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29/12/2011 15:20 CEST - Personaggi

Connors: "Vivo per competere"

TENNIS – Jimbo, a 59 anni, tornerà in campo nella tappa del Champions Tour di Zurigo, in programma dal 20 al 24 marzo. Dopo 109 tornei vinti in carriera, secondo le statistiche ATP, Connors non è ancora stanco di giocare. “Mi piace dimostrare alla gente che si sbaglia quando dice che non sono più in grado di farcela” diceva negli anni '90, quando colse una clamorosa semifinale allo Us Open. Ma vale ancora oggi. Alessandro Mastroluca

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Ha lasciato il DNA là fuori. E non ha intenzione di smettere. Jimmy Connors tornerà in campo, a Zurigo, dal 20 al 24 marzo 2012, per la tappa del Champions Tour.

Nella città in cui è stato inventato il test di Rorschach, magari con la storica T-2000, a 59 anni si rimette alla prova il più freudiano dei tennisti, che per sé ha inventato un mondo, quello del counter-puncher: un modo di essere più e prima che uno stile di gioco. “Ha sempre dovuto odiare gli avversari per dare il meglio”, diceva di lui Chris Evert, che ne ha condiviso i primi successi e una love story da copertina con tanto di matrimonio programmato per la fine del 1974 e poi annullato.

Cresciuto dalle donne per battere gli uomini, per usare la definizione di Frank Deford che così titolava il suo profilo di Jimbo su Sports Illustrated dell’agosto 1978, ha preso da mamma Gloria un senso di inferiorità e insieme di rivalsa. Figlia di Al Thompson, poliziotto ed ex pugile Golden Gloves, aveva sposato James Connors, figlio del sindaco che aveva consegnato le chiavi di East St.Louis, miscuglio di operai bianchi e minoranze, a Harry Truman nella campagna per le presidenziali del 1948. Da ragazza, attraverso il tennis aveva cercato di farsi strada nel mondo degli snob tutti gesti bianchi e country club che vivevano dall’altra parte del Mississippi. Lei aveva scelto il tennis anche per Jimbo. Mentre lo porta in grembo, fa costruire un campo dietro la loro casa al n.632 nord della 68ma Strada.

Dalla mamma ha avuto un amore totale e insieme esclusivo, Gloria ha cancellato la figura del padre dalla vita di Jimmy e per anni l’ha tenuto in un soffocante abbraccio di protezione. Si è trovato adulto senza essere cresciuto. Un episodio su tutti racconta lo spirito del loro legame. Prima della finale di Wimbledon del 1975, poi persa contro Ashe, Connors è all’ospedale del Chelsea. Durante il match di primo turno contro John Lloyd si è procurato un’infiammazione ai muscoli tibiali che si fa curare con l’elettro-terapia. Il manager, e per Jimbo anche figura paterna, Bill Riordan gli dice che l’infortunio sta peggiorando e che giocare la finale potrebbe mettere a rischio la sua carriera. Connors non può rinunciare a giocare la finale dei Championships. Prima che Riordan esca dalla porta, Jimmy lo chiama e gli sussurra all’orecchio: “Bill, per favore non dire niente a mamma”. Jimbo era un ragazzo di quasi 23 anni che aveva già vinto tre Slam nel 1974, gli Australian Open, Wimbledon, gli Us Open sull’erba di Forest Hills (lasciando due game a Rosewall in finale).

Eppure sembrava sinceramente confuso del fatto che tutti questi successi non erano bastati a conquistare il cuore e l’attenzione dell’ambiente tennistico. Nessuna collezione di vittorie, infatti, come scrive Joel Drucker nel suo intenso Jimmy Connors mi ha salvato la vita (forse il miglior libro mai scritto sul significato che ha un campione di tennis), aiutò mai il clan Connors a considerare il tennis qualcosa di diverso da una guerra. In fondo, Gloria gli aveva sempre detto che l’ambiente tennistico non voleva avere niente a che fare con lui e gli aveva insegnato un modo di giocare da fondo tutto anticipi e corsa perfetto per battere gli aristocratici giocatori di serve and volley cresciuti sui campi in erba.

E “un uomo che è stato l’indiscutibile figlio prediletto di sua madre” diceva Freud, “conserva per tutta la vita il sentimento del conquistatore, la fiducia nel successo che spesso induce il vero successo”. Mai descrizione è stata più azzeccata per Jimbo, che non voleva restare in circolazione se non riusciva ad essere il migliore del mondo, che vinceva rendendosi detestabile con tutto il corollario di proteste, prese in giro e scorrettezze.

Ma se sono state due donne a farlo crescere, mamma Gloria e nonna Bertha (mamma-Due, che aveva convinto Gloria della necessità di una figura maschile per Jimbo e “scelto” Riordan), è stato Pancho Segura a insegnargli a “pensare come un uomo”.

La sua immagine di giocatore cambia nel 1982. Il bizzoso cocco di mamma non vinceva uno Slam da quattro anni, ma continuava a crederci mentre il “Teen Angel” Borg, alle prime sconfitte contro un ancor più bizzoso “Super Brat” aveva scelto una fuga frettolosa per poi annunciare il ritiro al Masters del 1983. Per Connors, scriveva Bodo su Tennis nel gennaio ‘83, “il 1982 è stato un anno di cristallizzazione”, in cui ha vinto Wimbledon in finale su McEnroe e domato Lendl per trionfare nel torneo che per lui più conta e che ha vinto su tutte le tre superfici su cui si è giocato: erba, terra verde, duro. “La mattina dopo la sua vittoria agli Us Open, si è svegliato come un uomo che ha una storia, un uomo che alla fine è stato recepito dal pubblico in un contesto più ampio e più ricco di prima. Ora è un eroe, ripagato per tutte quelle finali e semifinali dove è uscito sconfitto malgrado tutti i suoi sforzi”.

Ma la sua fiducia in se stesso non era mai venuta meno: per quanto gli infortuni, le condizioni, gli avversari lo mettessero in difficoltà, Connors accettava la lotta. Così riuscì a rimontare Lendl (avanti 3-1 nel terzo) nella finale degli Us Open 1983, nell’ultimo Slam della sua carriera. Così, alla fine, era anche riuscito a farsi amare dal pubblico, non solo newyorchese. Anche se era un amore “alla citizen Kane”, alle sue condizioni, le uniche che chiunque abbia mai conosciuto.

Sotto la scorza del conquistatore, c’era un uomo che voleva piacere alla gente, che amava l’apprezzamento e gli applausi. Un uomo che odia e ama, anche se non è sempre facile capire come possa fare. E che simbolicamente aveva chiuso, perdendo da McEnroe, il primo SuperSaturday, organizzato nel 1984 per volere della CBS, che deteneva i diritti tv degli Us Open. “Il ragazzino che aveva iniziato a esibirsi per due donne” scrive ancora Drucker, “adesso faceva esultare migliaia di persone con ogni parola, gesto, passo, colpo”.

Erano in ventimila, ma sembravano sessantamila, nell’ultima grande recita di Connors, nel giorno del suo 39mo compleanno, l’età che diceva di avere sempre Jack Benny nei suoi celebri sketch alla radio: gli ottavi del 1991 a Flushing Meadows contro Krickstein, di 15 anni più giovane. Perso il primo, Jimbo serve avanti 5-1 40-15 nel secondo, ma tutto va storto e si arriva al tiebreak. Sul 7-7 Connors torna quello di sempre. Il giudice di linea dà buono uno smash di Connors, l’arbitro David Littlefield, che è dalla parte opposta del campo, la giudica fuori e dà il punto a Krickstein: “Era chiaramente fuori, gli dice”. Connors esplode: “Chiaramente un cazzo! Giù da quella sedia! Lei non vale niente. Sono qua a farmi un culo così a 39 anni e lei mi fa questo?”. Jimbo vince il tiebreak, ma molla il terzo, che finisce 6-1. Avanti 4-2 nel quarto, inviterà l’arbitro a baciarlo prima di decidere su un’altra palla dubbia. Con un capolavoro di motivazione e longevità chiude 6-4 al quinto con un’ultima volée vincente mentre il pubblico sul campo 11 esulta come mai prima a New York e intona “Happy Birthday”.

Dopo, solo l’ultimo tango a Parigi, l’uscita di scena per ritiro, ma in vantaggio di un punto, contro Chang al Roland Garros, l’unico Slam che gli è sfuggito. L’intrattenitore si prende gli applausi e se ne va. Si è fatto odiare, si è fatto amare, ha odiato perdere più di quanto abbia amato vincere, ma è rimasto immutabile, coerente con se stesso. “In tutta la sua vita”, ha detto Ashe, che l’ha battuto nella finale di Wimbledon del 1975 e che da presidente dell’ATP gli aveva impedito di partecipare al Roland Garros del 1974 perché iscritto all’associazione “rivale” di Riordan, “Connors è stato abituato a non fidarsi di nessuno e a non curarsi di nessuno se non di se stesso. Non ha mai voluto capire la dinamica del gioco di squadra”. In Davis, infatti, ha giocato poco, e vinto ancora meno, con un ruolo da comprimario nella finale persa sulla terra indoor di Goteborg nel 1984 (con Ashe capitano): ha giocato e perso nettamente il primo singolare contro Wilander.

Segue la parentesi da allenatore di Roddick e qualche sporadica presenza nel senior tour. In fondo, come diceva all’inizio degli anni ‘90, “cos'altro posso fare in cui possa guadagnarmi da vivere in questo modo? Ma al di là di questo, mi piace giocare. Mi piace competere. Io vivo per competere. Per di più, mi piace dimostrare alla gente che si sbaglia quando dice che non sono più in grado di farcela”. A 20, a 39 come a 60 anni. È questo il suo DNA.

Alessandro Mastroluca

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