26/08/2012 16:53 CEST - Personaggi

Isner, il successo è un viaggio

TENNIS - Spirito competitivo e tranquillità, in campo e fuori. Sono le qualità di John Isner, maturate negli anni dell'università in Georgia. Qualità che l'hanno spinto in top-10 e nella storia del tennis. Alessandro Mastroluca

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John Isner (Getty Images North America Matthew Stockman)
John Isner (Getty Images North America Matthew Stockman)

C’è un motivo se lo chiamano Long John. E ha più a che a fare con l’epica che con la fisiognomica. Ha più che a fare con i 183 game giocati in tre giorni sul campo 18 a Wimbledon che con i suoi 206 centimetri. Perché a John Isner non piace andare di fretta. “Sono sempre stato un late-bloomer” ha spiegato in un’intervista, che procede col suo passo, coi suoi tempi.

Ritmi apparentemente più adatti allo studio e alla lettura (altra sua grande passione) che alla frenesia dello sport. Ma quel ragazzo che i compagni di università chiamavano “Nonno” adesso è numero 10 del mondo, e i suoi tempi sono rimasti quasi gli stessi.

E sono tutti già scritti nel suo debutto sul circuito maggiore, a Washington, nel 2007. Ha appena finito il college: si è laureato in comunicazione all’Università della Georgia e portato i Bulldogs al titolo NCAA nell’ultima stagione. Ha perso, però, la finale individuale contro Somdev Devvarman, 7-6 al terzo. Entra in tabellone grazie a una wild card dopo il forfait di Fernando Gonzalez. È numero 416 del mondo, ma in cinque giorni vince cinque partite al tiebreak del terzo set: supera Henman, Benjamin Becker, Odesnik, Haas e Monfils, prima di cedere in finale a Roddick. La sua classifica si impenna. Dopo il torneo diventa numero 138: è professionista da sei settimane. Ne passano altre tre e si ritrova al terzo turno agli Us Open a strappare un set, il primo, a Roger Federer.

La forza della tranquillità
John cresce con due fratelli maggiori, che cerca di superare in tutto. È anche da qui che deriva lo spirito competitivo di Isner, che da piccolo prova praticamente tutti gli sport. Ma da qui a pensare di farne il proprio futuro ce ne passa.

Si diploma alla North Carolina State, una scuola pubblica. Si allena tre o quattro volte a settimana, “ma al massimo per un’ora e mezza” ha raccontato. Non ha mai frequentato un’accademia di tennis e si è iscritto all’Università non con l’obiettivo di farne un passo verso la carriera sportiva. “Sapevo di poter giocare bene ma non avevo in programma di diventare professionista. Ancora alla fine del primo anno all’università, pensavo che avrei finito gli studi così da avere comunque una laurea quando avrei chiuso col tennis”. In Georgia passa quattro anni, “e ci sarei rimasto anche per un quinto se non mi fossi laureato: è un bel campus e ci sono un sacco di belle ragazze”.

È proprio negli anni del college che maturano il suo spirito competitivo e la tranquillità nell’affrontare le sfide sportive. Una tranquillità figlia della maturità di chi è stato costretto a capire che fare il tennista è soltanto un mestiere. Sua madre Karen, la sua prima tifosa, agente immobiliare con la passione per la cucina, si ammala di cancro al colon e grazie alle cure dei medici dell’Università della North Carolina riesce a sconfiggerlo.

Lo spirito competitivo l’ha forgiato sul campo. Non è mai stato un maniaco dell’allenamento: le partite erano il suo allenamento. “Penso che il tennis universitario renda più forti” ha spiegato, “giocavo 60-70 match l’anno. Da pro o sei un top player o ne giochi di meno. E se arrivi professionista troppo giovane, sbatti la testa contro il muro. Non costruisci fiducia così. Al college ti trovi in situazioni nelle quali tutta la squadra dipende da te e devi essere forte. E non so perché, ma ho sempre mantenuto un buon record nelle partite lottate: forse riesco a trovare un altro livello di gioco”.

Il primo anno completo da pro, però, non va secondo le aspettative e Isner chiude il 2008 da numero 145 del mondo. “Forse avevo iniziato a far bene troppo presto. Mi hanno dato un sacco di wild card, ho saltato tanti Challenger così e probabilmente il mio gioco non si è sviluppato a sufficienza”.

A marzo 2009, dopo una brutta sconfitta e una grigia prestazione nelle qualificazioni del torneo di Delray Beach, Isner contatta un nuovo coach, Craig Boynton della Saddlebrook Tennis Academy, che in passato ha seguito Fish e Courier. Con Boynton, che è tuttora il suo coach, Isner esplode.

Strategia e maschere
Con lui impara a costruire i punti e le partite, affina tattiche e strategie. “Volevo che John capisse come pensano i suoi avversari, in che modo devono rispondere al suo gioco, alle sue armi specifiche” ha spiegato Boyden. “Questa consapevolezza ha stimolato una comprensione migliore di quali colpi Isner dovesse affinare (volée e risposta, soprattutto) di quali aree stimolare durane l’allenamento”.

Alla fine del 2009, Isner ha guadagnato 111 posizioni, chiude la stagione da numero 34 del mondo e viene eletto Most Improved Player of the Year. Il 2010 gli porta in dote il primo titolo ATP, a Auckland, il debutto in Davis a Belgrado (perde in quattro set da Troicki, sostituisce all’ultimo momento Mike Bryan e aiuta Bob a vincere il doppio prima di portare Djokovic al quinto la domenica). Ma soprattutto lo porta nella storia di questo sport.

La partita dei record con Mahut sintetizza, per quanto possa suonare ossimorico parlare di sintesi per un match durato 11 ore, quanto l’arma migliore di Isner possa trasformarsi in una debolezza. Come scrive Peter Bodo, “il suo rituale di servizio, meccanicamente regolare e letale, ipnotizza gli avversari, ma recentemente sembra che incanti anche Isner allo stesso modo. Il tennis poggia disordinatamente su schemi e il pattern che Isner impone può facilmente degenerare da ‘Io posso breakare ma tu no’ a ‘tu non puoi breakarmi ma nemmeno io posso toglierti il servizio’”. E con Mahut è successo esattamente questo: una situazione bloccata in cui il gioco è diventato matematica e si è risolto per inerzia.

Non è un caso che Mahut sia l’unico avversario che Isner abbia sconfitto in carriera a Wimbledon. E non è un caso che Isner sia l’unico ad aver portato Nadal al quinto set al Roland Garros, oltre ad aver giocato la prima finale tutta americana sulla terra battuta dal 1991 (perdendo da Querrey a Belgrado nel 2010). Non è un caso se, quest’anno, Isner sia il giocatore con più ace all’attivo e con la miglior percentuale di vittorie nei tiebreak.

Quando la pazienza non diventa compiacenza, riesce a vincere partite in cui parte sfavorito (come esempio valga il successo su Federer in Davis sul rosso indoor di Freiburg). Quando invece si trasforma in eccessiva fiducia, finisce per perdere partite che avrebbe potuto vincere: quest’anno gli è successo contro Feliciano Lopez agli Australian Open (6-1 al quinto), contro Mathieu a Parigi (18-16 al quinto, e forse è la più dolorosa, perché queste sono le “sue” partite), in un certo senso anche contro Seppi a Roma. Ha rischiato che succedesse anche contro Berdych in finale a Winston Salem, a casa sua. Il ceco ha vinto il primo set servendo il 38% di prime e senza i due errori nel tiebreak, che definire gratuiti sarebbe riduttivo, avrebbe portato a casa il trofeo.

Benché segnata da qualche sconfitta evitabile, questa è già la stagione in cui Isner ha vinto più partite (41 prima degli Us Open, 3 in più del suo precedente record stagionale). A 27 anni, Long John deve ancora completare la sua ascesa, deve ancora raggiungere il suo picco. Dove arriverà? Conta poco. Il successo, come scrive Arthur Ashe in Off the court, “è un viaggio, non una destinazione”.

Alessandro Mastroluca

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