04/09/2013 12:12 CEST - Rassegna nazionale

Vinci-Pennetta da semifinale, la sfida delle ex bambine (Martucci). Pennetta-Vinci, due amiche da vent’anni e la partita della vita (Azzolini). Federer, un triste finale: la caduta libera di un genio (Semeraro). Ora fermati, Roger mio (Clerici)

4-9-2013

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Vinci-Pennetta da semifinale, la sfida delle ex bambine (Vincenzo Martucci, La Gazzetta dello Sport)

C'è il sogno, e poi c'è «il sogno». Due ragazze pugliesi, cresciute a pochi chilometri, a Taranto e a Brindisi, che dividono allenamenti e pensieri, esperienze e impressioni per 4 anni nella loro stanzetta all'Acqua Acetosa, a Roma, e poi anche nel doppio campione del Roland Garros juniores 1999, si ritrovano oggi di fronte, trentenni, nei quarti del Grande Slam, nella gigantesca New York. Sono state amiche vere, forse intimamente lo sono ancora, ma sicuramente si sono allontanate e oggi, di certo, saranno separate anni luce: Roberta Vinci, la favorita, numero 13 del mondo, ai quarti 12 mesi fa (stoppata dall'altra «amica» Sara Errani), può arrivare più lontano che mai nei Majors, per sentirsi finalmente grande (al di là del suo 1.63) ed entrare fra le prime 10 («Il ricordo più bello, un domani»), Flavia Pennetta, a un anno esatto dall'operazione al polso destro, cancella l'idea-ritiro, scoprendo di essere più forte degli altri 3 quarti di finale, qui sul cemento di Flushing Meadows, dov'è diventata la prima italiana 10 del mondo (2009), e può sognare di più, come papà Oronzo.

«Giochiamo contro da quando io avevo 9 anni e lei 8: era una nanetta, ma fino ai 16 anni mi ha sempre battuto. Altro che 8 match Wta (4-4, dal 2003 al 2010, una volta vince una, una volta l'altra, l'ultima è stata la Pennetta...), se contiamo i nostri incontri - under 10, provinciali, regionali - sono più di 20. Fino ai 18 anni siamo state quasi sorelle. Io sono arrivata prima in alto, fra le pro, ma abbiamo in comune tanto, come gli stop: io mi sono fermata con il tifo, lei per un ginocchio e per la spalla. Sì abbiamo avuto anche una grande delusione d'amore, ma a tutt'e due ci ha aiutato», s'illumina Flavia. «Perdeva perché era nevrotica, si arrabbiava troppo, poi ha avuto un'evoluzione incredibile mentre io ho faticato ad esprimermi, facevo risultati in doppio e ho trascurato il singolo perché non avevo fiducia. Fortuna che mi sono ripresa, con gli anni», sorride Roberta.

«A quell'età mangiavamo di nascosto, la sera, yogurt a manetta, Robi a tavola andava a Slim Fast, e la sera io le compravo la porchetta dall'omino fuori...», rivela l'una. «Non sognavamo tennis, parlavamo di ragazzi», specifica l'altra. «Io stavo con Allgauer, lei aveva un qualcosa con Piccari (Alessandro), io avevo tappezzato la cameretta di Leo Di Caprio, lei girava con la foto di Maldini nel portafogli. Una volta ero a Coverciano per farmi vedere un ginocchio e un calciatore simpatico, di Napoli, scherzò con me, poi chiamai Robi: "Tu conosci un tale Ciro?", e lei: "Ma sei matta, è Ferrara". Era patita di pallone, io zero. Eppoi, che risate... Una sera, all'Acqua Acetosa, pioveva a dirotto, non ne potevo più di allenamenti e sognavo la febbre per saltare il lavoro del giorno dopo, uscii di camera, Robi mi cercò dappertutto, mi trovò alle 11, stesa sul campo di rugby in reggiseno e mutandine che gridavo, bagnata fradicia: "Voglio la febbre, voglio la febbre". Ma il giorno dopo, niente, nemmeno un mal di gola». Flà è prodiga di complimenti per Robi: «E' solida atleticamente, sa fare tutto tecnicamente, ha un rovescio... Ma se potessi le toglierei il servizio».

Robi è una tifosa di Flà: «E' forte, sta tornando a grande livello, si muove bene, il ranking in match così non conta». La Pennetta è troppo felice, dopo i problemi al polso, davanti alla nuova occasione, a 31 anni, dopo il k.o. con la Kerber nel 2011: «Sarà bello, una di noi andrà in semifinale, lei ora è meglio di me, ma io non ho niente da perdere. Non è mai facile giocare contro un'amica, ma lei l'ha fatto con Knapp, io con Errani, siamo abituate, cerchiamo di giocare solo a tennis (…)

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Pennetta-Vinci, due amiche da vent’anni e la partita della vita (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Altro derby, altre storie da raccontare. Il nostro tennis al femminile che diventa romanzo a puntate, fiction intrisa di sentimenti forti, amicizia e cuore, rivalità ed emozioni. Il quarto della serie, l'ultimo episodio. Con un antefatto, che si perde nella notte dei tempi (tennistici, s'intende) ma avrà anch'esso la sua parte, nella puntata di oggi, a renderla più sapida nell'intreccio delle passioni e aggiungere carattere agli avvenimenti che si dipaneranno nel volgere delle pagine. Ci crederete o no, ma il rendez-vous tra Flavia e Roberta, contiene elementi che molto lo avvicinano a un romanzo di formazione, di quelli che pochi saprebbero scrivere. Vent'anni fa. La Puglia, che nel sud è regina del tennis. Due bimbette nate a 40 chilometri di distanza. Amiche per forza. Sorelle per necessità. Rivali per obbligo. Roberta Vinci è la più grande, per età, Flavia Pennetta lo è per il fisico. Ma fra le due domina Roberta. Sono due ragazze di mare, ma la Vinci è di scoglio, Flavia di sabbia. Sugli scogli occorre attrezzarsi, scegliere i percorsi più logici, scartare al momento opportuno, evitare i pericoli, le schegge taglienti, i ricci nascosti negli anfratti.

Roberta impara il tennis lasciandosi guidare dalla sua indole. Da grande diventerà una formidabile stratega, capace di cogliere la via da seguire persino nel più complicato dei labirinti. Come l'altro giorno, con la Giorgi (derby numero tre della serie), quando ha saputo sottrarsi agli straripanti colpi di spingarda della picco-letta, riuscendo nel contempo a ingabbiarla in un gioco di specchi, che l'ha privata di ogni certezza. Una maestra, Roberta, nei giochi di prestigio. Flavia è figlia del mare di sabbia, quello delle prime coste dell'Adriatico. Tre salti sulla spiaggia e un tuffo fra le onde. Linee dirette, obiettivi precisi. Come in campo. Colpi limpidi, secchi, geometrie essenziali. Tre racchettate per punto, non una di più. «Da piccolette vinceva sempre lei», dice Flavia. Si incontravano da under', le prime volte a dieci anni, e su su fino ai sedici, quando si sono trasferite a Roma, per compiere l'ultimo balzo. Roberta si agganciò al carro di Sandrine Testud, la francese che regnava in doppio e aveva una buonissima classifica pure in singolare, fra le top ten. Sandrine era, allora, la moglie di Magnelli, uno dei tecnici del Parioli.

Roberta, inseguendo la Testud, divenne doppista, prima che singolarista. A 18 anni era fra le 15 più forti e già vantava una partecipazione al Master di fine anno. Flavia scelse la via milanese, e da lì in Spagna Gabriel Urpi la prese per crescere assieme. Coach e fratello maggiore. Il derby vale molto. Una semifinale Slam, che nessuna delle due, fino a oggi, ha mai saputo centrare. La sensazione di un ritorno al tennis che conta, per la Pennetta, dopo una stagione che l'ha costretta a ricominciare da capo. «Ma l'operazione al polso, per una tennista, potete immaginarlo, è come una brutta ferita al polpastrello per un violinista». Per la Vinci c'è in palio l'ingresso nella top ten, «il mio obiettivo dichiarato». Con la sconfitta di ieri della Ivanovic (contro Azarenka) non è più soltanto speranza, è matematica. «Ma battere Flavia sarà difficile, perché ci conosciamo troppo bene. Alle sue iniziative io so quali contromosse opporre, e lei sa perfettamente come sottrarsi ai miei back di rovescio». Su questo sono d'accordo entrambe. Anche Flavia mette le mani avanti. «La vita, il tennis, ci hanno un po' allontanato, abbiamo fatto scelte personali, abbiamo vissuto esperienze diverse. Ma continuiamo a conoscerci così come ci conoscevamo da bambine. So perfettamente come gioca Roberta, e lei sa benissimo quali sono i miei colpi e le mie reazioni (…)

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Federer, un triste finale: la caduta libera di un genio (Stefano Semeraro, La Stampa)

E’ come quando da piccoli finiva l'estate, e bisognava tornare a scuola. O come quando all'improvviso, senza spiegazioni, capivamo che Babbo Natale non sarebbe tornato. Mai più. Roger Federer, il Santa Klaus svizzero che per dieci anni ha distribuito gioia e incanto al tennis è fuori dagli Us Open. Ha perso in tre set negli ottavi da Tommy Robredo (7-6 6-3 6-4), ha perso male. Sprecando palle break (O su 6), sudando come ai bei tempi non gli sarebbe capitato neanche nel Sahara. Sempre lontano dall'avversario, soprattutto sempre più lontano da se stesso. Dando l'impressione di non crederci più troppo («ma è da una vita che me lo dicono, poi vinco e ci ripensano»), di coltivarsi dentro una serra di dubbi. Può un campione immenso rassegnarsi al grigiore di sconfitte del genere? Certo, le attenuanti: i 32 anni, il mal di schiena che lo tormenta, il sospetto che l'addio non sia più così lontano. Ma che malinconia, Roger, vederti così. «So di poter giocare meglio», ha detto alla fine, titillando il cuore di chi sogna un ultimo, grande lampo prima del sipario. «E stato il peggior Federer degli ultimi 10 anni», scrive John Wertheim su Sports Illustrated. «Uno come lui meriterebbe un finale diverso». II momento dell'addio è il più difficile da scegliere per chi è stato grande, da Borg a Schumacher, da Jordan a Maradona, la casistica è varia. Valentino Rossi sta lottando contro i due stessi impostori di Federer: l'orgoglio di voler risorgere, l'amarezza di scoprirsi inadeguato.

I numeri sono crudeli. Era dal 2002 che Roger non usciva in tre set a New York, in un torneo che ha vinto cinque volte (e di fila), e non raggiungeva nemmeno una finale nei tornei dello Slam (ne ha vinti 17). L'anno scorso si era preso Wimbledon e l'argento alle Olimpiadi, ma ormai sono mesi che lotta contro una condizione incerta. Che beneficia avversari che in passato avrebbe scherzato: Benneteau (n.39 Atp), Nishikori (16), Stakhovsky (116) nel secondo turno di Wimbledon, poi Delbonis (114), Brands (55). E ora Robredo: un ex top-ten farcito di una grinta antica, per carità, ma quasi suo coetaneo (31 anni), e reduce da un infortunio che l'anno scorso l'aveva spinto fino al n.480 del ranking. Roger lo aveva battuto 10 volte in 10 incontri: ieri si è fatto dominare.

Nell'annata di Federer ci sono anche tre sconfitte contro Nadal, a Flushing Meadows tutti speravano nell'ultimo grande valzer fra i due vecchi rivali. Ma se è vero che le sconfitte di Federer con Rafa non fanno più notizia, quella con Robredo è solo mestizia. Una candela che si spegne, una porta che sbatte al vento. Anche in sala stampa, quando Roger è entrato a capo chino, nascosto sotto il cappello, si respirava un silenzio da stabilimento balneare fuori stagione, la sabbia bagnata, gli ombrelloni chiusi. «Tommy mi ha reso le cose difficili - ha ammesso Federer -, ma io non trovavo il ritmo, mi sono autodistrutto. E frustrante». Oggi come in tutta la lunga estate del suo sconforto: «sono tre mesi che le cose non vanno bene. Non ho continuità, e la fiducia ne risente. Il Masters? Non penso così lontano. Devo preoccuparmi di tornare a muovermi meglio, prima ancora che di giocare meglio». La sala interviste si è vuotata lentamente, in sottofondo le interviste di rito alle tv, come una risacca. Sempre più lontana.

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Ora fermati, Roger mio (Gianni Clerici, La Repubblica)

Gli innamorati immaginavano Roger Federer vincitore di un nuovo Grand Slam, allo US Open. I più Ragionevoli simpatizzanti lo vedevano dignitosamente sconfitto dall'attuale favorito del torneo, la sua nemesi Rafa Nadal, nei quarti di finale. I Pessimisti ritenevano che, alle undici sconfitte subite nel 2013 da tennisti detentori di classifiche peggiori della sua attuale—numero 7 — ne sarebbe succeduta una dodicesima, come è accaduto con lo spagnolo Tommy Robredo (n. 19). Hanno avuto ragione i Pessimisti che, a questo punto, sarebbe doveroso considerare Realisti, e non sempre privi di oggettività o addirittura di umana simpatia. Mi ero permesso, ammiratore di Federer dal giorno in cui lo vidi imbattibile junior nei tardi Anni '90, e ne ebbi conferma nello scomparso torneo di Milano 2001, di schierarmi a metà tra le due ultime categorie. In realtà, credulo Simbolista, avevo sottolineato la curiosa assonanza tra il nome del suo nuovo agente privato, Godsick, e il significato, eguale a quello di Dio Malato.

Quale potrebbe essere, oggi, la malattia del più grande tennista dell'ultimo decennio, ritenuto dai digiuni di storia specifica — spesso ahiloro presunti professionisti — il Più Grande di Tutti i Tempi? Nell'incompletezza d'informazione di chi non ha accesso all'intimità del Campione, mi ritrovo del tutto privo di riferimenti freudiani, eventualità per altro esclusa dalla cultura insufficiente di Federer, che apparve infastidito quando mi permisi di suggerire una ragione alle sue prime sconfitte contro la Nemesi Nadal. Le altre giustificazioni sono quelle tipiche del logorio, anche mentale, tipico di uno sport, che inizia ormai secondo gli schemi infantili, altrimenti benefici, di Maria Montessori.

Fossi altrimenti preparato in psicologia, dovrei scrivere che, tra gli attuali grandi, si ravvisano tre categorie umane. La prima è quella che saggiamente decide di ritirarsi in seguito alla splendida lapide di un successo autonomamente ritenuto irripetibile (Sampras, Agassi). La seconda è di chi rifiuta l'immagine di se stesso battibile, la più irrazionale tra tutte, addirittura confermata da un rifiuto totale della maturità, quale Borg. Alla terza, di chi è vicino alla fine sportiva, ma spinto a ricusarla da un entourage miope e interessato, da contratti in corso e difficilmente onorabili, da un'incredulità personale comprensibile ma difficile da ammettere per una natura vincente, osannata ma in fondo poco preparata quanto il nostro Eroe; alla terza, dicevo, mi par di associare Federer. Ultimo, temo, dei grandissimi per i quali non sia stata indispensabile una statura di due metri, una muscolatura da sollevatore, un racchettone enorme, un rovescio bimane, un tennis solo orizzontale e insomma le qualità di chi sarà il Futuro Campione. Con infinita riconoscenza per quanto Roger ci ha regalato, e con l'augurio di un imminente ritiro.

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