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17/10/2011 14:27 CEST - International Press Clippings

Federer: “La fine non mi fa paura”

TENNIS – Lunga intervista di Roger Federer all’Equipe. “Ho iniziato a pensare al fatto di smettere quattro anni fa. Potrei lasciare il tennis con la coscienza tranquilla”. “Non vado in campo per accumulare il più gran numero di vittorie possibili” prosegue. “Mi piace trovare soluzioni ai nuovi problemi. Rende tutto più divertente”. Dominique Bonnot, L’Equipe Mag, traduzione di Alessandro Mastroluca

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Sabato 27 agosto, ore 10 agosto del mattino agli Us Open, Roger Federer è soddisfatto perché è riuscito a salvare la sua sessione di allenamento quotidiano nonostante l'avvicinamento dell'uragano Irene che costringerà il National Tennis Centre a chiudere le porte nel giro di 48 ore. Lo svizzero ci raggiunge con un passo leggero, un gran sorriso e una sincera stretta di mano. Avvicina una sedia, si siede. Per sicurezza riposiziona il registratore sul tavolo. Prima di iniziare, gli spiego che avrebo bisogno di attualizzare l'intervista alla fine del torneo. Per lui va bene e ci concede una delle poche interviste dell'anno.

Nessun titolo dello Slam, il suo posto di numero 3 minacciato (perso dopo la finale di Shanghai vinta da Murray, NdR) Federer cede il passo quest'anno ma uno dei più grandi tennisti della storia vuole chiudere in bellezza.

Per la prima volta dal 2002, non hai vinto nemmeno uno Slam in stagione: ti pesa?
Certo, è stata una stagione difficile, ma non mi sento frustrato. Bisogna riuscire a non preoccuparsi troppo per le sconfitte ma piuttosto andare avanti.

Ma che significa andare avanti per te, che sei considerato il più grande giocatore di tutti i tempi?
Vuol dire che la stagione non è ancora finita. Ho rinunciato alla tournée asiatica dopo aver giocato lo spareggio di Davis per la Svizzera, in Australia, ma ora non vedo l'ora di tornare in campo. Ho ancora delle chance importanti, a cominciare dal torneo "di casa" a Basilea e dal Masters di Londra. Credo che avrò ancora abbastanza motivazioni per il prossimo Australian Open e sono sicuro che continuare a lavorare duro, ora che sto bene fisicamente, finirà per dare i suoi frutti. E' da un po' che non mi sentivo così. E' un bene per me provare di nuovo certe sensazioni.

Tornare in vetta alla classifica non è una sfida fuori della tua portata, e potrei dire che l'idea stessa di sfida sembra essere il motore della tua vita...
Sfida, motore della mia vita? Non troppo, in verità...Sfida è quando vuoi riuscire in qualcosa per la prima volta. Una volta che l’hai fatto, giochi per il piacere di essere il migliore nel tuo lavoro e di guadagnare, ma non hai più niente da dimostrare. Quello che cambia quando superi l’ultimo step e ti avvicini alla parte finale della carriera è che, in fin dei conti, non ti puoi accontentare. I dubbi sulle mie capacità aumentano in relazione alle mie sconfitte. Vuoi provare al mondo, e te stesso, che puoi ancora vincere degli Slam e per questo devi battere Rafa e Djoko, ma anche Murray perché è capace di vincere contro noi tre.

Credi di poterlo ancora fare?
Non ho scelta. Quando sei al mio livello, non puoi certo accontentarti di passare un anno sul circuito perdendo sempre al secondo turno! Io non cerco di battere questo o quel giocatore, ma semplicemente di fare il massimo con i miei mezzi tenendo conto delle circostanze.

Quali circostanze?
A 30 anni non gestisco la mia carriera come facevo a 25. È normale, ho anche una famiglia ora. E questo esige un’organizzazione molto più importante che, per esempio, nel 2004 quando viaggiavo solo con Mirka. Era più facile, più flessibile, andavo dove volevo. Oggi è diverso far funzionare le cose con le piccole che viaggiano sempre con noi. Ma non mi lamento affatto, al contrario apprezzo tutti questi cambiamenti. Non vado in campo per accumulare il più gran numero di vittorie possibili. Mi piace trovare soluzioni ai nuovi problemi. Rende tutto più divertente. Sarebbe triste, se ripensi ai tuoi sogni di bambino, vivere la vita del giocatore di tennis in maniera totalmente routinaria. Perché si tratta di un rimettersi in gioco ogni giorno. Ora, quando vengo ad allenarmi alle otto di mattina, sono contento. Può funzionare o no, ma almeno cerco di fare del mio meglio. Di colpo, se le cose vanno, mi sento mentalmente più forte.

Infatti, cerchi sempre di scappare dalla routine?
Sì, decisamente. Mi piace trovare ispirazione da ambienti e situazioni diverse. Per questo mi sono allenato, per esempio, in Sardegna a un certo punto, poi in Svizzera, sto pensando di andare in altura uno di questi giorni, poi in Qatar o a Dubai. Quest’anno, per la prima volta, ho preparato gli Us Open allenandomi due settimane al Grasshoppers Club, a Zurigo, all’aperto: è stato un po’ rischioso perché il tempo è stato brutto, ma è andata bene. Una volta ho preparato gli Australian Open a casa di Tony Roche, a Sydney...Sono sacrifici, osservare la stessa routine sarebbe più facile ma alla fine posso dire: “Che esperienze ho potuto vivere!”. Ed è grandioso.

Guardando il tuo palmares, anche al di là dei famosi 16 titoli dello Slam, quanti record battuti! 23 semifinali di fila negli Slam eccetera...Eppure la gente dimentica: ti delude questo?
La gente dimentica, sì, me ne riparla quando per esempio uno come Djokovic ottiene dei risultati straordinari. I media vanno a sfogliare i libri di storia del tennis e trovano che: “Vedi, Federer ha già fatto lo stesso nel 2005 o non so quando...”. Purtroppo non molti si ricordano, ma forse la fine della mia carriera sarà l’occasione per rimettere insieme tutto quello che ho raggiunto. Quest’estate parlavo con Nalbandian a Cincinnati. All’improvviso mi chiede: “Quante partite hai perso tra il 2004 e il 2006?”. Preso di sorpresa, ho risposto: “Non lo so, scoprilo tu!”. (L’abbiamo fatto noi: 15. 6 nel 2004, 4 nel 2005, 5 nel 2006 NdR). Erano anni straordinari . Ho battuto 26 top-10 di fila, vinto 24 finali una via l’altra. A quell’epoca, ogni volta che arrivavo in finale vincevo!

È la ragione di tutte le domande che immancabilmente tornano sul fatto che non sei che numero 3 del mondo, dietro Djokovic e Nadal (4 dal 17 ottobre, superato anche da Murray, NdR), deve essere fastidioso, o no?
Sì e no. Approvo l’idea di una classifica ATP, ma questo mette molta pressione sui giocatori. Offre soprattutto molte storie da raccontare ai giornalisti. Fa parlare. Ma impedisce di vedere chiaramente che uno o più giocatori possono avere un livello super allo stesso momento. Si pensa sempre, e a torto, che ci sia solo un giocatore davanti e tutti gli altri dietro. Non è così facile.

Dici di non avere “paura di invecchiare”. E la prospettiva di dover un giorno smettere col tennis, ti preoccupa?
No, non più. Ho iniziato a pensare al fatto di smettere di giocare a tennis quattro anni fa ormai. Dopo tutto quello che ho fatto, potrei lasciare questo sport con la coscienza tranquilla. Quando è finita, è finita! Sono fiero della mia carriera e so che dopo il tennis avrò ancora tanti anni da vivere, spero, tanti obiettivi da raggiungere, in seno alla mia fondazione e in tanti altri campi, che la fine non mi mette certo paura. Soprattutto avrò più tempo da dedicare alla mia famiglia.

Da ragazzo eri timido e un po’ collerico: come hai fatto a diventare un uomo così aperto e pacato?
Non so a che età si diventa meno timidi. Ma verso i sedici anni è quanto meno normale essere timidi perché le ragazze della tua età non vogliono passare troppo tempo con te. Sono più mature di due o tre anni rispetto ai ragazzi della loro stessa età. Io avevo grande fiducia in me stesso come giocatore di tennis ma era difficile parlare davvero con le ragazze. Se mi piacevano davvero, mi sentivo insicuro. Ma col passare degli anni è passata, non so come né perché, ma penso che il fatto di incontrare tanta gente, anche tante ragazze, di essere circondato di adulti, mi abbia certamente aiutato a vincere la mia timidezza.

E il carattere un po’ ribelle, incline alla rabbia?
Questa è storia...Un giorno nel 2001, ho deciso che avrei chiuso la bocca sul campo. Per un anno e mezzo, diciamo, non sono stato benissimo, ero quasi troppo calmo! Non ero me stesso in campo. In più i miei risultati erano un po’ così (con la mano descrive delle montagne russe). Nel 2003, a Wimbledon, mi sono detto: “Piaccio agli altri e finalmente mi sento bene. Qualunque cosa succede, è così che devo essere in campo”. Appena i risultati mi hanno confortato, ho potuto concentrarmi solo sul tennis e tutto si è incastrato bene.

C’è una relazione di causa-effetto tra la sconfitta al primo turno al Roland Garros 2003 e la vittoria a Wimbledon subito dopo, come una sorta di ribellione?
Contro Horna, dopo aver perso il primo set mi ero detto: “Come potrai vincere questa partita? E se anche avessi la fortuna di uscirne bene, è impossibile che tu possa vincere altri 6 match di fila al meglio dei 5 set”. Ero numero 6 del mondo ma non ero pronto a giocare sette partite in 5 set. Mi sono vergognato. Mi sono detto: “A che serve giocare il Roland Garros se non ti senti capace di vincere sette partite di fila?”. Penso che mentalmente fossi poco più di un topo.

Cioè?
Piccolo e senza cervello (ride). Beh, per concludere, ho imparato molto da questa esperienza, è chiaro. Perché la stampa svizzera iniziava a criticarmi e ho detto: “Ok, non leggerò più i giornali!”. Per un mese mi sono concentrato solo sugli allenamenti. Alla fine, ha pagato.

Per te il tennis è un mezzo di espressione del sé? O un combattimento corpo a corpo come un incontro di boxe?
Credo che sia una combinazione delle due cose. È per questo che amo tanto questo sport, e che il tennis funziona così bene in televisione. Per questo è così palpitante vissuto dal vivo, perché gli stadi non sono immensi, c’è dell’atmosfera, c’è tanta gente ma è insieme intimo. Gli spettatori vedono bene i giocatori, le loro espressioni, sentono tutti i piccoli rumori, c’è questa dimensione del combattimento uno contro uno come nel pugilato, ma a distanza. Poi c’è, come nella boxe, la stretta di mano, come nel pugilato, un modo rispettoso per dire: “Bella partita, ho apprezzato che mi abbia fatto giocare bene. Grazie a te ho potuto esprimermi al meglio”.

Paul Annacone, il tuo coach, paragona la tua vita a una tragedia di Shakespeare in cinque atti: la vocazione, la vittoria su Sampras a Wimbledon, le prime vittorie negli Slam, l’accesso allo statuto di leggenda vivente...e il quinto atto quale sarà?
Un altro titolo dello Slam o forse l’oro in singolare alle Olimpiadi di Londra, a Wimbledon. Non l’ho ancora vinta quella medaglia e per me i Giochi olimpici hanno sempre rappresentato qualcosa di straordinario.

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