25/09/2012 15:14 CEST - CENTRE THOUGHT

Soli con tutti a Palookaville

CENTRE THOUGHT - Idolatrati per le vittorie, gli sportivi vengono affossati in caso di sconfitte o episodi controversi. Ingiusto squilibrio: i campioni non sono tali solo con un trofeo in mano. Riccardo Nuziale

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Marlon Brando in "Fronte del Porto" (1954)
Marlon Brando in "Fronte del Porto" (1954)

"Ricordi quella sera al Garden? Quando dicesti 'Ragazzo, questa non sarà la tua serata. Abbiamo puntato tutto su Wilson'. Te lo ricordi? 'Questa non sarà la tua serata'. La mia serata. Avrei potuto stracciare Wilson. Quindi che è successo? Lui ha avuto il titolo...e io? Un biglietto di sola andata per Palookaville. Tu eri mio fratello, Charley. Avresti dovuto prenderti cura di me. Potevo diventare un campione. Potevo diventare qualcuno, non una nullità come sono ora. Diciamolo."

Benvenuti a Palookaville, la città dei perdenti. Dei derelitti, dei falliti, di quelli che non ce l'hanno fatta.

La figura dell’atleta ha qualità intrinsecamente tragiche; in un certo senso non ha vita propria, gode del soffio vitale solo in determinate e ben precise condizioni, di un soffio che sfugge alla propria indipendenza.

Fresche notizie dicono che Alex Schwazer ha ufficializzato l’ovvio addio all’agonismo per iscriversi all’università e che Caroline Wozniacki è tornata a vincere un torneo dopo tredici mesi di digiuno. Due atleti diversi, due sport diversi, due persone diverse, due storie diverse. Che hanno però un legame in j'accuse che travalicano la sana critica.

Non c’è ormai cittadino italiano che, volente o nolente, non conosca a menadito la vicenda del marciatore, trovato positivo ad un controllo antidoping ai Giochi londinesi. Vicenda triste per due motivi: sul piano sportivo non può che far arrabbiare e addolorare ogni appassionato di sport, aldilà della disciplina in questione (a giudizio di chi scrive la più profondamente noiosa che esista sulla faccia della Terra, aperta e chiusa parentesi). Il doping è un male da condannare sempre e comunque, senza condizioni e compromessi, ragion per cui la fine della carriera di Schwazer è la sacrosanta punizione per un errore non perdonabile né giustificabile in alcun modo.

Ma ad intristire ancor di più la vostra penna, in quel di agosto, fu la furibonda tempesta scaraventata dall’opinione pubblica contro l’uomo Schwazer.

L’opinione pubblica, questo mostro marcio (infinitamente più del doping). Inafferrabile – chiunque di noi ne fa parte - ma tangibilissimo e di devastante potenza, colpisce dietro la maschera del “molteplice anonimato”, non è di fatto contrattaccabile proprio perché non riconducibile a nomi. E’ il nemico che non si può battere, quello dei pregiudizi, di economicissime lezioncine di perbenista morale a portata di click, del sentenzialismo da parte di una massa che si professa orgogliosa innocente, linda, pulita, cristallina. Che non prova neppure ad iniziare lo sforzo di capire le vicende e il pathos umano che gira attorno ogni azione “malvagia”, che si fa imboccare dal nugolo di esperti da tv avvoltoi per dare adito e giustificazione ai propri insulti, per prendersi il permesso di ergersi sul piano morale e giudicare (quando saremmo proprio sicuri che gli atomi della massa, presi uno a uno, sarebbero tutti così prossimi alla santificazione?).

Caroline Wozniacki non ha mai dovuto affrontare un peso critico così violento, perché naturalmente neppure lontanamente avvicinabile a vicende di tale tipo, ma allo stesso tempo non vi è alcun dubbio che sia in assoluto la tennista (uomini compresi) più contestata e derisa del panorama attuale. Ogni qualvolta la danese subisce una sconfitta, è protagonista di una notizia extra-tennistica, rilascia una dichiarazione ottimista per il suo futuro, viene annegata in un oceano di vezzeggiativi poco signorili, commenti sprezzanti e quant'altro. Solo gli annoiati dei dell'Olimpo sanno cosa sarebbe successo se oggi avesse perso con la Jovanovski dopo aver vinto il primo set per 6-0.

Fenomeno tuttora arcano: qual è il motivo di tanto astio, di questo risentimento quasi feroce? Per il fatto che è stata un'indegna numero 1? Accertato che non è la reincarnazione di Maureen Connolly (ma neppure la balbettante socia del club sotto casa che si vorrebbe far passare), quale sarebbe la sua effettiva colpa di essere arrivata dov'è arrivata pur con un tennis non gradito ai più?

Che poi lo si chiarisca in via netta e definitiva: con tutte le interpretazioni possibili e pertinenti (lo stesso autore di questo articolo ritiene che in altri periodi, molto probabilmente, la bella Caroline non sarebbe mai stata numero 1), rimane l'inequivocabile fatto che Caroline Wozniacki appartiene al ristrettissimo club delle ventuno giocatrici che sono riuscite a raggiungere il vertice del ranking nell'Era Open. Ventuno...su quante tenniste professioniste, dal 3 novembre 1975 a oggi? E di quelle ventuno, è la nona per numero di settimane. Quante persone, tra quelle che criticano l'operato della danese, sono riuscite ad eccellere nel proprio lavoro al punto di raggiungere una cerchia di ventuno unità? Se si critica il fatto che la Wozniacki non sia all'altezza di certi nomi, è un'opinione avvallata dai fatti. Se si scivola nella derisione e nella denigrazione per antipatie o per visioni distorte, come troppo spesso accade, ecco che la critica assume sfumature di dubbissima intelligenza.

Cos'è quindi che non viene "perdonato" agli sportivi di primo livello?

Forse Schwazer, nella schiettezza del momento durante la conferenza stampa post-controllo, l’ha detto meglio di chiunque altro: “Pressioni e sacrifici. Non avete idea quanti sacrifici servono per una sola gara. E se va male sei un coglione. Non voglio essere più giudicato per una prestazione. Sono stufo. Sogno una vita e un lavoro normale. Tutti vedono solo la gara e la vittoria, ma dietro ci sono allenamenti pazzeschi e sacrifici di anni. E non ne potevo più”.

Ancora: Schwazer ha commesso un terribile errore ed è giusto che quel capitolo della sua vita sia stato stroncato. Ma se è “morto” lo Schwazer atleta, l’uomo non deve riguardare nessuno di noi. Così come non dovrebbe mancare mai il rispetto e la “simpatia universale” per ogni sportivo: non sono nomi, sono persone, esseri umani. Con straordinarie qualità, ma anche debolezze.

Si sono presi l'ormai ex marciatore italiano e la tennista danese come esempi, ma ogni atleta di alto livello è soggetto a questo: rimanendo al nostro amatissimo sport, in quante occasioni la carriera di Federer è stata dissezionata, nei momenti di minor splendore? Quante volte Nadal è stato sepolto nel periodo tra autunno e la stagione sul rosso? E Murray, l'eterno perdente fino all'altroieri? Come se questi straordinari simboli dello sport meritassero di vivere solo con un trofeo in mano.

Ecco quindi il criminale, delittuoso peccato primordiale: lo sportivo non può essere normale (pure sul significato di di quest'aberrante parola ci sarebbero da scrivere tomi interi, ma non ci troviamo in appropriata sede). Nel momento in cui l'aura sacrale sparisce - o non viene riconosciuta - il campione, per diritti non si capisce in che modo fatti propri dal mostro-opinione pubblica, diventa agnellino macellabile ben oltre il confine della giustissima critica sportiva.

Pressioni e sacrifici. La consapevolezza di essere “utile” alla causa solo in caso di vittoria (la LORO vittoria, la TUA sconfitta). Semidei/e lasciano spazio a scarpe usurate.

Benvenuti a Palookaville, la città dei perdenti. Spiacenti: non vi è biglietto di ritorno.

Riccardo Nuziale

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