HOMEPAGE > > Sara Errani si confessa (Vanity Fair).

20/06/2012 13:00 CEST - Rassegna nazionale

Sara Errani si confessa (Vanity Fair)

................

| | condividi

«Non posso stare senza di lui». «Lui» è il tennis. E non ci sono mezze misure, nel rapporto tra Sara Errani e il suo sport (…)

«Se colpisci 2.500 palle al giorno, cioè 17.500 la settimana, cioè un milione di palle l'anno, non potrai che diventare il numero uno»: Agassi se lo sentiva ripetere ogni giorno dal padre. E’ d'accordo?

«Assolutamente».

Vuol dire che il talento non conta?

«Vuol dire che, anche sei hai talento, senza allenamento — senza faticare — non vai da nessuna parte».

Ha letto Open, l'autobiografia di Agassi?

«Per forza: è il mio giocatore preferito di tutti i tempi».

Lui però alla fine il tennis lo ha odiato: era la sua ossessione. E lei?

«Ossessionata anch'io, ma felice. Non ho pensato per un solo momento di smettere. E non potrei mai odiarlo: lo amo troppo».

Il tennis però vuol dire solitudine.

«Il mio massimo è stare a casa sola, sul divano, con Internet e Tv accesi, a guardare il tennis. Non poter andare a scuola, non avere amiche, non divertirmi con i ragazzi: non esiste sacrificio troppo grande se fatto per questo sport».

Anche per lei c'è un padre che ha dato la «spinta»?

«Piuttosto, un fratello da imitare. Da bambina mi piacevano tutti gli sport, e riuscivo anche bene: ho giocato un anno a calcio, tre a basket».

La consapevolezza del talento quando è arrivata?

«Verso i 10 anni. Prima, i tornei erano divertimento. La prima volta che sentii un po' di pressione addosso fu a un raduno under 12, a Trento: c'erano, come osservatori, maestri di livello nazionale. Arrivai in finale, entrai nel circuito dei tornei europei».

E suo padre la mandò in America, a 12 anni: perché?

«All'epoca in Europa non c'erano scuole come quella di Bollettieri: era l'unica a sfornare campioni. Mio padre mi chiese se volevo andare, e io risposi di sì: nella mia testa di bambina, pensavo solo che poi sarei tornata e sarei stata la più forte di tutte. Mi fecero la festa di addio a scuola, salutai le amiche, ero contenta. Ma quando mi ritrovai sull'aereo con mia madre, mi venne un po' di paura. E quando dopo una settimana lei ripartì e mi lasciò sola, entrai proprio nel panico».

Come fu quell'anno?

«Un incubo. I miei coetanei vivevano in famiglia, fuori dall'accademia. Le ragazze che stavano dentro avevano dai 16 anni in su. In più non spiccicavo una parola di inglese, e non parlavo con nessuno. Per fortuna avevo un cellulare per sentire la voce dei miei, in Italia, ma era uno di quelli ancora senza il blocca-tastiera, quindi succedeva che mentre l'avevo in tasca partivano le chiamate, e poi il babbo si arrabbiava perché spendevo troppo. Uno dei primi giorni non sapevo su quale pulmino salire per andare a lezione. Chiamai mio padre, lui mi disse: "Ferma qualcuno per strada e passamelo"».

Non poteva chiedergli di lasciarla tornare a casa?

«Non ne ho mai avuto il coraggio: mio padre fa commercio di frutta e verdura, non è un nababbo, sapevo che aveva fatto un grande sforzo economico per mandarmi lì».

Gli ha mai rinfacciato la durezza di quella esperienza?

«No, perché mi è servita. Tornata a casa, ai tornei vedevo le mie coetanee piangere per la mancanza della famiglia, o lamentarsi per l'albergo o il cibo. Io invece stavo bene. Unico problema, ero ingrassata per le schifezze della mensa americana».

Poi di nuovo via, in Spagna. Perché?

«Ho provato a restare, ma in Italia non sono riuscita a trovare un allenatore disposto a seguire solo me. E io, essendo piccola, avevo bisogno di una persona che mi accompagnasse ovunque. Da noi non si fa molto per coltivare i nuovi talenti, non ci sono le accademie come quelle che oggi trovi all'estero: i maestri gravitano intorno ai circoli, hanno più allievi, non si concentrano su uno solo perché hanno paura di essere mollati».

Se voi tenniste italiane vi state affermando, lo stesso non si può dire dei maschi. Perché, secondo lei?

«Perché le donne hanno più spirito di sacrificio. In Italia non c'è la cultura del correre, del soffrire. I maschi pensano di vincere con il colletto della maglia alzato, senza sudare, con l' ace al servizio e i colpi di classe. I ragazzini scendono in campo pensando a un fighetto come Federer, mica a Nadal che, avendo meno armi naturali, suda e lotta. Dovrebbero capire che, prima di diventare così, anche Federer si è fatto il mazzo».

Tra le donne, chi è il suo modello? Magari Monica Seles, che l'ha premiata a Parigi?

«Non ne ho. Preferisco il modo di giocare degli uomini: quello delle donne è ripetitivo, noioso». Anche lei è una donna. «Ma il mio stile è maschile. E, quando mi alleno, preferisco un avversario uomo».

Nel calcio, invece, per chi fa il tifo?

«Mi piace molto, giocavo anche decisamente bene, e Juve e Milan mi sono sempre state simpatiche, ma non ho mai avuto una squadra del cuore. Detesto l'Inter, questo sì» (…)

Dovesse fidanzarsi con un calciatore, chi le piacerebbe?

«Matri della Juve. Della Nazionale, Giovinco: piccolino, ma lo preferisco a Marchisio. Mi piacciono i bravi ragazzi. Uno come Balotelli, per dire, non lo sopporto. Non mi è piaciuto all'Europeo e non mi piace proprio lui, il personaggio, il suo atteggiamento strafottente. Non mi va giù».

Non le starà simpatica neanche la Sharapova: in finale l'ha battuta in due set, 6-3 6-2, e non ha esattamente la reputazione della gioviale.

«Vederla dall'altra parte della rete faceva impressione: è il doppio di me, copriva tutto il campo anche solo stando ferma. Alla scuola di Bollettieri eravamo insieme, ma non credo si ricordasse di n me. Io sì, però: già da bambine mi aveva dato 6-0 6-1. È risaputa la sua abitudine di non rivolgere la parola alle colleghe. Forse lo fa per mantenere una distanza, per mettere in soggezione».

Sta per andare a Wimbledon: che obiettivo si pone?

«Non sentire troppo la pressione. Prima di Parigi dicevano che le mie vittorie di quest'anno — Acapulco, Barcellona, Budapest — non contavano niente, che non sarei mai stata forte davvero; dopo la vittoria contro la Stosur in semifinale, tutti a cambiare idea. Ma io non mi sento ancora nella Top Ten, anche se ci sono: è difficile passare in un giorno da essere la numero 23 a essere una delle migliori dieci. Come andare a letto con un metro e 50 di altezza e svegliarsi 1 e 75».

Subito dopo l'aspetta l'Olimpiade.

«A quella tengo più di ogni altra cosa. Scambierei una medaglia a Londra con un Grande Slam. In quel momento mi sento di rappresentare davvero l'Italia: è una grande emozione. Quattro anni fa a Pechino ho perso al primo turno: dover lasciare il villaggio olimpico, quell'atmosfera, è stato tristissimo».

Nonostante abbiate vinto il doppio insieme, Roberta Vinci è stata completamente oscurata dai suoi successi in singolare.

«Succede sempre così: è successo a entrambe, in tante altre occasioni, di essere state oscurate da Schiavone e Pennetta. Ma con Roby siamo migliori amiche, sorelle, ci diciamo tutto in faccia».

E con Schiavone e Pennetta?

«C'è grande affiatamento sul campo, ma a livello personale non c'è questo rapporto con loro. Anche perché Francesca è parecchio strana, bisogna saperla prendere».

Si può essere migliori amiche, pur essendo in competizione?

«Io competitiva ci sono nata: se non vincevo, da piccola, mi arrabbiavo tantissimo. Anche per questo è raro avere amiche nel tennis. Ma ho la fortuna di avere incontrato Roberta. In giro per tornei siamo sempre insieme in quattro, noi due e i nostri allenatori: anche loro vanno molto d'accordo».

Il suo è anche un bel ragazzo. Sicuro che sia solo l'allenatore?

«Scherza? Pablo per me è un fratello maggiore. Mi segue da otto anni, da quando io ne avevo 17 e lui 24. È anche sposato: sono la madrina di suo figlio».

Fidanzata?

«No. Con la vita che faccio, in giro per alberghi tutto l'anno, è impossibile. Pensi che da gennaio ho passato solo quattro giorni qui a Valencia».

Volere è potere.

«No, per chi aspira a essere campione. Se sei a un torneo e sai che a casa c'è qualcuno che ti aspetta pronto a consolarti, non hai quella fame di vincere. Anche solo a livello inconscio, dai qualcosa in meno».

Mai stata innamorata?

«Mai».

E allora come fa a conoscere così tanto bene la sensazione che mi ha appena descritto?

«Perché mi è capitata di provarla — qualche storiella l'ho avuta anch'io — senza essere innamorata. Figuriamoci che cosa dev'essere quando sei presa davvero».

comments powered by Disqus
Ultimi commenti
Blog: Servizi vincenti
Partnership

 

Ubi TV

Scopri Miami con Jelena Jankovic

Virtual Tour / Fanta Tennis virtual tour logo 2

Il fanta gioco di Ubitennis