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27/02/2012 13:08 CEST - Rassegna Stampa del 27 Febbraio 2012

Intervista ad Adriano Panatta: "In Italia servono maestri. Ero lì lì per allenare Federer" (De Martino). Lodi in lutto per la scomparsa di Lino Ballardini (Ravera)

27-02-2012

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Rubrica a cura di Daniele Flavi

Intervista ad Adriano Panatta: “in Italia servono maestri”

Marco De Martino, il messaggero del 27.02.2012

«Il fenomeno telo manda Dio ma te lo devi meritare. I nostri coach sono motivatori ma non sanno insegnare nemmeno il servizio» Il tennis italiano è salvo. Lunedì scorso è nato Adriano, il nipotino di Adriano Panatta, e quindi anche questo nostro strambo paese pieno solo di tennisti della domenica avrà finalmente intorno al 2032 un campione: «Lo allenerò e cercherò di farlo diventare un giocatore vero, aspettavo questo regalo da tempo. Tre anni fa, tramite il tour manager dell'Atp Vittorio Selmi ebbi un pourparler con Roger Federer ma poi non se ne fece più nulla, anche perché io non potevo passare otto mesi l'anno in giro per il mondo. Però la voglia è rimasta: in Italia non si insegna più tennis, si è perso il gusto della tecnica, conta solo il fisico, la corsa e il sollevamento pesi...». Sulla terrazza del Circolo Canottieri Aniene un pallido sole d'inverno intiepidisce l'aria, mentre in basso il Tevere scorre languido e il vento spazza via i colori di una mattina dove tutto è nitido come appena disegnato dalla punta di una matita. Adriano Panatta è di buon umore: «Le coppe di Roma e Parigi mi sa che le ho perse, non le trovo più, dev'essere stato durante uno dei tanti traslochi che ho fatto dai Parioli, al Fleming, a Trastevere, all'Eur. Ma Roma resta una città unica e capace ad ogni angolo di regalarti sorprese». Da quanto tempo non mette piede al Foro Italico? «Non ci vado dal 2002 perché penso di non essere gradito. In ogni caso non mi manca. Da piccolo sognavo di vincere Roma, Parigi e la Coppa Davis e ci sono riuscito, in più ho battuto tutti i più forti, sono stato numero 4 del mondo, ho vissuto grandi emozioni e tante altre ne ho date - almeno spero - e quindi sono a posto con la mia coscienza. Semmai, è vero che per colpa del mio carattere troppo sensibile non mi sono goduto nemmeno quelle vittorie. Dopo l'euforia del primo momento, infatti, ricordo che sono sprofondato nella tristezza più nera. Ok, mi sono detto, hai vinto Roma e Parigi. E allora?». Avrà perso le coppe, ma l'albo d'oro resta. Dal suo Roland Garros del 1976 ad oggi, sono 143 Slam consecutivi che un italiano non gioca una finale in un torneo vero. Com'è possibile? Gli e lo chiedono mai? «Tutti i giorni, me lo chiedono tutti i giorni, ma è talmente strano che ora la situazione si è cristallizzata. Negli anni Ottanta e Novanta abbiamo avuto anche buoni giocatori, Gaudenzi, Camporese, Canè, ma purtroppo mai uno tra i primi dieci capace di trainare il movimento. Mammoni? Non credo proprio: anche Nadal starà bene a casa sua a Majorca, solo che ci sta 20 giorni l'anno. E' disciplina». Il vecchio presidente Galgani diceva che il campione te lo manda il Padreterno... «Vero, lui te lo manda, ma il fenomeno te le devi meritare perché se ce l'hai e non lo trovi, non lo vedi, quella sì che è una sciagura. Io dico sempre che servono tre passaggi. Il primo: uno che capisca se quel bambino può diventare forte. Il secondo: uno che gli insegni a giocare a tennis. E poi il terzo, uno capace di insegnargli a vincere, che è tutto un altro sport, un altro lavoro. Se manca solo uno di questi tasselli, è finita. In Italia i maestri hanno smesso di insegnare a giocare a tennis, prendono solo uno alto due metri e lo buttano dentro. E poi hanno smesso anche di insegnare a servire, gli italiani battono peggio di tutti e questo con le racchette di oggi non te lo puoi permettere. Il fatto è che i coach di adesso non sanno insegnare, non sanno proprio come si fa, sono solo dei bravi motivatori». Il primo italiano in classifica è Seppi, numero 44. Davanti a lui ci sono giocatori delle solite nazioni guida ma anche ucraini, tedeschi, croati, brasiliani, canadesi, sudafricani, austriaci e persino un giapponese, un paese notoriamente con grandissima tradizione tennistica... «E' quello che ci meritiamo. Leggo che abbiamo più di tremila circoli, tre milioni di praticanti, decine di migliaia di agonisti, eppure nemmeno mezzo giocatore di vertice. Sa cosa le dico? Guardi il golf. Il presidente Chimenti ha seminato bene, ha spinto con la promozione, ha seguito circoli e bambini e ora si ritrova due campioni come i fratelli Molinari, un giovane fenomeno come Manassero che tutto il mondo ci invidia e altri quattro giocatori sul tour. Si può fare, non è impossibile». Beh, il tennis italiano ha le donne... «Schiavone e Pennetta, brave. Ma il tennis femminile è un altro sport, non si può fare un paragone. Guardi la numero uno, nell'ultimo anno è cambiata dieci volte, e poi hanno un solo schema, botta da fondo, urlo e via andare». In Italia negli ultimi quarant'anni ci sono stati solo tre presidenti della Fit. Che ne dice? «Che è lo specchio del Paese, che è il sistema Italia e dello sport italiano, tutti modellati a forma di poltrona e quindi le dimissioni non esistono nemmeno se finisci in B o addirittura in C. No, un dato del genere non mi sorprende proprio». Dei suoi compagni di Davis sente qualcuno? «Bertolucci per forza, è uno dei miei migliori amici, e anche Zugarelli, ogni tanto giochiamo insieme a golf. Barazzutti no. Pietrangeli l'ho incontrato qualche mese fa a casa di amici». Si ricorda la prima vittoria contro di lui nella finale degli assoluti nel 1980 a Bologna? «Che partita, che emozione. Ero sotto due set a uno e vinsi il quarto 10-8, poi mi scappò ancora 4-1 nel quinto ma rimontai e chiusi 6-4. Io avevo 20 anni, lui 37». Agli Internazionali del 1976 il più incredibile incontro di tennis che Roma abbia mai vissuto in 2.765 anni di storia. Primo turno e 11 match-point annullati a Warwick... «Di cui 10 sul suo servizio... Ero sotto 5-1 al terzo set, poi 5-2 40-15, poi 5-4 40-0, poi 6-4 al tie-break, ricordo che mi buttai a rete su ogni punto e successe di tutto, voleé in tuffo, net, smash e un centrale trasformato in Colosseo. Qualche mese dopo incontrai di nuovo Warwick al Queen's di Londra, gli annullai sette set-point e vinsi il primo set, al cambio di campo mi venne a un centimetro da naso e mi disse: "Mi hai rotto le scatole, non ti voglio più vedere" e se ne andò. Era ancora sconvolto». Quando si dice il destino... «Come a Parigi, primo turno e match-point annullato al ceco Hutka con una voleé in tuffo, era proprio il mio anno». Perse anche con un cameriere, tale Szoke... E fece a botte in Spagna... «Ma quale cameriere, il padre di Szoke gestiva la mensa dell'aeroporto di Budapest ma era numero 30 del mondo... In Spagna in Davis invece giocai a risultato acquisito contro un ragazzino, Soler, perché Zugarelli si era scordato la roba in albergo, presero a insultarmi dal primo punto e così persi 60 60 in dodici minuti. Risposi solo ai cazzotti che mi diedero alla fine. Ma avevo battuto Orantes e vinto il doppio, avevamo battuto la Spagna a Barcellona, era poco?». Rimpianti? «Il titolo di Wimbledon buttato via nel 1978 perdendo un match già vinto contro Dupré, un incontro passato alla storia perché per la prima volta il TG delle 20 cominciò in ritardo perché Rail stava seguendo il mio match. Ancora oggi sono sicuro che avrei battuto Tanner in semi e Borg in fmale». E la cosa più bella? «Quando ho incontrato Rosaria, che poi sarebbe diventata mia moglie. Fu a Montecatini, al ristorante dell'hotel Tamerici. Appena la vidi pensai: questa me la sposo. Avevo 23 anni e dicevano che ero un play-boy, il prossimo mese facciamo 37 anni di matrimonio».

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Lodi in lutto per la scomparsa di Lino Ballardini

Fabio Ravera, Il Cittadino di Lodi

Lodi piange Lino Ballardini, una delle figure più conosciute dello sport locale. L’ex presidente del Fanfulla calcio e personaggio di spicco nel panorama tennistico italiano, nonché fondatore dello Sporting Club Isola Bella, la “cittadella sportiva” che sorge in riva all’Adda, si è spento nel primo pomeriggio di venerdì all’età di 80 anni all’ospedale di Lodi, dove era stato da poco ricoverato in seguito a una crisi respiratoria.

Fino allo scorso agosto Ballardini aveva continuato a lavorare nel centro in via Mosè Bianchi che lui stesso aveva creato nel 1981, diventato negli anni un punto di riferimento per tutti gli appassionati di tennis, calcetto, nuoto, spinning e fitness. «Purtroppo dopo la rottura del femore, lo scorso agosto, la situazione è degenerata - racconta commosso Marco, uno dei tre figli di Lino Ballardini -. Mio padre soffriva del morbo di Parkinson ma questo non gli impediva comunque di lavorare: era un uomo molto attivo, non era capace di stare fermo».

Originario di Milano, Ballardini arrivò a Lodi all’inizio degli anni Ottanta. Proprio a quel periodo risale il suo avvicinamento e il suo ingresso nei ranghi societari del Fanfulla, prima come amministratore delegato e poi come presidente, fino a che il club, tornato in Interregionale dopo le stagioni in C1 e C2, non fu rilevato dal duo Minojetti-Jacopetti.

Ma fu soprattutto nel tennis che Ballardini diventò una figura di primissimo piano. A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, lo Sporting Isola Bella si trasformò infatti in una fucina di aspiranti campioni della racchetta, ospitando la prestigiosa Tennis Academy di Nick Bollettieri, l’ex allenatore del fuoriclasse americano Andre Agassi. In quegli anni a Lodi si alternarono alcuni dei migliori prospetti del tennis italiano, ma la fama dei campi di via Mosè Bianchi raggiunse l’apice quando, a inizio degli anni Novanta, per alcune settimane arrivò ad allenarsi, insieme al lodigiano Nicola Bruno, un certo Bjorn Borg, il celebre tennista svedese che all’epoca stava cercando di riprendere la forma per tornare nel circuito professionistico.

L’attività di Ballardini si concentrò anche nella politica sportiva (organizzò una cordata per sfidare il potente presidente della Federtennis Paolo Galgani) e nell’editoria: rilevò infatti la testata «Il tennis lombardo», portandola a Lodi con il nome «Il giornale del tennis», una rivista diretta da Tiziano Crudeli sulla quale scrissero penne prestigiose come Rino Tommasi, Gianni Clerici e Ubaldo Scanagatta. Tennis e calcio rimasero sempre le sue grandi passioni: in ufficio teneva una foto con il Fanfulla sul campo del Bologna, un ritratto al Foro Italico insieme a Bollettieri e Andre Agassi e una dedica che gli aveva mandato lo stesso Agassi dopo aver vinto il torneo di Wimbledon.

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