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30/11/2011 17:46 CEST - COPPA DAVIS

Quando ci fu il...Marplatazo

TENNIS – La Spagna è favorita, ma gli argentini sperano di ripetere a parti invertite l’incredibile finale del 2008, ricordata come il “Marplatazo” (in ricordo del "Maracanazo" dei Mondiali del 1950). Riviviamo, con dettagli inediti, l’impresa dagli spagnoli guidati da Emilio Sanchez ed esaltati da Feliciano Lopez. L’Argentina, strafavorita delle vigilia, seppe compiere il “suicidio perfetto”. Riccardo Bisti

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“Toglieremo a Nadal le mutande dal culo”. Questa affermazione (scherzosa ma non troppo) di Juan Martin Del Potro fu il primo atto della finale di Coppa Davis 2008. Protagoniste Argentina e Spagna, le stesse che si giocheranno l’Insalatiera 2011. Vale la pena ripercorrere i due mesi più folli nella storia del tennis argentino per capire cosa significa questa finale, programmata nell’immenso Estadio Olimpico “La Cartuja”. Per gli argentini, la Davis è un’ossessione. Nemmeno Guillermo Vilas è mai riuscito a vincerla. Nel 1981 ci andò vicino con l’aiuto di Josè Luis Clerc, ma il sogno si infranse in finale sul muro americano. 25 anni dopo, la generazione “Legionaria” (il gruppo di giocatori emerso sul finire degli anni 90 dopo un lungo periodo di crisi), guidata da David Nalbandian, arrivò a un passo dal trionfo. A Mosca, tuttavia, finì 3-2 con Safin in trionfo e Josè Acasuso in lacrime. Sogno rimandato ancora una volta. L’approccio degli spagnoli, invece, è più sereno. Nel 2000, un giovanissimo Juan Carlos Ferrero sigillò il primo storico successo battendo gli australiani a Barcellona (di quella squadra faceva parte – pensate un po’ - il carneade Juan Balcells). Nel 2004, proprio a Siviglia, fiorì la stella di Rafa Nadal. E nel 2009, il successo contro la Repubblica Ceca parve poco più che routine.

La scelta di Mar Del Plata
Insomma, la finale del 2008 era comprensibilmente più sentita dai sudamericani. Potevano giocarsela in casa, con tutti i vantaggi del caso. Il primo passo verso il suicidio perfetto lo commisero giocatori e capitano, scegliendo il sintetico indoor. La ragione era chiara: mettere in difficoltà Rafa Nadal, obbligandolo a giocare sulla superficie a lui meno congeniale. Il problema è che l’Argentina non pullula di palazzetti dello sport, e la politica coglie sempre l’occasione per mettersi in mezzo. Iniziò così un furibondo toto-sede che distolse l’attenzione più del dovuto. Nalbandian, in particolare, voleva che il match si giocasse a tutti i costi a Cordoba, presso il SuperDomo Orfeo. Voleva trionfare sotto casa, davanti ai suoi amici. Sembrava cosa fatta, tanto che gli operai avevano già iniziato le opere di restrutturazione. E invece, cogliendo tutti in contropiede, l’ITF decise di privilegiare la candidatura di Mar Del Plata (città natale di Vilas) e stabilì che il match si sarebbe giocato presso il Polideportivo Islas Malvinas, 8.000 posti a sedere estendibili a 10.000 (con grande fatica…). Qualcuno disse che Justine Albert, l’ispettrice dell’ITF, fosse rimasta folgorata dalla spiaggia e dall’orizzonte dell’Oceano Atlantico, e che il suo parere ebbe un certo peso. Di sicuro, come poi confessato da Miguel Margets, presidente del Comitato di Coppa Davis: “E’ stata la decisione più difficile della storia”. Dopo quel match, tra l’altro, l’ITF impose norme molto severe sulle possibili sedi per i match più importanti. Le finali di Davis, oggi, si devono giocare in una “Major City” che rispetti determinati requisiti. Gli stessi che –presumibilmente – Mar Del Plata non aveva.

Vigilia movimentata
400.000 abitanti in bocca all’Oceano, Mar Del Plata è soprannominata “La Feliz”. E’ il luogo dove i benestanti di Buenos Aires vanno in vacanza, o a trascorrere un weekend in panciolle. Eppure la povertà c’è, è vivissima e si annusa ad ogni angolo. Le strade della città stridevano con il clima sfavillante della Davis: hotel di lusso, un impianto rimesso a nuovo e tanta, tantissima polizia a separare le due realtà. A Mar Del Plata non andò Rafael Nadal. Sofferente alle ginocchia, preferì lasciare spazio ai compagni. Quella che per gli argentini avrebbe dovuto essere una bella notizia, paradossalmente, si tramutò in un boomerang. Emilio Sanchez, capitan simpatia, fu costretto a valorizzare Feliciano Lopez e Fernando Verdasco, due ottimi giocatori da campi veloci. Ciononostante, l’Argentina era ugualmente favorita. Nettamente favorita. Sembrava un trionfo annunciato. La settimana prima della finale c’era il Masters ATP, nella sua ultima edizione a Shanghai. Nalbandian aveva fallito la qualificazione, mentre per Del Potro era la prima volta. “Palito” decise di andare ugualmente in Cina, e si procurò anche qualche acciacco. Arrivò con pochi giorni d’anticipo, e i primi scricchiolii in seno al team argentino trapelarono anche a livello pubblico. Nalbandian era furioso: nella conferenza stampa alla vigilia si rifiutò di rispondere in inglese a un giornalista canadese. Al contrario, gli spagnoli erano nell’invidiabile condizione di non avere nulla da perdere. Accanto a Ferrer, capitan Sanchez scelse Feliciano Lopez. Ridevano, erano uniti, tranquilli, trasmettevano una delicata sensazione di Squadra con la S maiuscola.

Tre giorni di passione
Il 21 novembre 2008, i primi a scendere in campo furono Nalbandian e Ferrer. Il cordobese è uno dei top Davismen degli ultimi 20 anni, e scaricò sul campo tutta la sua rabbia. Vinse in tre set e si rivolse verso la “barra brava” di Mar Del Plata schiumando “Argentina! Argentina! Argentina!”. Ferrer, mesto, pronunciò la solita frase: “Semplicemente lui è stato più bravo di me”. Nel secondo singolare scesero in campo Del Potro e Lopez. Vinto il primo set, l’argentino iniziò ad avere problemi agli adduttori. Perse il secondo al tie-break, poi anche il terzo….e nel quarto non si reggeva in piedi. Finì 4-6 7-6 7-6 6-3 e l’Argentina piombò nel panico. Del Potro uscì tra le lacrime, e tutti capirono che non sarebbe più sceso in campo. Qui i fatti lasciano spazio alle leggende: pare che nello spogliatoio successe di tutto, con Nalbandian imbufalito con il compagno, soprattutto per la scelta (a suo dire folle) di andare a giocare il Masters. Con Del Potro in forte dubbio, il doppio assumeva un’importanza vitale. Lopez e Verdasco da una parte, Nalbandian e Calleri dall’altra. Fu un match aspro, nervoso, deciso dal tie-break del terzo set, vinto dagli spagnoli tenuti su da un Lopez monumentale, semplicemente perfetto. La gente di Mar Del Plata schiumava rabbia. Se la presero con Verdasco, intonando cori del tipo “Tiene miedo, Verdasco tiene miedo…”. Qualcuno arrivò a urlargli che Ana Ivanovic (sua fidanzata all’epoca)…lo stava tradendo. Aiutato da Emilio Sanchez e da Lopez, il madrileno rimase calmo e il match si risolse in quattro set. Per l’Argentina era un dramma. Nalbandian scappò via senza farsi la doccia, saltando anche la conferenza stampa, lasciando solo il povero Alberto Mancini, capitano ricco di cuore ma povero di carisma. I giornali e le TV argentine pregavano che Del Potro potesse scendere in campo nell’ultima giornata, contro Ferrer. Ma “Palito” non lo fece, forse anche indispettito dal clima in seno alla squadra, così – come due anni prima – Mancini dovette affidarsi a Josè Acasuso. Lo chiamano “El Chucho”, l’asinello, per le movenze lente e l’apparente pigrizia. Non esattamente il ritratto del Davisman. Sanchez, verificato il “bajon animico” di Ferrer, decise di mandare in campo un Verdasco galvanizzato dalla vittoria in doppio. Non fu un match bellissimo. Verdasco era più forte, e si vedeva. Acasuso le provò tutte, spinto dal pubblico e desideroso di cancellare il ricordo di due anni prima. Stava tre metri dietro la linea, remava con il drittone e spesso ricorreva al rovescio in slice perché la superficie veloce gli impediva di usare la sua maxi-apertura per il rovescione in top. Sbuffando e arrancando, quasi per miracolo, salì due set a uno. Ma lo sforzo era troppo grande. Il suo campo era una pista d’aeroporto, quello di Verdasco un tavolino da ping pong. Quando la benzina finì, raccolse 4 game negli ultimi due set, perdendo con il punteggio finale di 6-3 6-7 4-6 6-3 6-1. Un dritto lungolinea di Verdasco mandò la Spagna in paradiso e spedì l’Argentina nel più misero inferno. Acasuso finì in lacrime come due anni prima, ancora una volta consolato da Alberto Mancini e dai due “galli nel pollaio”, Del Potro e Nalbandian, che avevano seguito la partita ad almeno 10 sedie di distanza.

La leggenda del “Marplatazo”
Il patatrac argentino si consumò nella conferenza post-match, cui presero parte Mancini e Acasuso. Guillermo Salatino, il decano dei giornalisti specializzati argentini, si infuriò per l’assenza di Nalbandian alla precedente conferenza e diede vita a un talk show con Mancini, sottolineando tutte le mancanze “comunicative” del team argentino rispetto alle altre squadre. Scrosciante applauso dei giornalisti, che divenne un mugugno quando “Salata” disse che quel trattamento era riservato soprattutto ai due-tre giornalisti “Con prestigio. E qui siamo due o tre”. Una sparata che strappò un sorriso persino al distrutto Acasuso. Si sapeva che Mancini non sarebbe stato confermato: non c’era modo peggiore per chiudere quattro anni di capitanato, forieri di due finali e una semifinale. Eppure qualcuno arrivò a definirlo un “fracaso”. Mancini si difese con la consueta signorilità, forse la stessa che gli è costata il posto. La conferenza stampa degli spagnoli, accolti con un vigoroso applauso, verrà ricordata per il neologismo di un giornalista spagnolo: “Visto che questa vittoria era inaspettata come quella dell’Uruguay ai mondiali di calcio del 1950, quando Ghiggia e Schiaffino firmarono il “Maracanazo”…perché non parlare di “Marplatazo”?”. Il sorriso di Emilio (che da lì a poco si sarebbe dimesso) fu l’immagine più bella di una tre giorni fuori dall’ordinario. “Mi accusavano di non avere un piano B senza Nadal, invece ho dimostrato che non è così. E mi dispiace per tutti i giornalisti che hanno preferito non venire dopo che si era saputo del forfait di Nadal”. Il giorno dopo, Nalbandian convocò una conferenza stampa in cui si scusò con tutti giornalisti per il suo comportamento, rispondendo per un’ora esatta a una mitragliata di domande in una saletta con vista mare. Gli chiesero se i suoi obiettivi erano sempre gli stessi: vincere uno Slam, l’oro olimpico e la Coppa Davis. Lui rispose di si. Tre anni dopo, due di questi sono (probabilmente) svaniti. Resta la Davis, la benedetta Davis. Un incubo per tutti gli argentini. Stavolta è la Spagna a essere nettamente favorita, certo. Ma guai a dimenticarsi del “Marplatazo”. Certe cose possono succedere solo in Davis.

Riccardo Bisti

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