19/12/2013 22:37 CEST - STORIE DI TENNIS

Mezzanotte a Parigi

TENNIS - Terzo racconto di un'impresa quasi sfiorata. A Parigi Novak Djokovic è vicinissimo a battere Rafael Nadal, sconfitto una sola volta al Roland Garros. Poi sul 4-3 del quinto set... Daniele Vallotto

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Roland Garros 2013, scambio a rete tra Nadal e Djokovic
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«ASSENZIO [ABSINTHE] - Veleno potentissimo: un bicchiere e sei morto.
I giornalisti ne bevono quando scrivono i loro articoli.
Ha ucciso più soldati lui dei beduini. Rovinerà l’esercito francese.»
Gustave Flaubert – Dizionario dei luoghi comuni

Ah, Paris, Paris. La città dei sogni. E d’altronde: quale posto migliore di Parigi per sognare? Me lo domando da quasi due settimane. Parigi doveva regalarmi sogni, per ora ho ricevuto solo ore di insonnia. Mi alzo dal letto, scuotendo la testa. Passeggio avanti e indietro per la stanza, cercando una calma che non verrà. Domani gioco la partita più importante della mia carriera e sto perdendo minuti preziosi di sonno. Apro la porta della mia stanza; c’è un corridoio lunghissimo. Lo percorro tutto. Alla fine prendo l’ascensore e scendo al piano terra. Il tizio della reception mi guarda con la coda dell’occhio ma continua a scrivere cifre sul suo registro. Esito di fronte all’uscita. Ma alla fine spalanco il portone: eccoti, Parigi! A quest’ora è meravigliosa. L’aria è fresca, da respirare a pieni polmoni. Respiro Parigi e Parigi respira me. Non riuscirò a dormire, stanotte.
Le città di notte svelano tutto il loro fascino, quando non sono schiacciate tra la folla e il traffico. Parigi non fa eccezione. C’è poca gente in giro e posso permettermi di gironzolare senza essere disturbato da nessuno. Passeggio per qualche boulevard sconosciuto. I rintocchi di una campana annunciano la mezzanotte. Mi accorgo di aver lasciato l’orologio in albergo. Non fosse che per quell’arnese di bronzo, non saprei nemmeno che ora è. Ad un tratto, in una via deserta, vedo una finestra illuminata. Mi ci dirigo, incuriosito. Getto uno sguardo dentro e vedo che è una specie di taverna molto piccola. Decido di entrare. Al bancone non c’è nessuno. Un solo tavolo è occupato da tre uomini. C’è una cortina di fumo piuttosto densa ma nessuno di loro sta fumando. Uno di loro ha una faccia seria, quasi severa. Sta giocando a carte con un uomo dallo sguardo di ghiaccio e dalla folta capigliatura bionda. In piedi, dietro subito al capelluto, c’è lo svedese che ha fatto quello che io devo fare domani e che non sembra aver notato che sono entrato. Ad un tratto riconosco entrambi i giocatori di carte: ma non può essere, sono troppo giovani! Li guardo meglio; sì, sono, anzi, erano loro. Mi giro nuovamente, confuso, verso quello con l’età giusta ma lui non mi degna di uno sguardo. Il biondo che sembra proprio quello che a Parigi ha vinto e stravinto non distoglie per un secondo i suoi occhi blu dalle carte. Ticchetta le dita sul tavolo e continuando a guardare le sue carte mi chiede di sedermi. Io, che non pensavo di essere stato notato dal trio, obbedisco.

Come la mettiamo?” domanda a bruciapelo quello che a Parigi ha iniziato a vincere e poi non ha più smesso. Dal silenzio successivo intuisco che si rivolge a me.
Come la mettiamo che cosa?” faccio io, un po’ sorpreso dal tono.
Il biondo mette una carta sul tavolo e sbuffa.
Sai benissimo di cosa sto parlando” sentenzia il Terribile.
Va benissimo. Domani farò quel che devo fare”.
Cioè?” interviene l’Orso, senza smettere di ticchettare lentamente le dita.
Vincere”.
I tre mi guardano dubbiosi ma non pronunciano una sillaba. La partita prosegue e per un paio di minuti nessuno parla. Si sente solo il ticchettio delle dita. “E come pensi di vincere?”.
È stato il Boscaiolo, quello che è riuscito a fare quello che nessuno era mai riuscito a fare, a riprendere la conversazione.
Come ho sempre fatto”.
Altro giro di sguardi dubbiosi.
L’ho battuto e ribattuto, praticamente dappertutto. Due mesi fa l’ho battuto a casa mia, che è praticamente casa sua, a dirla tutta. Non mi manca nulla. Domani è il mio giorno”.
Ma la mia sicurezza si scontra con i loro dubbi. Il Terribile alza un sopracciglio.
Vedi, in una partita di tennis le cose non sono semplici come in una partita di carte”, dice. “Innanzitutto, c’è il pubblico. Poi ci sono varie condizioni ambientali. E poi c’è il campo. Le righe, la rete, il nastro. Tutti questi fattori possono modificare una partita di tennis. Ed io lo so meglio di chiunque altro”.
La lezione non richiesta di filosofia applicata al tennis mi innervosisce.
Questo lo so. Ma domani la storia si deve compiere” ribatto.
Il biondo finalmente toglie lo sguardo dalle sue carte, mi squadra e poi dice agli altri: “Smettiamola di parlare di domani. Pensiamo all’oggi”, facendo un cenno verso il bancone. Non c’è nessuno, ma poco dopo dalla cortina di fumo esce un uomo sulla sessantina con un vassoio. Ci sono quattro bicchierini ripieni di un liquido verde. Il barista li abbandona sul tavolo. Il Terribile, l’Orso e il Boscaiolo prendono un bicchiere a testa. Io rimango a fissarli.
Allora?” mi chiede il Boscaiolo.
Esito. Non so che cosa sia. E non sono nemmeno sicuro di volerlo bere.
Che cos’è?
C’est le diable fait liquide”, dice l’Orso trangugiando in un sorso il contenuto del bicchiere. Gli altri due lo imitano. Dopo un’esitazione e tre sguardi di disapprovazione, lo bevo anch’io. Prima di crollare sento solo il lento ticchettio delle dita dell’Orso.

Tic, tic, tic. Il rumore di quella dita. Toc, toc, toc. Quello della pallina sull’argilla dello Chatrier. Siamo all’ultimo set della partita che devo vincere. Di là c’è colui che ha perso una sola volta qui. Siamo a tanto così dalla seconda volta. Toc, toc, toc. Servo bene, ma lui uncina ancora alla grande. Alla terza uncinata mi manda fuori giri il rovescio. 0-15. Insisto sul dritto, voglio metterlo all’angolo. Ma è l’angolo sbagliato perché lui ne azzecca un’altra, di quelle uncinate, e comincia a caricarsi. Zero-trenta. È una partita di contropiede. Il primo che trova un varco lo affronta a testa bassa per sorprendere l’altro, ma quello si difende e riparte sempre meglio. Chi sbaglia per primo è spacciato.
Servo una seconda. Vado sul rovescio. Ci azzecco e lo sorprendo, anche se tiro pianissimo.
È una questione di precisione, mi dico. Gli servo ancora sul rovescio ma stavolta ha tutto il tempo per comandare col suo gancio, allora devo alzare, stringere, allungare le traiettorie per cercare un varco. Alla fine è il fidato rovescio incrociato, quello dei tempi belli, quello della California, quello di Madrid, quello di Melbourne a ripristinare la parità. Mancano ancora due passi al 5-3. Mancano ancora due game al compimento della Storia.

Comincia la quinta ora di gioco. Servo ancora piuttosto bene. Lui si difende alla grande, poi alza uno dei suoi mortiferi campanili e appena mollo un attimo mi infila col gancio lungolinea. Alza il pugno: palla break. Quello è un punto dolente, che va attaccato con parsimonia. Ormai non sono più lucido. Quel dannato assenzio. Sono state quattro ore di allucinazioni, di bracci di ferro, di sudore, di esultanze e di disperazione. Quante altre mi aspettano? Basta un nulla per cambiare il vento.
Prende subito in mano il punto. Io mi rifugio in difesa e lui si prepara ad azzannarmi. Fuori. Il dritto che non sbaglia mai, quello che tira anche a chiusi, disegna una parabola sbilenca. È il mio turno di alzare il pugnetto. So che devo prendere in mano la situazione. È il mio momento. Immagino di essere il Boscaiolo in quel tie-break fatto di pura violenza. Mi fermo talmente tanto ad immedesimarmi nel Boscaiolo che Pascal dice qualcosa al microfono. Quasi non lo sento. Tiro tre vincenti di fila, quasi fossi davvero colui che ha fatto quello che devo fare io oggi. Lui non ci sta, riprende tutto quello che c'è da riprendere ma quando sembra che ogni tentativo sia inutile mi arriva una palla stanca, semplice, pronta da appoggiare di là. Due soli rimbalzi. Mentre mi avvicino alla rete ricordo le parole del Terribile: “Le righe, la rete, il nastro”. Sto per appoggiare il colpo che mi darà il vantaggio. La tocco saltellando. La pallina va di là, rimbalza una volta ed io termino la mia corsa appoggiandomi sulla rete, quando il punto ormai è vinto. Ma dalla sedia arrivano altre parole che a malapena sento. Ho perso il punto. Il secondo rimbalzo, il maledetto secondo rimbalzo, è arrivato troppo tardi. Mi giro verso la sedia, smarrito ed incredulo. Ho la faccia di un bambino a cui hanno appena sottratto dalle mani il regalo appena scartato. Non riesco ad elaborare degli argomenti credibili per difendermi. Il tribunale ha deciso: palla break.
Ho una testa dura, io. Allora da buon geometra rigioco lo stesso identico punto, lo attacco da una parte, poi dall’altra e lo costringo ad alzare un altro campanile. Stavolta mi avvicino con circospezione, calcolo la posizione e l’esatto momento dell’impatto e alla fine schiaffo via tutte le esitazioni. Ancora parità. Urlo via tutta la mia tensione. L’arena vuole altri colpi di scena ma il disegno che ho in mente è differente.
Voglio comandare il punto, voglio vincere questo game. Quattro ore e quaranta minuti. Quattro a tre. Quaranta pari. Il numero quattro mi tormenta. Devo tenere lontano il mio nemico da quella cifra. Servo l’ennesima seconda ma non riesco a prendere in mano lo scambio, provo a spostarlo ma è sforzo vano. Alla fine s’inventa un rovescio alto, profondo e diabolico. Ci arrivo, ma il nastro dice “stop”. Di là il nemico ringhia, mentre io gemo. Altra palla break. Indovino la prima e capisco che è giunto il momento di accelerare. Mi arriva una risposta succulenta. La azzanno. Ma è ancora quell’infido nastro ad emettere la condanna. È quattro pari, infine. Non è ancora finita, ma so già come andrà a finire.

Mezzanotte, di nuovo. Parigi, la città degli incubi, è assopita. Io, come tutte le altre notti, non riesco a dormire. Il mio torneo è finito qualche ora fa ma l’inquietudine è rimasta. Passeggio distratto, rivedendo tutti quei punti e quel mezzo passo di troppo, risentendo quella voce metallica che mi condanna e la mia voce che si fa sempre più debole nel tentativo di contrastarla. Tutto invano. Parigi, una donna tanto affascinante quanto difficile, mi ha respinto di nuovo. Ripercorro i boulevard della notte scorsa alla ricerca di qualche bettola, magari di qualche pillola di filosofia applicata al tennis. Alla fine ritrovo la taverna. C’è ancora la cortina di fumo ma stavolta al tavolo non c’è nessuno. Mi ci avvicino e noto qualcosa. È un piccolo pacchetto. “Per Novak”. Lo apro. C’è un sottile nastro bianco che non mi strappa nemmeno un sorriso amaro. Assieme al nastro c’è un piccolo bigliettino. La grafia è quasi illeggibile. Dice: “È incredibile come cambia la vita se si tocca la rete o meno, no?”.

Daniele Vallotto

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