuonarono distanzi. L'elettricità venne sospesa.”

Apre ancora gli occhi. “Avevo paura” dice. Nel sessantesimo giorno dell'Operazione Forza Alleata, l'operazione Nato contro la Serbia, gli aerei alleati bombardarono la centrale termoelettrica di Veliki Crljeni, a sud di Belgrado. Djokovic siede su una sedia ed alza la voce. “La guerra mi ha reso una persona migliore perchè ho imparato ad apprezzare e a non dare niente per scontato” dice. “La guerra mi ha reso anche un tennista migliore perché mi promisi di dimostrare al mondo che esistono anche dei serbi buoni”.

Un serbo di cui essere orgogliosi

Per molta gente, ogni menzione alla Serbia evoca immagini di massacro, fosse comuni, colpa storica e declino morale. È una nazione che ha bisogno di un eroe, una nazione che ha aspettato a lungo che arrivasse qualcuno come Djokovic.

Belgrado è ricoperta di poster che mostrano la giovane star in pose vittoriose. Ci sono francobolli che portano il suo viso e il suo nome può essere trovato sugli accendini, sui sacchetti delle caramelle e sui portachiavi. Quando Djokovic ha vinto Wimbledon in luglio, vittoria che l'ha catapultato al primo posto della classifica mondiale, tutti i serbi erano in estasi. Un euforico presidente serbo ha offerto scherzosamente il suo posto a Djokovic mentre 100.000 fan in visibilio accoglievano il loro connazionale a Belgrado con canzoni tipiche, fuochi d'artificio e bandiere. E, naturalmente, Djokovic ha dedicato il suo trofeo alla sua Nazione. Dopotutto, è il volto della nuova Serbia, il simbolo della fenice risorta dalle proprie ceneri.

Scoperto da una leggenda

È cominciato tutto quando Djokovic venne scoperto, ancora bambino, dalla leggenda Jelena Gencic. “Dio Onnipotente ha mandato quel ragazzo” dice Jelena, una cortese donna dai capelli corti e bianchi. “Novak fa per la sua Nazione più di qualsiasi politico”. Jelena compirà 75 anni la prossima settimana ma la si può ancora trovare mente allena giocatori sui campi da tennis. Ha lavorato come direttrice televisiva per 45 anni. Prima di allora era stata membro della Nazionale serba di pallamano e aveva rappresentato la sua nazione nella Fed Cup, l'equivalente femminile della Coppa Davis. Gencic scoprì Monica Seles e poi, all'inizio degli anni '90, incontrò Novak Djokovic.

Il bambino d'oro

Nel 1993, Novak Djokovic, 6 anni, guardava il tennis in televisione per la prima volta. Il match era la finale di Wimbledon in cui Pete Sampras sconfisse Jim Courier. Recentemente erano stati aperti tre campi da tennis lungo la strada veso il ristorante dei suoi genitori. Quando Gencic cominciò ad allenare dei ragazzini, Djokovic stava davanti alla recinzione da mattina a sera guardando ammaliato.

Alla fine gli chiesi 'Hey, sai cosa stiamo facendo? Dai, vieni con noi'. Il giorno dopo era lì.” Djokovic aveva una borsa termica, una racchetta, un asciugamano, acqua, una banana, una seconda T-shirt e una fascia tergisudore. “Gli dissi: 'Tua madre ti ha preparato bene la borsa.' Questo lo fece arrabbiare e disse: 'L'ho fatta io. Io voglio giocare a tennis, non mia madre'. Era straordinario” ricorda Gencic.

Gli mostrò come tenere la racchetta in mano, come si corre e come si deve affrontare la palla. Tre giorni dopo, gli disse di portare da lei i suoi genitori. “Dissi loro che avevano un bambino d'oro.” dice Gencic. “Ero convinta che sarebbe stato tra i primi cinque del mondo a 17 anni. Erano senza parole”.

Allenarsi mentre scendono le bombe

Ma poi il conflitto col Kosovo raggiunse il culmine e il 24 marzo 1999 la NATO lanciò il suo primo attacco aereo a Belgrado. Per due giorni e due notti Novak, i suoi genitori e i suoi due fratelli si rifugiarono nel seminterrato del loro condominio prima di osare di tornare nel loro appartamento al secondo piano. “Eravamo gente semplice senza aiuto e alla mercé dei bombardamenti” dice Djokovic nello spogliatoio. “Decidemmo di continuare a vivere normalmente. Se fosse accaduto qualcosa, sarebbe successo.”

Azzardo per il futuro

Sei mesi dopo la fine dei bombardamenti, Gencic disse a Djokovic che non aveva più niente da insegnargli. Perciò chiamò Niki Pilic, un croato che era stato il miglior tennista yugoslavo e che aveva portato la Germania a vincere tre volte la Coppa Davis. Gencic chiese a Pilic, che dirigeva un'accademia di tennis a Oberschleissheim, vicino Monaco, di prendere Djokovic sotto la sua ala.

Ma le tasse erano costose. Nonostante Pilic offrisse un prezzo vantaggioso si trattava comunque di 5.000 marchi al mese. Il padre di Djokovic, Srdjan, si mise a cercare sponsor e addirittura investitori, ma nessuno era disposto a firmare. Si fece poi prestare dei soldi con dei tassi di interesse assurdi, una volta al 10% all'anno, un'altra volta al 15%. Srdjan azzardò e scommise tutto sul figlio. Se Novak non fosse diventato un professionista avrebbe mandato la famiglia in rovina.

Determinato ad essere il migliore

Niki Pilic dice che all'inizio si chiese se prendere Novak o meno. “Il conflitto nei Balcani era appena finito. Sono croato e lui è serbo. Forse perfino una parola sbagliata avrebbe potuto avere conseguenze disastrose. Ma poi pensai 'Anche mia moglie è serba e Novak è un bravo ragazzo. Proviamoci.'” Pilic fece servire il suo protetto conto un muro per ore per migliorare la tecnica e lo fece lavorare con un nastro di gomma per migliorare la flessibilità del suo polso. Procurò a Djokovic wild-card per quattro tornei e nel 2003 Novak vinse i suoi primi match da professionista. Due anni dopo era il più giovane tra i top 100.

Problemi politici

L'aprile successivo accadde qualcosa di cui nessuno della famiglia Djokovic vuole più parlare. Dato che la federazione serba non poteva sostenere Djokovic, Novak fu costretto a considerare l'idea di cambiare nazionalità. Sua madre parlò addirittura con la Lawn Tennis Association, la federazione britannica. “Alla fine” dice Djokovic “è stata una mia decisione di non farlo. Sono serbo e la Serbia è una parte di me.”

Quando si parla del Kosovo, Djokovic diventa un nazionalista. Suo padre è nato in Kosovo, come suo zio e sua zia. “È il luogo di nascita e della mia famiglia e della stessa cultura serba” dice. Le sue parole sono forti e possono calmare o scaldare le folle. Dopo aver vinto l'Australian Open nel 2008, mandò un video-messaggio a Belgrado dove 150.000 compatrioti stavano manifestando contro la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo. “Siamo pronti a difendere ciò che è giustamente nostro” disse. “Il Kosovo è serbo”. Quella notte dimostranti armati lanciarono pietre alle ambasciate di Croazia, Bosnia e Germania. Attaccarono anche quella americana e la incendiarono.

Era quello che intendeva? Djokovic è nella Belgrade Arena con le braccia incrociate sul petto. “Non mi pento di quel che ho fatto” dice. “Vogliamo giustizia, ma non possiamo averla”.

Un nuovo fuoco

Djokovic sostiene che, quando la squadra di Coppa Davis vinse il trofeo nel 2010, fu come un risveglio per lui perché ciò dimostrò cosa la sua nazione potesse ottenere. Fino a quel momento Djokovic era stato un buon giocatore, perfino nei primi cinque del mondo, ma tendeva a perdere i match chiave. Da allora ha cominciato a lavorare duramente. In aggiunta ad un nuovo preparatore fisico Djokovic si fa consigliare da un nutrizionista che ha anche studiato la medicina cinese tradizionale. È stato l'unico a scoprire che Djokovic è allergico al glutine. Da quando il serbo ha tagliato dalla sua dieta tutto ciò che contiene grano, segale e avena è diventato più brillante, più atletico e più agile.

Ora gioca in una maniera impressionante perché combina forze teoricamente opposte: concentrazione e frenesia, calma e ossessione. Sul campo è metà combattente di strada, metà artista. Usa il suo successo per fare l'ambasciatore, anche andando a ballare una danza folk serba alla TV americana.

Un salvatore mortale

Le aspettative di un'intera nazione sono riposte chiaramente sulle spalle di Djokovic. Janko Tipsarevic, il terzo tennista serbo, siede bevendo caffè. Il 27enne con tatuaggi sulle braccia dice: “Novak ci porta più vicini all'Europa. Continuo a dirgli: 'Un'altra vittoria, Novak, ed entreremo nell'Unione Europea.'”

A Belgrado, Djokovic sta giocando contro l'argentino Juan Martin del Potro. Colpisce un dritto ma il suo corpo lo tradisce. Quando Djokovic cade a terra, si sentono grida soffocate nelle tribune e sguardi preoccupati si rivolgono verso di lui. Un dottore lo controlla ma Djokovic deve ritirarsi dal match dopo essersi strappato un muscolo, dando la vittoria all'avversario per abbandono. Grida nell'asciugamano. È solo la sua terza sconfitta in 67 match. Dopotutto, Novak Djokovic, il salvatore della Serbia, è pur sempre un uomo.

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