18/12/2012 16:43 CEST - Libri

Nadal o Federer? L'amore non si sceglie

TENNIS - Nel suo nuovo romanzo "Cani randagi", vincitore del concorso La Giara e pubblicato da Rai Eri, Roberto Paterlini riflette sul senso del tifo, su ragione e sentimenti.

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La copertina di Cani randagi, romanzo di Roberto Paterlini edito da Rai Eri
La copertina di Cani randagi, romanzo di Roberto Paterlini edito da Rai Eri

Una mattina di fine estate, Federico e Giacomo trovano sul fondo di un comodino una vecchia audiocassetta risalente alla metà degli anni '80. Sul nastro è incisa l'intervista che lo zio di Giacomo, Francesco, fece a Luigi de Lorenzi. Il signor de Lorenzi, uomo mite, di grande umanità, è testimone diretto della terribile esperienza di confino cui furono condannati negli anni '30 gli arrusi, come allora venivano chiamati gli omosessuali.

Da qui prende le mosse il romanzo "Cani randagi" del nostro Roberto Paterlini, vincitore del concorso letterario La Giara e pubblicato da Rai Eri. "E' un libro che unisce un tema di grande attualità con una scrittura intensa e piacevole" ha spiegato Dacia Maraini, presidente della giuria, alla presentazione del romanzo alla recente fiera Più libri, più liberi a Roma.

A partire dall'audiocassetta, la narrazione si divide in tre vicende. La prima è proprio quella di Luigi de Lorenzi nella Sicilia degli anni '30 e poi sulle isole Tremiti. Al suo racconto s'intreccia la disperazione di Francesco: il virus più temuto degli anni ‘80, l'Aids, ha colpito il suo compagno. Infine, ai giorni nostri, Giacomo è tormentato dalla paura di essere ormai incapace di amare.

Nel romanzo, Paterlini trova comunque spazio per la sua grande passione, il tennis. E lo fa in questo monologo interiore in cui Giacomo si interroga sul senso del tifo, dell'amore, della passione, sul rapporto tra ragione e sentimento, su Federer e Nadal.

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Il microcosmo degli appassionati di tennis si era diviso in quegli anni in due grandi gruppi: quelli che facevano il tifo per Roger Federer e quelli che invece parteggiavano per Rafael Nadal. Storicamente era sempre avvenuto così, per grandi dualismi, che un tempo erano stati Borg-McEnroe, Connors-McEnroe, Evert-Navratilova, Graf-Seles, eccetera, ma quella coppia era riuscita come nessun’altra a incendiare gli animi e scatenare le diverse tifoserie in un modo che, anche solo verbalmente, ricordava la violenza delle curve calcistiche.

I Federeriani – o Federasti, come li sfottevano i tifosi di Nadal – guardavano i Nadaliani – Nadalioti – dall’alto in basso, esattamente come avrebbero fatto gli estimatori di uno champagne francese con chi gli avesse preferito un volgare vino da pasto, rosso, corposo, indicato ad accompagnare un bel piatto di selvaggina. I tifosi di Nadal, a loro volta, restavano increduli di come si potesse tifare con tanta acrimonia per qualcuno che vinceva talmente tanto che, senza l’altro, avrebbe ucciso il tennis in una noia tale che probabilmente avrebbe ridimensionato la sua stessa grandezza.

Federer giocava a tennis infinitamente meglio di Nadal, era l’essenza pura del talento, della tecnica, della bellezza visiva unita all’efficacia, e soltanto i più ottusi tra i nostalgici avevano da dubitare che fosse l’essere umano che meglio aveva giocato a tennis da quando lo sport era stato inventato. Eppure in tantissimi facevano il tifo per Nadal, che a fronte di caratteristiche ugualmente straordinarie – velocità, preparazione atletica, tenacia, forza mentale, tattica – aveva battuto quasi sistematicamente Federer, e si apprestava a superarlo nelle classifiche mondiali.

Come era possibile riuscire a vedere la bellezza di Federer e fare il tifo per Nadal? si chiedevano in molti. Come era possibile capirne di tennis e non preferire Federer? “Il tifo è come l’amore, non si sceglie,” rispondevo sempre io, sfoggiando una conoscenza dell’amore che evidentemente non possedevo, ma fiero di imbarazzare gli altri soci del circolo per quel riferimento a un’entità così poco sportiva, associandola per giunta a un ragazzone spagnolo bello e muscoloso.

“Pensate a quei poveracci che non fanno il tifo né per Federer né per Nadal, ma, che ne so... per Nalbandian, o la Mauresmo. Pensate alla vita di sofferenze a cui si sottopongono. Se uno potesse scegliere non parteggerebbe mai per tipi del genere, eppure...”

“Il tifo è come l’amore, non si sceglie,” insistevo, sentendomi arguto, ma non avevo mai pensato al contrario di quella sentenza: l’amore è come il tifo, non si sceglie. “L’amore non si sceglie.”

“Bella scoperta,” mi prese in giro Ilaria, da anni schiava di una passione che ai miei occhi era sempre stata inconcepibile e che più volte avevo criticato con ferocia. Non sarà stato niente di eccezionale, ma per me rappresentò una vera e propria rivoluzione, un’epifania. Fu uno di quegli episodi, di quelle realtà evidenti nelle quali ero inciampato come un babbeo – prima tra tutte, che Enrico potesse preferire un altro a me – e che avevano scardinato la mia idea di realtà, facendomi dubitare che non fossi poi intelligente come avevo sempre creduto.

Non ti meriti il mio amore, non sei degno del mio amore, dicevano nei film o scrivevano sui libri, ma se era vero che l’amore non si sceglieva, allora non aveva nulla a che fare con la dignità e nemmeno con il merito, e nessuno sarebbe più stato accusabile, né si sarebbe dovuto sentire ridicolo o idiota, perché amava un altro che aveva determinate caratteristiche e non altre, semplicemente perché non l’aveva scelto. Nessuno si sarebbe dovuto giustificare perché il suo amore era grasso o calvo, o una testa di cazzo, o i suoi piedi avevano sei dita, puzzavano, o...

Ovvio. Eppure io non lo sapevo, anzi ero convinto del contrario. L’amore, come tutto, era per me – doveva essere – nella sua essenza, razionale. Forse i gesti dell’amore, o i modi di dimostrarlo, sarebbero potuti non esserlo, ma mai le sue ragioni. Per quale motivo tutto per me era razionale?

Cosa aveva creato in me una paura talmente forte e fottuta dei sentimenti da portarmi a uccidere l’irrazionalità, anzi a fare come se non esistesse, o appartenesse solo agli altri e comunque agli stupidi? Doveva essere successo qualcosa, forse nella mia infanzia, che mi aveva portato a pretendere che tutto fosse sotto controllo e perfetto, come se il mondo non avesse atteso altro che un mio piccolo errore per fregarmi. Ma che cosa era stato? Mamma non mi aveva amato abbastanza? Era stato papà? Non mi pareva, nonostante tutto.

“Con questo ragazzo ti sentivi al sicuro,” aveva detto la psicologa dalla quale mi ero rifugiato un giorno particolarmente triste. “Eri certo che non ti sarebbe mai piaciuto oltre a un certo livello, per cui hai abbassato le tue difese, e gli hai permesso di entrare...”

L’avevo ascoltata, ma senza crederle, non del tutto, o comunque non ero stato d’accordo con lei. Ok, le mie difese si erano distratte, mi piaceva che lo fossero, ma non cambiava il FATTO che lui, Enrico, non andasse bene!

Ero un tifoso intransigente, di quelli che non capivano come fosse possibile preferire l’arrotata di rovescio di Nadal all’elegante fioretto di Federer, che non lo tolleravano e arrivavano a considerare imbecilli o incompetenti quelli che lo facevano. Avevo sempre – sino a sfiorare il ridicolo e a volte cascandoci dentro – fatto il tifo per Nadal, incurante che l’altro fosse più bello ed elegante, fiero, al contrario, della mia capacità di amarlo nei suoi difetti, nella sua umanità e diversità; eppure non avrei mai immaginato di poter essere quel tipo di tifoso... in amore.

E invece era così, e solo in quel momento l’avevo capito. L’amore era come il tifo e il tifo era come l’amore, ed entrambi erano un virus che ti poteva prendere all’improvviso contro la tua volontà e portarti ad amare qualcuno che non avresti mai voluto amare perché il tuo cervello, giustamente, sapeva che non sarebbe andato bene per te. Ma l’amore se ne fregava del cervello, sfuggiva alle sue capacità.

Roberto Paterlini

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