03/10/2013 18:31 CEST - ATP

Adios, rey della follia pensante

TENNIS - Con David Nalbandian se ne va un giocatore che ha dato enorme contributo al tennis degli anni Duemila, nell'incompletezza di chi non ha mai voluto per forza essere compiuto. Riccardo Nuziale

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David Nalbandian e Marat Safin
David Nalbandian e Marat Safin

“Passerò ai pro dopo l’Australia. Penso che l’Argentina abbia sempre giocatori molto buoni, ma tra i junior, gli argentini hanno sempre avuto difficoltà nel passaggio da junior a professionisti. Sarà il tempo a dirlo e dipenderà da come giocherò”.

È il 13 settembre 1998 e un neppure 17enne David Nalbandian ha appena superato un suo quasi coetaneo (nemmeno cinque mesi li dividono), Roger Federer, trionfando così nel torneo juniores degli US Open. Gioca già con il futuro: dipenderà dalle sue performance sul campo. Dipenderà da come giocherà. Se giocherà. Il scendere in campo non sarà mai per lui garanzia di abbracciare agonisticamente la partita. Anzi.

“Il replay ha detto che era buona o fuori?”
“Molto difficile da dire. Molto vicina”
“Ogni volta che è vicina, è per loro (riferendosi ai giocatori di casa, agli americani)”
“Perché dici che non hai potuto servire e colpire il rovescio? “
“Ero un po’ infortunato. Addominali e polso”

È il 6 settembre 2003 e David Nalbandian ha appena perso la semifinale degli US Open contro Andy Roddick. Una sconfitta molto dolorosa, perché subita sciupando un vantaggio di due set e per un tie-break del terzo set che l’ha visto non sfruttare un match point e perdere un punto per patriottismo arbitrario: 67 36 76 61 63.

“Chiamerai Andy Roddick per dirgli grazie per averti dato la possibilità di giocare il Masters?”
“Sì, sento il bisogno di ringraziarlo. Perché se non fosse stato per lui, non sarei stato qui”

È il 20 novembre 2005 e David Nalbandian ha appena vinto il Masters superando Roger Federer in finale. Che a distanza di sette anni coetaneo lo è ancora, ma le strade dei due si sono separate: lo svizzero ha preso la via della monarchia ed è diventato immune al gioco dell’argentino, che negli anni precedenti invece lo destabilizzava totalmente. Dopo cinque successi nei primi cinque incontri (l’ultimo nel settembre 2003, in quel maledetto US Open), David ha preso quattro sberle di fila. L’ultima pochi giorni prima, nel round robin. Una settimana folle e non poteva essere altrimenti, il momento di massimo splendore di Nalbandian; che non doveva giocare il torneo, non essendosi qualificato, ma a cui alla fine partecipò grazie al forfait di Andy Roddick, il suo sicario di New York. Corsi e ricorsi storici. Un quinto set folle, con Federer sempre più immobilizzato dai malanni fisici e che Nalbandian quasi gli regalava, facendosi recuperare da  4-0 a 5-6 30-0 servizio Roger: vittoria al tie-break, questa volta amico e senza polemiche. Corsi e ricorsi storici, ancora.

Tre episodi, qualche riga, per rendere evidente cosa sia stato David Nalbandian per il tennis degli anni 2000: uno, nessuno, centomila.

Ed è ora impresa ardua scrivere righe che non risultino banali, dopo anni di commenti e articoli riguardanti il suo iter di rimorsi e rimpianti, del suo 2007 indoor, a cullare i suoi sostenitori della tesi più evanescente e dolce (che nello sport colpisce moltissime persone), quella del “se in giornata è il più forte di tutti”. Il più grande giocatore di tutti i tempi a non aver vinto uno Slam, sostengono in non pochi; certamente è tra i primissimi, nella lista.

Di certo – e lo sostengo con la consapevolezza d’infastidire i tifosi soprattutto di Djokovic e Murray – lo considero la miglior risposta degli anni 2000, un tripudio di anticipo e angolazioni inconcepibili. E fino all’ultimo, pure ora che è n.231 del mondo, è stato il giocatore che nessun top 5 voleva affrontare. Perché la sua follia pensante non è mai stata amministrata da nessuno, qualunque fosse il risultato.

Un giocatore completo in ogni settore, capace di qualsiasi cosa, anche di saper preferire la vita al tennis, che ha sempre visto come capitolo della prima. Giocatore di testa, come verrebbe invece da escludere in un primo momento, perché dotato di vera personalità, in campo e fuori.

Non voglio andare oltre nei ricordi e nelle considerazioni, i requiem sono stati ahilui già sprecati a sufficienza in questi anni. Uscirebbero tentativi di afferrare un tennista e un personaggio che hanno sempre rifiutato la catalogazione altrui. Sto già facendo danni abbastanza, in questo deserto di spiccioli elogi. Mi limito a dire che con James Blake è stato il giocatore che più mi ha divertito, tra gli outsider (lo è stato davvero?) di questo decennio.

Sarebbe perfido chiudere ricordando quella finale che agli occhi odierni risulta ancora più assurda, quella in cui l’argentino si fece squalificare per uno sfogo virulento ai danni di un malcapitato giudice di linea, facendo vincere un giocatore ora visto sotto tutt’altra luce, non si sa quanto vittima di non si sa quanto grande vicenda.

Lo lascio invece così, senza rimpianti di campionissimo mancato, ma con la gioia di magnifico e compiuto artista della racchetta. Lo lascio con colui che gli ha tolto l’unica possibilità di Slam e che in Australia, sei anni prima, gli aveva tolto la possibilità di affrontare Andy Roddick (sempre lui!) in una semifinale semirivincita. Perse 10-8 al quinto. Doveva fargliela pagare. A modo suo: 9-7 al quinto. Annullando così due match point. Tra l'altro quella fu solo l'ultima di una triplice rivincita che l'argentino si prese contro Rusty: tre vittorie in carriera e sempre in Australia. Una addirittura in Davis, sull'erba di Sydney.

Con Rey David si è sempre saputo quando qualsiasi cosa iniziava, ma il punto è stato una sfinge che ancora non ci ha dato la soddisfazione di comprendere.

Riccardo Nuziale

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