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07/03/2012 12:19 CEST - Personaggi

Ivan Lendl
Gli devono molto

TENNIS – Omaggio a un campione che ha guidato i grandi della generazione successiva, a cominciare da Pete Sampras, sulla strada del rigore, che ha insegnato loro che si può riemergere da qualunque sconfitta. Vincent Cognet, Tennis de France, aprile 1995. Traduzione integrale di Alessandro Mastroluca

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Sfortunatamente, non potrò mai capire a fondo il tennis. Come il golf, è uno sport che non si può padroneggiare del tutto, perché compaiono costantemente degli elementi nuovi”. Il giocatore che si esprimeva così l’anno scorso non fa parte della popolazione di onesti mestieranti del tennis, che cercano ogni settimana di tirare la palla di là sperando semplicemente di vederla passare sopra la rete.

No, queste parole appena un po’ disilluse sono di Ivan Lendl. Avete letto bene: Ivan Lendl. Ovvero il top player che ha tutti i record, la razionalità fatta professionista, il gigante degli anni ‘80, l’uomo che ha voluto sfidare la sorte. Qualcosa come un Einstein che ha preteso di ignorare tutte le leggi dello spazio-tempo. Per quanto paradossale possa apparire, questa dichiarazione riassume a meraviglia il personaggio Lendl. C’è tutto, in sintesi. Svela sia la filosofia (il lavoro chiave del benessere) sia la frustrazione (c’è sempre da imparare) di un giocatore unico nel suo genere, “quintessenza del perfezionismo auto-punitivo” per usare le parole di un giornalista di Liberation.

Nessuno, più del ceco diventato americano, aveva a tal punto piegato il suo corpo, il suo spirito, la sua famiglia, il suo staff (e per dirla tutta, la sua vita) a quello che considerava il solo obiettivo degno di questo nome, la ricerca della perfezione. Il fatto che questo forzato del lavoro esprima ancora dei rimpianti al crepuscolo di una carriera favolosa illumina l’uomo sotto una luce sorprendente: schiettamente “masochista”, mai contento?

Per comprendere bene il fenomeno Lendl, bisogna analizzarlo alla luce del contesto dei primi anni ‘80. Avviato al tennis da una madre autoritaria, presto messo di fronte alla rivalità con giocatori più dotati (McEnroe), più combattivi (Connors) o più carismatici (Noah), poco amato dal pubblico, il ceco sperimenta in questi anni i primi segnali di una frustrazione che tenderà a peggiorare. Di certo, guadagna già molti soldi. Fa regolarmente parte dei tre migliori giocatori del mondo. A ventun anni ha già partecipato alla prima finale dello Slam (Roland Garros ‘81). Ma le tre sconfitte successive (Us Open ‘82 e ‘83, Australian Open ‘83) fanno più che rendergli la vita impossibile. Lendl dubita. Terribilmente.

Non del suo valore, che nessuno si sognerebbe di contestare, ma delle sue capacità di reggere fisicamente, e soprattutto mentalmente, le pressioni di una carriera ad alto livello. A quell’epoca la definizione di Connors, che parlava di lui come di un “coniglio”, diventa il curriculum vitae del giocatore che ogni avversario sogna di affrontare in una partita combattuta. È una rimonta da uno svantaggio di due set in una delle finali più drammatiche dell’era Open che Lendl nasce al tennis una prima volta. Domenica 10 giugno 1984, contro John McEnroe, sul centrale del Roland Garros, Ivan si piega, resiste, suda, soffre ma alla fine vince dopo quattro ore di battaglia che lo lasciano esangue, al punto che passa un’ora in un bagno nel ghiaccio negli spogliatoi.

Quel giorno, non vince solo una finale persa dieci volte contro un avversario dieci volte più talentuoso, ma soprattutto domina il suo nemico più feroce e il più pericoloso dei mali: la paura (di vincere). Non restava che trasformare questa circoscritta vittoria in un trionfo seriale. Un anno e mezzo più tardi, la metamorfosi è completata, il coniglio ha lasciato il posto a un formidabile gallo da combattimento,aizzato dall’orgoglio.

La svolta più importante della carriera di Lendl arriva a cavallo tra il 1984 e il 1985. Facendo appello, quasi simultaneamente, a tre specialisti, cancella uno a uno tutti i suoi punti deboli, di ordine fisico, tecnico e mentale. Il primo di questi mentori si chiama Robert Haas. Rinomato dietista (è lui che ha trasformato Martina Navratilova in un’atleta straordinaria), incontra Jerry Solomon, agente e confidente del ceco. “Gli ho detto che non sapevo esattamente definire il problema di Ivan, ma che se si trattava di forma e di resistenza, ero sicuro di poterlo aiutare”.

Prima decisione di Haas: ordinare un’analisi del sangue. I risultati rivelano subito che Lendl soffre di un eccesso di protidi e che il tasso di colesterolo è ampiamente sopra la media. “All’epoca” ricorda Ivan, “mangiavo una mezza dozzina di uova strapazzate a colazione, due o tre hamburger a pranzo, con tanto di Coca Cola, e una bistecca la sera. Mangiavo qualsiasi cosa. Se non mi avesse fatto male, anche il cibo per cani sarebbe andato bene”. In poche settimane, il goloso made in Usa, si sottopone a un regime alimentare drastico: acqua, frutta, zuppa, petto di pollo e, soprattutto durante i tornei, pasta, pasta, pasta.

I cambiamenti non si fanno attendere. Anche perché il buon dottore aiuta il suo “paziente” a elaborare un programma di allenamento fisico degno di Sparta. Lendl acquista attrezzi mobili, uno stairmaster, una sorta di scala da pompiere per far lavorare la parte alta del corpo, una bici (una mountain-bike, prima che diventassero di moda). E siccome il suo gioco di gambe rimane malgrado tutto insufficiente, infila una tutina da ginnastica e, su consiglio di un’amica, si iscrive a un corso...di aerobica! Ridicolo? Forse. Ma diabolicamente efficace: la silhouette del ragazzo fragile e ossuto lascia a poco a poco spazio a quella di un giocatore dalle cosce muscolose e con un torace da boxeur.

Un secondo personaggio chiave contribuisce a trasformare Ivan il Vigliacco in Ivan il Terribile. Nel gennaio 1985, ovvero quattro mesi dopo essersi fatto strigliare da John McEnroe in finale agli Us Open, incontra un giovane psicologo, Alex Castori. “Avevo paura di penetrare profondamente dentro di me e non trovarci niente” spiegherà più tardi. “Ma se non avessi trovato il coraggio di farlo, allora avrei continuato a lamentarmi per un sacco di tempo”. Con la stessa serietà e la stessa abnegazione che aveva messo nel forgiare fisico e tecnica, Lendl decide di costruirsi una psiche di ferro.

Lavora sul rilassamento (a volte lo si poteva sorprendere ad ascoltare delle cassette negli spogliatoi), sulla capacità di abbandono, ma soprattutto si dedica a esercizi quotidiani di visualizzazione. Il principio è semplice. “Vedere” e descrivere i suoi gesti nei minimi dettagli. Esempio: “Io, Ivan Lendl, giocatore di tennis, raccolgo questa palla, ne scelgo un’altra, getto la prima, mi sistemo vicino la riga di servizio, faccio rimbalzare la palla” eccetera. I risultati, soprattutto nelle finali Slam, sono stupefacenti.

Ormai sicuro della sua forza , impermeabile a ogni forma di pressione, con la sua potenza domina il circuito. Usa perfettamente le sue rare sconfitte (13 su 171 match tra il 1985 e il 1986) per progredire: “Cerco semplicemente di considerare il mio tennis come un progetto a lungo termine e ogni partita come un coach che si domanderebbe perché il collega Ivan Lendl non ha accompagnato meglio i passanti, perché il suo rovescio slice si lasciava cadere invece di filare come previsto e così via. E così mi tolgo dalle spalle una buona parte di pressione”. Alex Castori, impressionato dall’aver scovato una cavia così docile, commenta: “Lendl è estremamente facile da 'domare'”.

Ma tutti i suoi sforzi sovrumani si sarebbero potuti rivelare vani senza l’arrivo al suo fianco, nel 1985, di Tony Roche, ultimo componente del trio lendliano vincente. Grande campione del passato, anche lui maniaco del lavoro, viene chiamato per compiere una doppia missione: soprattutto, abituare il suo nuovo allievo a giocare contro un mancino (e permettergli così di battere John McEnroe, la sua bestia nera), poi aiutarlo a trovare le chiavi per giocare bene sull’erba e vincere Wimbledon.

Il primo obiettivo sarà raggiunto al di là di ogni rosea aspettativa: già a settembre 1985 il gioco più aggressivo (perché molto più offensivo) del ceco annienta Mac a casa sua, a Flushing Meadows. Il secondo è destinato a restare nel dominio dei sogni, pur avendo giocato due finali, nel 1986 e 1987.

Dopo quella vittoria, perfettamente allenato, carico di fiducia, Lendl sfida l’ignoto, domina il circuito per tre anni, monopolizzando la vetta della classifica dal 9 settembre 1985 al 5 settembre 1988 (157 settimane di fila!). Il suo gioco guadagna ancora potenza, soprattutto dalla parte del rovescio. Non disdegna più di venire a rete per chiudere il punto, grazie a Tony Roche), e anche gli spostamenti migliorano. Poiché i suoi punti di forza (servizio, diritto) non perdono efficacia, i risultati seguono: 94 titoli (di cui 8 Slam), 20.512.417 dollari di montepremi e una presenza costante nella top-10 (13 anni di fila). L’ex campione del mondo della preparazione è diventato campione e basta.

Precursore nel campo dell’allenamento, Lendl non tarda a trovare degli emuli nella generazione successiva. Spinta verso l’alto da un tale fenomeno, la concorrenza (prima Wilander-Becker, poi Courier-Sampras) si mette a copiare o comunque adattare una modalità di preparazione simile alla sua. Ed è in questo, più che per il suo palmares, che Lendl avrà un’influenza decisiva sul tennis degli anni ‘90. Perché (quasi) tutti i migliori giocatori del mondo hanno fatto propria la lezione del maestro, “devo tutto al lavoro”. Che il più talentuoso tra questi abbia fatto sua una tale professione di fede prova meglio di lunghi discorsi la ricchezza dell’eredità.

Molto dotato, ma un filo dilettante, passata l’adolescenza Pete Sampras ignora tutto del “metodo” Lendl finché non va a casa sua per una settimana d’allenamento, nell’inverno tra il 1988 e il 1989. Ne esce completamente cambiato. “Era durante il Masters, l’anno che Ivan perse da Becker in finale” ricorda il numero 1 del mondo. “Lì ho capito davvero quello che costa essere un campione. Mi faceva fare aerobica alle sei di mattina poi mi spediva a fare 30 km al giorno in bicicletta con il suo preparatore atletico che mi seguiva in macchina. Mi ha insegnato l’arte di alimentarsi bene, di dormire a sufficienza per recuperare. Era incredibile: aveva pianificato il programma per l’intera settimana e sapeva esattamente cosa avrebbe fatto in ogni momento della giornata...”. Venti mesi più tardi, l’allievo spezza l’egemonia del maestro a Flushing Meadows (dopo otto finali consecutive tra il 1982 e il 1989) eliminandolo nei quarti. Impietoso, ma riconoscente: “Posso dire che ho imparato tantissimo stando a contatto con Ivan. È un tale professionista...”. Si potrebbe credere che un tale elogio abbia fatto arrossire le guance del diretto interessato. Ma Lendl, almeno in apparenza, sembra non curarsene: “Non importa chi sia stato d’esempio, se io o qualcun altro. Ciò che conta è che i giovani abbiano capito.

Cosa? Il messaggio, il SUO messaggio. Prima di concludere, metà brontolone metà malinconico: “Se solo avessi cominciato io stesso a lavorare con i pesi, la bici e tutta la preparazione pianificata a vent’anni anziché a 24, forse avrei potuto restare numero 1 due anni di più...”. Incorreggibile.

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