08/09/2013 09:23 CEST - rassegna nazionale

Djoker-Wawrinka, maratona di nervi (Martucci, Valesio, Zanni, Sisti); Williams-Azarenka bis, iI trono alla più feroce (Mariantoni, R.Z.); Flavia torna a casa (Longo); Clerici & Pietrangeli, lezione di tennis per gli 80 anni di Nick (Clerici)

08-09-2013

| | condividi

A cura di Davide Uccella

Iron Djoker rischio e rinascita, Contro Wawrinka è maratona di nervi (Vincenzo Martucci, La Gazzetta Sportiva, 08-09-2013)

Vince ancora Marathon-Man, Novak Djokovic, non a caso il numero 1 del tennis atletico, e si qualifica per la terza finale di fila agli Us Open e nella stagione, la numero 12 in carriera, a caccia del settimo urrah. Ma, per spezzare «Iron Stan» — com'è stato ribattezzato Wawrinka dopo l'eclissi del Magnifico, Fede-rer —, il campione elastico deve lottare per 4 ore 9 minuti fino al 2-6 7-6 3-6 6-3 6-4. E deve superare per l'ennesima volta, la soglia della fatica, in un match durissimo con il corollario dell'incredibile terzo game del quinto set di addirittura 21 minuti, con l'avversario, disperato, che salva 5 palle-break e i 23mila dell'Arthur Ashe eccitati all'inverosimile, ed incontrollabili. Solo così, incassa il break decisivo del 3-2, contro un avversario già da un pezzo «sulle gambe» e lo finisce con l'ace numero 9. «Noi viviamo per questi match, complimenti a Stan», chiosa il re. «Ha giocato meglio a tennis, io ho cercato di star lì, aggiustarmi, trovare il mio ritmo, ero convinto che chi avesse vinto quel game avrebbe vinto il match... Ora mi vedo l'altra semifinale alla tv mangiando popcorn».

Precedenti Il 12-2 nei testa a testa fino a ieri l'altro (7-1 sul cemento, 10-0 recente) nascondeva, peraltro, i 5 set del 2006, in coppa Davis, quando Djokovic rimontò Wawrinka da due set a uno sotto, e i quarti di quest'anno agli Australian Open, suggellati dall'eloquente 12-10 dopo 5 ore, l'ennesima maratona vincente di Djoker su cemento di Melbourne, agevolata però dal suicidio di Stan da 6-15-2, cedendo il set 7-5 e rimettendo in partita il più forte. Cui aggiungere New York.

Tattica Wawrinka arrivava alla prima semifinale Slam della carriera più caldo di Djokovic, dopo i test del torneo contro Stepanek, Karlovic, Baghdatis, Berdych e Murray. Di certo più impegnativi di Berankis, Becker, Sousa, mezzo Granollers e mezzo Youzhny, che incrocia il 26enne serbo. Sicuramente è anche più cattivo e più affamato, a 28 anni, dopo tanti bocconi amari ingoiati e una carriera da numero 2, dietro sua maestà Roger Federer, e sempre ai limiti dei primi 10 del mondo (oggi è 9). Con la carica extra dell'ultimo coach, Magnus Norman, l'ex pro svedese che gli ha inculcato la filosofia del lavoro, affiancandogli il preparatore storico di RogerExpress, Pierre Pagani-ni, e insistendo sulla motivazione. Più servizio e dritto, e strategia prettamente offensiva. Che, dopo il campione uscente, Murray, con altissima di rischio, gli fa sbattere fuori campo per lunghi tratti dello scambio anche il numero 1 del mondo, alla settima semifinale di fila sul cemento di New York, costringendolo a forzare per recuperare terreno. Visto che lo svizzero che non t'aspetti taglia il campo con fendenti profondissimi e poi trova vincenti a go-go (alla fine 57 a 38, con 165 punti pari).

Fisico Il Wawrinka che domina il primo set soffocando Djokovic (14 gratuiti, fra cui 4 doppi falli!) è il migliore di sempre. Ed è ancora super, per la standing ovation dello stadio più grande del tennis, quello che vola 4-2, per l'eccitazione di John McEnroe in diretta Cbs: «Evviva, è tornato il rovescio a una mano!». Purtroppo per lui, appena rallenta il bombardamento, quel diavolo di Nole recupera il 4-4 e il tie-break. Che vince, dopo tante faccine di sconcerto verso il suo staff (ammonito per coaching), grazie a due aiutini svizzeri: doppio fallo e drittaccio. Sperando di poterla mettere sul fisico. Gli va male nel terzo set, perché Stan s'esalta si prende il 6-3, gli va benone nel quarto, quando Svizzera II va subito 0-2, sul-1'1-4, esce dal campo con gli adduttori in fiamme, e ne torna per incassare il 6-3 che significa quinto set. Dove il super-atleta Nole è imbattibile. O no?

 

Djokovic non si attende mai (Piero Valesio, Tuttosport, 08-09-2013)

COSA può succedere in 21 minuti? Tanto. Ad esempio si possono giocare trenta punti a tennis. E da quei trenta punti giocati in 21 minuti può saltare fuori il vincitore di una semifinale gladiatorea, a tratti travolgente sul piano fisico ed emotivo, a tratti decisamente non bella, sicuramente da ricordare. Era già successo in Australia che Djokovic e Wawrinka si prendessero a paliate per oltre cinque ore: ieri i nostri hanno superato le quattro ore lasciando nei più la sensazione che se lo svizzero, proprietario di uno dei rovesci più armonici e belli del circuito (ad un mano ovviamente) avesse nella vita raccolto qualche timida scheggia di creatività in più dal suo nobile conterraneo che oggi in troppi danno già per decotto, la semifinale di ieri l'avrebbe vinta. Invece il suo nobile rovescio non è bastato specie perché quando Djoker ha preso le misure al lungolinea dell'avversario l'arma più efficace di cui lo svizzero dispone ha perso di peso e di valore.

A decidere tutto è stato quel terzo game del quinto set. Vinto da Wawrinka, peraltro. Ma per l'appunto dopo 21 minuti di battaglia di esaltazione di richiesta al pubblico di appoggio. Ma dopo quei venti minuti, mettendo in chiaro perché fino a prova contraria è lui il numero 1 al mondo, Nole ha tenuto il suo di servizio a zero in una manciata di minuti: massimo risultato con il minimo sforzo. Il tennis è sport di continui vasi comunicanti dove paghi quello che spendi e l'avversario capitalizza ciò che risparmia. In un match come quello di ieri (e come molti altri) poggiato soprattutto sulle capacità di resistenza e di concentrazione a decidere tutto può essere un'energia in più conservata quando è stato il momento. E forse proprio per essersi spremuto un po' di più per portare a casa quel gioco Wawrinka ha perso la partita che avrebbe potuto far svoltare la sua già nobilissima carriera. Anche se potrà togliersi lo sfizio di superare Federer nella Race il tentativo di Wawrinka (autore di progressi enormi da un anno a questa parte) si è arenato davanti a uno più gladiatore di lui. Gira così di questi tempi. E chissà quando cambierà, se cambierà.

 

Djokovic rimonta un super Wawrinka (Roberto Zanni, Corriere dello Sport, 08-09-2013)

Ci sono voluti cinque set, 4 ore e 9 minuti, ma alla fine Novak Djokovic anche questa volta è riuscito ad avere la meglio di Stanislas Wawrinka: 2-6 76(4) 3-6 6-3 6-4 e per il serbo è arrivata la quarta finale consecutiva a New York, la terza in uno Slam quest'anno. Ma una standing ovation il pubblico dell'Arthur Ashe Stadium l'ha riservata anche a Wawrinka protagonista di una grande partita. Era 12-2 fino a ieri il bilancio dei precedenti tra il serbo e lo svizzero, ma l'ultimo incontro tra i due, vinto sempre dal numero 1, era stata una vera maratona: 302 minuti di gioco chiusi al quinto set, 1-6, 7-5, 6-4, 6-7 (5), 12-10 al quarto turno degli Australian Open, il primo Slam dell'anno che poi sarebbe stato conquistato da Daj okovic.
E anche all'Arthur Ashe Stadium ieri si è assistito a una autentica battaglia. Il primo set è andato a Wawrinka: 6-2 in appena trentaquattro minuti. Anche il secondo parziale vedeva il numero 9 del tabellone avanti fino al 4-2, poi però c'era l'inevitabile ritorno di Djokovic che però doveva aggrapparsi al tie-break per pareggiare il conto, 7-6 (4). Sessantotto minuti per il secondo parziale quindi, rispettivamente quaranta e quarantaquattro minuti per il terzo e quarto set che si concludevano con lo stesso risultato 6-3, il primo a vantaggio dello svizzero, il secondo per il serbo. Così, dopo una battaglia di tre ore e sei minuti, si arriva ancora una volta al quinto e decisivo set, ma questa volta, a differenza degli Australian Open, in palio c'era la finale dell'ultimo Slam dell'anno. E a decidere, in un certo senso è stato l'interminabile terzo gioco dell'ultimo parziale, vinto da Wawrinka in 21 minuti (con il pubblico in piedi ad applaudire) perchè poi sul 2-1 lo svizzero (che avrebbe superato nel ranking Federer in caso di successo agli US Open) ha pagato lo sforzo incassando successivamente il break che poi ha lanciato Djokovic. Il serbo così resterà comunque 1 del mondo dopo questo Slam.

Djokovic, all'inferno e ritorno soffre, rimonta e conquista la finale (Enrico Sisti, La Repubblica, 08-09-2013)
Vuoi giocare tu al posto mio?». Fosse rimasto il Djokovic che sotto 4-6 2-3 non trovava di meglio che prendersela col suo coach Wajda in tribuna, dopo aver fatto atterrare una decina di rovesci a Manhattan, ora non sarebbe in finale allo Us Open perla quarta volta consecutiva. E' statistico: ci sono momenti in cui No-le riesce a travolgere qualunque cosa, persino se stesso. Però sa quasi sempre come risalire dall'inferno, si aggrappa a scale, perni, gradini, spun toni di roccia che vede soltanto lui. E alla vince dopo aver rischiato di perdere, dopo essersi umiliato, come ieri, a remare come se fosse lui, per una volta, a dover rinco rrere la star che lo stava spingendo nel buco. Risultato giusto perché nel finale Nole è stato un gigante (26, 7-6, 3-6, 6-3, 6-4). Ma povero Wawrinka: perdere con 57 vincenti contro 37. Come sempre, quando arriva la stanchezza e si allungano i tempi, oltrequattro ore, il tennis diventa leggendario, dove esce il sangue, che rende disperato e umanissimo un gesto atletico, il pubblico gode e comincia a contare alla rovescia. Come sempre quando si arriva al quinto set dopo tre oredi full contact quel che resta è amore e disperazione. Nole e Stan si sono sadicamente infilati le unghie nella carne, salendo e scendendo col loro tennis omicida, sino ad arrivare al punto in cui nulla impedisce più allo spettacolo di farsi epico, di devastante suggestione. Lo sforzo brucerà i tessuti, i muscoli parleranno la loro lingua più estrema. Solo i polmoni conoscono la verità, l'unica possibile. C'è ancora ossigeno? C'è ancora qualcuno G dentro? In precedenza Djokovic non aveva avuto abbastanza .grip» sulla partita per trascinarla, quando avrebbe potuto, dalla sua parte. Da sadico è mutato in masochista lasciando a Wawrinka il diritto di sognare. La partita sembrava il delta di un fiume: c'erano venti soluzioni possibili prima di sfociare in mare. Nel quarto set Djokovic ha giocato da Padreterno il game che lo ha portato sul 4-1. Wawrinka e le sue strutture se ne sono accorti: gli si sono accese lampadine rosse in tutto il corpo, ha chiesto il medical time out ed è uscito dal campo. Lo scorso anno contro Djokovic (erano gli ottavi) finì per ritirarsi. Il segnale era chiaro.

Torniamo al quinto set. Uno sembra sul punto di cedere e ricorre a ogni benda per nascondere le ferite. Ma resiste, resiste. Come la Pennetta contro la Azarenka. L'altro da bruco si sta lentamente riscoprendo farfalla: adesso la sua risposta al servizio è quasi perfetta. Ha ritrovato ritmo e timing. Più Nole ricorda un muro, più scopre agevole portare a casa i turni di battuta, più il body language smaschera Wawrinka: sembra uno che ha appena finito, carponi, una maratona alla quale non avrebbe neppure voluto partecipare. Il terzo gioco, proprio G sull'orlo del burrone, è una cantica: una trama di meraviglie fisiche e spirituali che si protraggono per 21 minuti! Lo vince Wawrinka ma sarà il suo canto del cigno. Lo pagherà carissimo. Nel quinto arriva il break che fa saltare il banco. Djokovic se ne va. Se ne va pure Wawrinka. Ma dall'altra parte. Lo svizzero avrà giocato gli ultimi scambi ossessionato dal ricordo dell'ultimo Australian Open: si rivedeva in lacrime mentre Djokovic approdava ai quarti dopo un quinto set infinito che un matchpoint da sogno interrompeva sul 12-10. Avrà pensato: ma possibile che capita sempre a me? È qui la grandezza. E lui è meno grande: .Sono le partite per cui vale la pena allenarsi e giocare a tennis», ha detto Nole ringraziando Stan. È stato lui il più grande.

 

Williams-Azarenka bis, iI trono alla più feroce (Luca Mariantoni, La Gazzetta Sportiva, 08-09-2013)

Dodici mesi dopo, Serena Williams e Victoria Azarenka, n 1 e 2 del mondo, si ritrovano in finale all'Us Open. La statunitense ci è arrivata stritolando le avversarie che unite sono riuscite a toglierle soltanto 16 game, 3 in più di quanti ne perse, sulla via della finale, Steffi Graf nel 1988 e uno in più di Martina Navratilova nel 1983. La bielorussa invece ha avuto passaggi a vuoto contro Alize Cornet e Ana Ivanovic, soffrendo per 52 minuti in semifinale contro la nostra Flavia Pennetta. Bis E' la prima finale ripetuta da quando le Williams, nel 2001 e 2002, si scambiarono il trono. I precedenti fanno paura (12-3 per Serena), lo stato delle rispettive forme pure, ma nel tennis una palla può far cambiare direzione alla partita. «Sono molto concentrata - racconta Serena - e attenta a tutto. In allenamento o in partita ho sempre cercato di mantenere la concentrazione alta. Ogni partita è un obiettivo che desidero raggiungere a qualunque costo. Vika è migliorata molto, nelle ultime sfide mi sono lasciata scappare alcune occasioni, ma lei ha giocato veramente bene. Questa volta non potrò permettermi di mancarle, lei è in un momento di grande fiducia nei propri mezzi». Una rivalità iniziata nel 2008, ma diventata vera dal 2012. «Contro di me dà sempre il massimo, con le altre è una giocatrice completamente diversa. E per questo anche io, contro di lei, ci metto tutta me stessa». Serena affronta la 2lesima finale negli slam puntando al 17 titolo, gli stessi vinti da Roger Federer, uno in meno delle leggende viventi Chris Evert e Martina Navratilova. «E' un traguardo vicino, ma al tempo stesso molto lontano. Devo giocare più che bene e battere una grande antagonista come Victoria. Nel tennis non c'è mai niente di scontato. Io devo solo scendere in campo, dare il meglio e imparare dall'esperienza del recente passato». Serena Victoria Azarenka, bicampione in carica all'Open d'Australia, vive la vigilia con molta tranquillità. «Non credo che il mio tennis sia cambiato molto, sono più forte mentalmente e ho fatto progressi dal punto di vista fisico; ora mi sento pronta anche a battaglie lunghissime. Rispetto a 12 mesi fa penso di essere una giocatrice migliore, più completa. Sono molto soddisfatta del percorso che ho fatto nell'ultimo anno». La fiducia non manca alla bielorussa: lo scorso anno arrivò a servire per il match, quest'anno ha battuto Serena nelle finali di Doha e Cincinnati. «Quando affronto Serena seguo sempre la stessa tattica: portarla a giocare dove si sente meno a suo agio e lottare su ogni palla. Conosco i suoi punti di forza e lei conosce i miei. E se non sfrutti le poche occasioni che ti offre, non hai chance».

 

Williams: all'assalto del forziere (Roberto Zanni, Corriere dello Sport, 08-09-2013)

3 a milioni di dollari: il montepremi più alto nella storia del tennis. Può metterselo in tasca Serena Williams se riuscirà a battere Victoria Azarenka: 2,6 milioni (già questo un primato) per il titolo di New York più un bonus da un milione per aver vinto le US Open Series. Solo il primo di una serie di grandi e piccoli record che la numero 1 può realizzare oggi: mettendosi in tasca 3,6 milioni riuscirebbe anche a superare la soglia dei 9 milioni di dollari incassati in un anno, impresa questa mai riuscita a una donna e che in campo maschile porta il nome solo di tre grandissimi: Roger Federer, Rafa Nadal e Novak Djokovic. Però non ci sono solo i soldi: un successo agli US Open 2013 la farebbe diventare, alla soglia dei 32 anni, l'atleta più anziana ad aver vinto a Flushing Meadows (primato che ora appartiene a Margaret Court) e significherebbe anche il 17 Slam per Serena, appena uno meno di Martina Navratilova e Chris Evert che sono seconde alle spalle di Steffi Graf che ne ha conquistati 22. Poi un nuovo trionfo all'Arthur Ashe Stadium (sarebbe il quinto, il primo risale al 1999) spezzerebbe anche un piccolo sortilegio: è dal 2007, dal successo di Justine Henin, che una testa di serie numero 1 non riesce a vincere gli US Open. Ecco allora che, superando Vika, in un colpo solo, alla sua 21a finale in uno Slam, Serena otterebbe, oltre al nono titolo stagionale, il top in carriera. Ma l'ultimo ostacolo, e non poteva essere diversamente, è anche il più ostico perché Victoria Azarenka, la numero 2, quest'anno è riuscita a sconfiggere Serena due volte (un'autentica impresa) a Doha prima e a Cincin-nati poi.

RIVINCITA - Sarà un po' come una resa dei conti, perché la sfida di oggi è anche la rivincita della finale dell'anno scorso quando Serena al terzo set, sotto 4-5 con l'avversaria al servizio (ed era anche la numero 1 al mondo) riuscì a ribaltare la partita e a chiudere sul 7-5. «I never, never quit» disse la Williams subito dopo quella straordinaria vittoria. «Io non mollo mai, mai». E un anno dopo, rieccola Serena che a a Flushing Mea-dows finora, in sei incontri, ha un percorso netto con appena 16 giochi lasciati alle avversarie, meno delle briciole. «È fantastico poter essere qui a difendere il titolo» ha detto subito dopo il successo con la cinese Na Li. Ed è dal 2008 che gli US Open non hanno una campionessa arrivata al titolo senza mai perdere un set e cinque anni fa, ovviamente, a centrare l'impresa fu Serena che può ripetersi anche questa volta. «Sono concentratissima - ha detto la Williams - i miei allenamenti si sono dimostrati migliori anche delle partite. Ho centrato tutti gli obiettivi che mi sono prefissata».

RIVALE - Ma dall'altra parte Vika Azarenka, anche se ha fatto sorgere qualche dubbio nel cammino che l'ha portata alla finale, si sente più preparata per la grandissima sfida rispetto a dodici mesi fa: «Ci sono stati miglioramenti da un punto di vista fisico - ha sottolineato la bielorussa - mentre mentalmente credo che questo sia stato un anno di svolta per me, mi sento una giocatrice migliore, più completa». La Azarenka, alla caccia del suo terzo Slam (finora ne ha vinti due in Australia) è consapevole che questo è una specie di esame di laurea. «Devi combattere - ha concluso - correre, sgobbare e con i tuoi denti mordere qualsiasi occasione che si presenti. Lei è una fantastica giocatrice, la più grande di tutti i tempi». Il bilancio di questa sfida finale vede in vantaggio Serena (che ha debuttato tra i pro' quando Vika aveva 6 anni, nel 1995) per 12-3 anche se quest'anno è avanti l'Azarenka 2-1 (due successi sul veloce, il ko sulla terra di Roma). «Contro di me - non ha dimenticato di sottolineare Serena - Vika gioca sempre il suo miglior tennis».

 

Flavia torna a casa la Puglia pronta alla festa (Roberto Longo, Gazzetta del Mezzogiorno, 08-09-2013)

Sarà dolce il naufragare nel suo mare, sarà dolce far ritorno nella sua terra, a casa da mamma Concita e papà Oronzo che, invero non hanno mai smesso di coccolarla neanche dall'altra parte dell'oceano, facendo in modo che lei si sentisse a casa anche li, a New York, nell'Artur Ashe Sta- dium, lo stadio del tennis più grande al mondo.

Quarantottore dopo l'uscita di scena dagli US Open, Flavia Pennetta è una donna felice e soddisfatta, un'atleta arrivata sul tetto del mondo in età matura, quando ormai non ci sperava più. Le rimarrà un ricordo incredibile, quello di aver compiuto una piccola grande impresa. Dall'inferno al paradiso, dallo spettro del ritiro alla consapevolezza di essere tornata nel tennis che conta dove potrà continuare a dire la sua entrando da protagonista nei tabelloni principali. Le rimane sicuramente un po' di amaro in bocca per non essere arrivata fino in fondo ma la sua trasferta negli States è stata comunque più che positiva.
«Ho giocato come non avrei immaginato, ho provato bellissime sensazioni man mano che passavano i giorni e ho tenuto testa alla seconda giocatrice al mondo, credo che lei abbia avuto più di un momento di difficoltà...» ha detto la brindisina poche ore dopo il match di semifinale perso contro la Azarenka.
E a chi le chiedeva se si sentisse più di forte di un anno fa lei ha risposto: «Voi parlate di rinascita e di una seconda vita, io dico che non ho mai smesso di credere che avrei potuto farcela ma sapevo anche che questo 2013 sarebbe stato molto duro e sono felice che il grande risultato sia arrivato forse un po' prima di quello che sperassi...».

Archiviata la campagna americana, ora Flavia farà ritorno nella sua Brindisi dove trascorrerà un paio di settimane in assoluto relax in attesa di salire sul volo che la riporterà dall'altra parte del mondo, questa volta in Asia dove si rimetterà nuovamente in gioco nel trittico Tokyo-Pechino-Osaka. Non avrà nulla da perdere, così come in discesa potranno essere le prossime settimane ed i prossimi mesi quando avrà una manciata di punti da difendere nel ranking internazionale. Intanto in Puglia ed a Brindisi in particolare non aspettano altro che di festeggiarla nel solito modo, l'unico conosciuto nella sua terra, un mix di amore e di calore che solo la gente del Sud è in grado di esternare, come racconta Dodo Alvisi, consigliere nazionale della Federazione Italiana Tennis.

«Flavia ci ha dato, credo per la terza volta in carriera, una straordinaria dimostrazione della sua capacità di risalire al top partendo da situazioni difficili, quasi impossibili, ma la cosa che mi ha colpito di più è la sensazione che avesse ancora ampi margini di crescita...». «Il valore sportivo della sua impresa - conclude Alvisi - va oltre il risultato, un esempio per un mondo giovanile spesso in difficoltà, un modello da trasmettere alle future generazioni».

 

Clerici & Pietrangeli lezione di tennis per gli 80 anni di Nick - Lezione di Tennis - La mia vita è uno Slam (Gianni Clerici, La Repubblica, 08-09-2013)

E allora non potei fare a meno di guardarlo. Come avevo fatto con oggetti di autentica meraviglia, il San Giovanni Battista di Caravaggio, la frase di Proust sulla Marchesa di Guermantes, lo stop al volo di un ormai decrepito Meazza. Quello che guardavo, con gli occhi di chi in fondo già capiva di essere uno spettatore, dotato della consapevolezza dell'ammirazione, era un ragazzino di sedici anni. Nel viso paffuto sotto i riccioli, nell'espressione concentratae dolcemente impegnata dei bambini quando giocano.
Così come questa mattina di fine estate ci troviamo al Foro Italico, allora ci trovavamo su un campo del vecchio Tennis Parioli, nell'antica sede di viale Tiziano. Ero lì nella speranza di vincere un nuovo torneo di seconda categoria, un torneo che, avent'anni compiuti, mi avrebbe avvicinato o ammesso all'agognata prima categoria. E quell'insolito avversario del secondo turno, ammesso forse perché figlio di un socio, perché raccomandato, mi aveva appena trafitto con un passante di rovescio come mai ne avevo visti, io che già avevo incontrati Gianni Cucelli e Marcello Del Bello, i nostri eroi di Coppa Davis. Un passante giocato dall'angolo sinistro, due metri fuori La madre nobile russa, il padregrossista di Lacoste. "Quando arrivammo a Roma dalla Tunisia ero un ragazzino. Tutti mi chiamavano Er Francia" Poi al Roland Garros diventò il più grande tennista azzurro e dal Cile di Pinochet portò a casa l'unica Davis italiana. Ora Nicola Pietrangeli compie ottant'anni. E li racconta all'amico Clerici Che fu tra i primi a essere trafitto dal suo rovescio dal campo, a me che stavo a rete, ad aspettare una sicura, facilissima volée. Decisi di credere a un colpo di fortuna, ma già sapevo, in fondo, quel che sarebbe avvenuto cinque punti più tardi, nellamedesima, identica circostanza. Avvenne, infatti, senzacheil bambinomostrasse segni di sorpresa, o di entusiasmo, e fui costretto a rassegnarmi al fatto che avesse un talento ben superiore al mio, e che in un prossimo futuro mi avrebbe superato: oh, di quanto! Mi rassegnai dunque avincere la mia banale partita rimanendo indietro spalleggiare, soprattutto sul diritto, meno pericoloso, e a stancarlo.
E così accadde, in un paio d'ore di banali ribattute e di corse, solo a tratti interrotte da uno di auei suoi rovesci iridescenti. Ma le sorprese non erano finite. Dopo avermi stretto la mano con un angelico sorriso, quasi la nostrafaticaaltro non fosse stata che un gioco, il bambino svicolò dal campo. Lasciatala sua unica racchetta in un angolo, lo vidi scavalcare una siepe, e affrettarsi verso il vicino rettangolo verde del campo della Lazio, dove fu accolto da grida gioiose di coetanei, e subito ammesso alla partitella degli Allievi, e rimproverato per il ritardo da un anziano allenatore.

Fu quello, il mio primo incontro con Nicola, un amico che avrei rivisto centinaia, forse migliaia ella nostra lunga vita.

L'intervista non è di quelle facili, come sempre accade quando il giornalista conosce troppo bene l'intervistato, tanto bene da aver rifiutato, anni addietro, di scriverne una biografia. Il lettore, certamente uno dei nostri, un aficionado, capirà quindi benissimo perché, in un simile ricordo, lo rcriba abbia privilegiato un paio di flash a una cheda biografica che potrebbe comunque cominciare pressappoco così.
«Nasco a Tunisi da madre russa e padre italiano. Non l'ho mai detto a nessuno, ma avrei potuto farmi chiamare conte. I miei nonni russi erano nobili e poiché mia madre non aveva fratelli maschi trasmise il suo titolo a me. Sarei il conte Nicola Shirinsky Pietrangeli. Quanto al mio nonno paterno era tedesco e aveva la moglie svedese. Insomma, sono un bel bastardo. Durante la guerra i francesi ci cacciarono da Tunisi. Passammo la notte di Natale del '46 su una nave per Marsiglia, come emigranti. Quando arrivai a Roma avevo tredici anni e diventai molto popolare a Piazza di Spagna. Ero "Er Francia". Non capivo una parola di italiano, solo russo e francese. Poi il russo l'ho dimenticato, per imparare male l'italiano. Papà diventò rappresentate di Lacoste, dopo aver visto giocare Cucelli e Del Bello secondo lui con vestiti non adatti al tennis. Nei primi anni '50 in un anno riuscì a vendere 280 mila magliette, ognuna costava 2.800 lire. Gli dissi: "Papà aggiungi cento lire in più per me". Ma lui disse di no. Ho fatto i calcoli: mi sarei comprato quattro appartamenti».

Un altro flash. Dopo il primo, quello di un'intuizione non meno sicura che ovvia, me ne ritorna subito alla mente un secondo: la vittoria del Roland Garros del 1960, la seconda dopo quella del '59. Pensate che, giovane inviato dell Giorno, il mio amato direttore, Italo Pietra, non aveva ritenuto importante la trasferta dell'anno precedente, una vittoria contro il poco conosciuto sudafricano Vermaak, il cui serve and volley era stato sommerso dai passanti di Nicola. Questa volta dovetti tuttavia insistere, garantire verbalmente che una seconda vittoria sarebbe stata sicura, e mi assisi, unico giornalista italiano, nello stadio che già avevo visitato tre volte da mediocre giocatore. Infine raggiungemmo — anzi, mi scuso — Nicola raggiunse la finale contro Ayala. Ero ottimista sul risultato, ma meno ottimista di me era il mio ospite, un genio chiamato Gil de Kermadec, già tennista francese del mio livello, segretario di Samuel Beckett tanto lucido da decidere di cessare di scrivere «perché è migliore lui», futuro factotum del tennis francese, inventore di una macchina cinematografica perché «i campioni si rendano conto dei loro punti deboli». Gil, che scriveva per ParisPresse, temeva che quel maratoneta presuntuoso del cileno riuscisse ad allungare la partita tanto da logorare il talento di un Nicola «troppo pigro per allenarsi alla corsa». Nicola era, tra l'altro, segretamente preoccupato per l'importanza di una vittoria, storicamente insolita, di un secondo Roland Garros, torneo Slam iniziato soltanto nel 1925, ultimo dei Big Four. Passavamo quindi la sera, per distrarci, in un ristorante vicinissimo al famose night club di Regine, una dama allora famosissima, delle cui amiche eravamo amici. Raccontarono, i giornalisti italiani assenti, che avessimo trascorso la serata ballando sfrenatamente sui tavoli, in preda all'alcool, mentre a mezzanotte salutammo e raggiungemmo le nostre abitazioni.


«Da Regine ci andavamo tutte le sere perché se non passavamo portava iella. Ma a mezzanotte a casa, e quanto al resto hai ragione tu: soltanto gossip».


L'amico de Kermadec aveva, al solito, visto giusto. Invece che tentare, come i precedenti avversari, una partita d'attacco, Ayala cercò, sin dall'inizio, di logorare Nic. Rispondeva ai profondi rovesci del nostro con un malefico rovescetto avvelenato, ribatteva ai suoi dropshot con tocchi ancor più corti, insomma, come scrisse il grandissimo Antoine Blondin «non perdeva la ruota sull'Izoard». Erano, a quei tempi, almeno per un (ora ex) addetto ai lavori, accessibili gli spogliatoi. Ricordo di aver evitato ogni suggerimento come vidi il medico del torneo che, insieme alle calze, liberava Nic anche della pelle dei piedi. Quello che fu, più tardi, ritenuto un "campione snob", uno che "avrebbe fatto meglio ad allenarsi", dopo sofferenze degne di un martire riuscì ad allungare tanto da consentirsi una serie decisiva di winners nell'ultimo set.
«Finita la partita avevo i calzini rossi di sangue. Per due giorni sono andato in giro in ciabatte». Per rimanere al Roland Garros, lo stadio che consacrò Pietrangeli numero uno mondiale sul rosso, è giusto ricordare l'anno seguente che condusse Nic vicinissimo— un set—da una tripletta sino ad allora mai realizzata. Fu probabilmente un eccesso di disinvoltura e insieme di umanità a privare Nicola del terzo titolo. Testimone e insieme amico, ricordo di aver palesato un timido dubbio quando mi informò di aver chiesto al giudice arbitro Ostertag, solitamente burocraticissimo, due giorni di libertà per tornare a casa.
«Susy, mia moglie, era incinta del nostro primo figlio. E allora- io vado dal giudice e gli dico "parto!". La domenica sono partito, mio figlio è nato e ancora oggi non so perché l'ho fatto maso -no rimasto a Roma altri tre giorni. Ritorno il giovedì e scopro che mi hanno aspettato: ero il più forte in quel momento».
Fin lì Nicola aveva dominato il torneo, e il suo avversario, lo spagnolo Santana, era sì promettentissimo, ma non ancora affermato come poi sarebbe divenuto. Inventore, sui campi rossi, di colpi liftati, Santana si impose, nel quarto quinto, a un avversario che, secondo me, era mentalmente uscito daltorneo. Secondo Nicola, perché Santana era l'unico a credere di poterlo battere.


«Santana vince, io salto la rete ma dall'altra parte non trovo nessuno. Era passato sotto, emozionato. E mi disse che era passato sotto la rete perché era così che faceva quando era un povero raccattapalle. Lui piangeva e io ridevo».


Quel 1960 fu un anno capitale nella vita di Pietrangeli. Dopo il Roland Garros giunse Wimbledon, che la rapidissima erba dei tempi precludeva, per solito, a tennisti tipici della terra battuta. La semifinale contro Rod Laverfini tanto tardi, al quinto set, che mi costrinse, come accade nel giornalismo sportivo, a stilare due pezzi, nel primo dei quali Nicola vinceva il match, nel secondo lo perdeva. Mentre compitavo il secondo, maledicevo il primo game del quinto, in cui Nicola aveva servito male, e subito un break che non riuscì mai a recuperare, nonostante lo scout della partita, nelle teche del Wimbledon Museum, ancora rechi una somma di punti a lui favorevoli. In finale, ad attendere uno dei due, già era pronto Neale Fraser, che poi vinse. Vecchio amico, partner di frequenti doppi a carriera finita, Neale fu spesso battuto da Nicola, come a Parigi nel 1959, e in più di una occasione ebbe aconfidarmi che aveva temuto di fronteggiarlo in finale, a disagio com'era, lui mancino, nel confronto tra i reciproci rovesci.
Ma ho parlato di un anno capitale, per Nic. Fu, il 1960, quello delle Olimpiadi romane. Dopo le ultime affermazioni, Pietrangeli era stato considerato più che degno da Jack Kramer di far parte della sua troupe. Erano i tempi in cui i tennisti si dividevano in due gruppi di appartenenza. I professionisti, in grado di essere remunerati per le loro esibizioni, e i dilettanti, che per diletto avrebbero giocato i tornei tradizionali, e in realtà percepivano modesti guadagni in nero dagli organizzatori o dalle Federazioni. L'offerta di Kramer fu tale che, mentre Nicola avrebbe desiderato acquistare una Maserati, la moglie Susy preferiva un appartamento ai Pario li. Ma, una volta di più, fini per prevalere il cuore di Nic. Durante la cerimonia di apertura dei Giochi, cui entrambi presenziammo, Pietrangeli si commosse all'idea di un mondo che, per denaro, stava per svendere.


«Mi misi a piangere. Avevo fatto quella scelta, i professionisti li battevo tutti in allenamento, era l'unico modo per guadagnare qualcosa: e mi consideravano un fuorilegge». E, dopo ore difficili, telefonò a TonyTrabert, che rappresentava Kramer. Stracciò il contratto, e me ne diede notizia che non tardai a comunicare, nella mia cinica professione di autore di scoop. «Oggi i giovani non capirebbero».
Non fu quella l'unica occasione in cui un uomo nato a Tunisi, che avrebbe potuto rappresentare Tunisia o Francia in Coppa Davis, dimostrò amore per l'Italia. «A diciott'anni potei scegliere se avere il passaporto italiano oppure no, se giocare con la Francia o la Tunisia oppure no. Scelsi di stare qui, e non so se oggi lo rifarei».


Alla fine di una carriera che ancora lo vede come il giocatore mondiale con il maggior numero di presenze, 164, inCoppaDavis, (110 singoli e54 doppi), Nicola, ormai capitano non giocatore di Davis, si ritrovò di fronte la metà di un Paese che la storia, anche recente, vede diviso nelle antiche fazioni di guelfi o ghibellini. Perla terza volta in finale di Davis (dopo le due perdute contro l'Australia proprio da Pietrangeli con il mio ex partnerSirola), l'Italia, avvantaggiata da un ritiro politico dell'Urss, si ritrovava nel 1976 favorita infinale, sempre fuori casa, con il Cile. Era, il Cile, vitti ma di una dittatura di destra, guidata dal Generale Pinochet, che aveva estromesso un governo condotto dal socialista Allende. Iniziò, allora, in Italia, una campagna disinformata quanto faziosa, campagna della quale fui io stesso oggetto, mentre sia Nicola che lo scriba, tutt'altro che pro-Pinochet, erano serenamente favorevoli alla sfida tennistica. Nicola fu minacciato, così come i quattro membri della squadra Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli, da gruppi di quelli che osai definire "gli squadristi rossi", uno dei quali si segnalò gettando macchine per scrivere dalla finestra di una Federtennis della quale sarebbe divenuto in seguito segretario. Il brillante cantautore Modugno ("Volare, oh oh") divenne ancor più noto con due storici versi che assursero a slogan: "Non si giocano volée con il boia Pinochet". Nicola resistette con felice pacatezza alle provocazioni e alle minacce, affermò — come Panatta — che avrebbero dovuto sequestrargli il passaporto per impedirgli la trasferta, e riusci infine a convincere gli interessati pacifisti del governo Andreotti, e segretamente l'onesto incaricato del Pci, onorevole Pirastu, infavore dell'ostacolatissima partenza.


«Non mi sono mai occupato di politica, ma nel '76 ero diventato popolarissimo, o impopolarissimo, in Italia solo perché ogni santo giorno cercavo di convincere tutti ad andare a giocare a Santiago. A me di Pinochet non me ne fregava nulla. Avevo la macchina della polizia sotto casa 24 ore su 24. Sotto le finestre mi urlavano "brutto fascista ammazziamo te e la tua famiglia". Ma io insistevo. Andiamoci a Santiago, andiamoci perché sarà l'unica Coppa Davis che potremo portarci a casa. E cosi siamo partiti scortati dai carabinieri. Le stesse cose le sostenni contro gli Usa quando decisero di boicottare i giochi di Mosca del 1980, però in quel caso mi diedero tutti ragione... ».


Giunti in Cile, ci ritrovammo di fronte, nelle vesti di capitano, lo stesso Ayala che Nicola aveva superato al Roland Garros e, dopo aver apprezzato la sportività di un pubblico grato perla decisione della trasferta, una squadra che, come scrisse per primo lo scriba "era zoppa dalla gamba destra", a causa di uno stiramento sofferto dal suo numero uno, Jaime Fillol. L'incontro fu quindi una passeggiata, complicata dalla reticenza politica di un nuovissimo presidente, l'avvocato Galgani, tanto che, al sorteggio, la squadra rifiutò ai annodarsi la cravatta ella Feaertennis, e preferì quella celebrativa del Club dello Scriba, che Nic mi onora di portare anche oggi. Fu una facile vittoria, che rimane la nostra sola in Davis. Anche al ritorno il successo non ottenne i favori che avrebbe meritato, tanto che, priva di un luogo di sicuro deposito, la Coppa dovette trascorrere una notte in attesa tra le braccia di Nic, nella sua stanza da letto romana.
«Al ritorno ci accolsero a insulti: dovemmo scappare come ladri da un'uscita secondaria, roba da pazzi». Come premio di tutto ciò, dopo una sconfitta mal digerita della finale dell'anno seguente, a Sydney, Nicola si ritrovò licenziato da una squadra ingrata, e dal suo presidente Galgani, che avallò un colpo di stato condotto da un geloso direttore tecnico, Belardinelli.


«Parce sepulto» mi dice Pietrangeli, al termine di questo incontro che spero vedrete integralmente su Repubblica Tv. Un dialogo che ripercorre la sua vita certo meglio di questo scritto, e al termine del quale l'aficionado si domanderà perché non l'abbia scritto quel libro su Pietrangeli. Me l'ha chiesto un grosso editore, confesso, così com'è accaduto per altri tre miei famosi amici, ormai scomparsi. Ma sono convinto di non poter scrivere biografie su gente che ho conosciuto troppo bene. È, probabilmente, un limite professionale. Non certo umano.
 

comments powered by Disqus
QS Sport

Si scaldano le trattative di mercato: Milan e Juventus attivissime, la Roma blinda Florenzi; Thohir dice no all'Atletico Madrid per Icardi e Handanovic. Maxi Lopez è del Chievo, Trezeguet torna al River Plate

Ultimi commenti