29/12/2013 12:51 CEST - Personaggi

Pat Rafter, storia di un campione di correttezza

TENNIS - È uno degli uomini più popolari e amati di sempre nel mondo del tennis. Forse l’ultimo vero grande esponente del serve and volley. E' Pat Rafter: un campione che sarà sicuramente difficile dimenticare, per il suo gioco e per il suo fair play. Ripercorriamo la sua carriera e i suoi successi. Davide Uccella

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Patrick Rafter at the Statoil Masters Tennis
Patrick Rafter at the Statoil Masters Tennis

COME NASCE IL MITO RAFTER - Michael Patrick - per l'anagrafe - nasce nel Queensland il 28 dicembre 1972, precisamente a Mont Isa, città famosa per le sue miniere. È il terzo più giovane in una famiglia con nove figli, comincia a giocare a tennis all'età di cinque anni con il padre e tre fratelli più grandi, su un campo in cemento semi abbandonato, e non in un famoso club, viziato e coccolato.

Il suo soprannome tra i colleghi è Skunky, per via di una ciocca di capelli bianchi che gli dava un giusto tocco di maturità: chissà, forse per questo tutti si aspettavano da lui qualcosa di più, sembrando più grande. Eppure l'inizio è duro, tanto che viene respinto dall'Australian Institute of Sport, e a livello junior non vince granché, tanto che la stessa federazione inizialmente non credeva troppo nelle sue potenzialità.

Queste difficoltà però non gli hanno mai montato la testa, rinforzando invece l'uomo e non facendogli dimenticare chi sta peggio di lui: non a caso nasce in questo periodo quel suo lato benefico che diventerà celebre, le sue innumerevoli iniziative caritatevoli, che vanno dalla difesa dell'ambiente alla sua personale fondazione chiamata "Cherish the Children" per la difesa dei bambini in difficoltà, a cui varie volte ha devoluto più della metà di un prize money. Addirittura restituì il compenso garantitogli dal direttore di un torneo francese perché giocò malissimo, perdendo all'esordio e deludendo le attese del pubblico presente: "Non ho fatto un buon lavoro e non ho onorato il pubblico che era venuto a vedermi, perché dovrei essere pagato?". Un gesto piccolo, ma indica come per Pat il denaro non sia variabile indipendente, e non lo sarà da ricco perché non lo è mai stato quando era giovane, e non navigava nell'oro.

UN TALENTO ANCORA DA FARSI - Oltre però al denaro dei montepremi, per diventare grandi servono i risultati. Lui però è uno paziente, non si fa contagiare dall'esterno e fa i passi al momento giusto: entra nel professionismo nel 1991, all’età di 19 anni. Nel '93 e nel '94 arrivano due sprazzi importanti. Il primo a Indianapolis, quando da sconosciuto, batte nei quarti di finale dopo un'autentica battaglia Pete Sampras, allora numero 1 del mondo. Perderà il giorno dopo la semifinale in tre set da Boris Becker, ma l'anno successivo non è un Mr. X quando invece vince il primo titolo (di 11) in singolare a Manchester, sfruttando la sua abilità nel serve-and-volley.

Già nei primi anni si vedeva che sotto rete era una tigre, funambolico, determinato; che il servizio era un colpo buono, su cui lavorare per elevarlo a livelli di eccellenza. Il diamante però era ancora grezzo: da fondo era un agnellino, difficile vedere un giocatore così leggero ed inconsistente. I suoi colpi viaggiavano insicuri, lenti, spesso imprecisi, troppo arrotati per essere d'attacco e troppo deboli per esser insidiosi. Il fisico su cui costruire c'era, ma pareva avviato ad una onesta carriera di metà classifica o ricca di gloria come doppista.

LA RIVOLUZIONE DI TONY ROCHE, E IL “PROBLEMA SPALLA” - Serviva allora un cambio di rotta, senza se e senza ma...e puntualmente, eccolo che arriva. Spinto dalla famigliae da quella federazione che prima lo aveva messo alla berlina, Pat inizia  lavorare sotto la supervisione "un certo" Tony Roche, spendendo le stagioni 1995 e 1996 per curare alcuni infortuni (già le primissime avvisaglie dei problemi alla spalla che gli saranno poi fatali) e svolgendo un lavoro a 360°, che si concentrò molto sulla testa, in modo da far prendere a Rafter la completa fiducia nel suo tennis, e sul potenziamento fisico, visto che solo un grande atleta può reggere un tennis così aggressivo ed istintivo. La strada  è lunga, il lavoro non paga subito, nel 1997 però il Rafter 2.0 era pronto, e arrivarono i frutti sperati.

Tanti furono stupiti, come io davanti al suo nome, in quel lontano giorno del 2000. Tanti scambiano l'inizio di quell'ascesa con il cambio di immagine che Rafter mette in piedi, guadagnandosi l'attenzione di milioni di donne nel mondo: quei bermuda stile hawaiano che spesso indossava in campo, i capelli lunghi raccolti in un codino, la crema solare che metteva a strisce sul viso. Pochi però si ricordano per che cambiare (e vincere)  serve una vera metamorfosi, fuori ma soprattutto dentro il campo. E in quei due anni di lavoro, gli effetti si videro non tanto nella tecnica - comunque particolare, perché diversa sia da quella classica sia da quella arrotatissima post-anni 80 - quanto nell'interpretazione del gioco, ovvero coprendo i suoi limiti tecnici e massimizzando la sua qualità principale di fighter unito all'istinto per il gioco offensivo.

Il dritto infatti migliora, anche se non sarà mai penetrante e preciso come quello dei manuali; meglio il rovescio (rigorosamente a una mano), con un braccio rigido e un movimento di polso molto accentuato quando chiudeva. Sono ormai perfetti i pezzi forti del repertorio, che esplodono letteralmente. E al primo posto il back: Rafter lo esegue in modo sublime, rifilando delle autentiche rasoiate ben accompagnate con le gambe. Altro punto di forza sono le volèe, sia in quelle di opposizione che in quelle acrobatiche: Pat sotto rete trova quel timing, quella posizione e quella sensibilità che dal fondo non riuscirà mai ad avere, tutti ricordano la sua inconfondibile "veronica" - la volée alta di rovescio - considerata da molti esperti come la miglior volèe alta di rovescio di sempre. Potente e agile, sembrava anzi più uno smash che un movimento fatto di sola agilità, compostezza, equilibrio. Sarà poi per quel polso e a quel gomito che madre natura gli ha donato che questo effetto pare naturale, sta di fatto che lui (con Sampras) diventa stato l'ultimo a scrivere pagine nuove nella storia del tennis come gioco aereo.

Ovviamente non senza il suo servizio: non gli è mai mancato, lo sappiamo, ma ormai Pat lo mulina alla grande, e diventa anzi il tappeto rosso con cui è sicuro di poter scendere a rete in tutte le condizioni di gioco, e contro ogni avversario. Il suo movimento si riconosceva con un lancio di palla piuttosto alto (famosi i suoi "sorry, mate!", per scusarsi, solo Dominik Hrbaty farà meglio) ed un notevole caricamento della schiena e delle gambe, un istante dopo però esplodeva tutta la sua potenza grazie ad una poderosa azione della spalla, che con un giro quasi completo gli permetteva di ricoprire al meglio la palla in aria, accelerando alla grande. Un kick come pochi, ma anche un movimento esigente, per quelle articolazioni che proprio all'apice del momento d'oro, subiranno danni seri, probabilmente decisivi.

1997-99, L'ASCESA E GLI SLAM - Il momento dei rimpianti però non è ancora arrivato, sportivi e non. Di sicuro, alla vigilia della season '97, sappiamo che Pat è sicuro. Sicuro di aver dato il massimo, sicuro di essere pronto per la svolta, a 25 anni. E il suo anno di svolta nel circuito è proprio il 1997, agli Open di Francia, dove raggiunge  le semifinali, sconfitto in quattro set da uno specialista del “rosso” Sergi Bruguera, e apre così il suo momento d'oro. Nello stesso anno infatti vince il suo primo titolo Slam agli US Open, sconfiggendo Greg Rusedski in quattro set, ed è protagonista di un gesto, poi premiato col premio Fair Play dell’anno: nell' Australian Hardcourt tournament di Adelaide, durante un combattuto tie-break, fa cambiare suo sfavore la chiamata del giudice di linea, consegnando di fatto il secondo set al suo avversario, Andrei Cherkasov, non bastano tanti commenti quando un modello di gioco e di campione si mostra in modo così evidente, così pratico, senza tanta filosofia.

L'anno seguente, il 1998, Pat resta ai piani alti, dove ormai è di casa: vince a Long Island, a Chennai, a s'Hertogenbosch (dove si ripeterà nel '99 e nel 2000), e dopo Wimbledon è il mattatore assoluto: vince l'ATP Masters Series di Toronto (su Richard Krajicek), due settimane dopo s'impone anche a Cincinnati, dove sconfigge nell'ordine Guillaume Raoux, Todd Martin, Petr Korda, Evgenij Kafelnikov e Pete Sampras: tutti e cinque erano tra i primi 50 del mondo, tre di questi nella Top 10 (Korda n.4, Kafelnikov n.10, Sampras n.2). Da favorito d'obbligo quindi si presenta a New York, e da favorito difende i suoi US Open, battendo in finale (e in quattro set) il connazionale Mark Philippoussis. In pochi mesi completa due record. Non solo sigilla il back-to-back australiano a Flushing Meadows, 38 anni dopo quello di Neil Fraser, ma anche quella doppietta tra USA e Canada che riuscì solo ad Agassi nel 1995 e in futuro al solo Andy Roddick, nel 2003, e quest'anno a Rafa Nadal.

Risultati importanti, nulla da dire, intanto Pat si completa anche nel doppio, dove coglie anche un titolo di doppio agli Australian Open del '99, vinto in coppia con Jonas Bjorkman, con lo svedese ripete la buona accoppiata di Indian Wells '98, e vincerà anche in Canada, l'anno dopo. Insomma il campione è a tutto tondo, e le premesse per diventare n.1 pian piano nascono: infatti il periodo magico del canguro tocca l'apice pochi mesi dopo, il 26 luglio 1999, con la vetta ATP, in quel momento stra-meritata.

LUGLIO ’99, LA PRESSIONE (INSOSTENIBILE) DI ESSERE N.1 - Sembra fatta allora, ma nulla è perfetto nella vita sportiva di Pat, lo abbiamo visto, anzi. Prima la fatica di passare pro, poi la fatica di convincere gli scettici di Tennis Australia, quindi la fatica di essere un fair-player, ma di essere scambiato di uno che fa ripetere un punto semplicemente per strappare un applauso, o crearsi un' immagine da buono per calamitare qualche sponsor. Infine - e forse l'accusa più grave - la fatica di essere un amante vero della beneficenza - tanto che dona metà del montepremi delle sue vittorie agli Us Open alla Starlight Children’s Foundation - ma di  convivere di chi con le critiche ti definisce ipocrita, perché poi vivi in un paradiso fiscale: pesi non da poco,  che lui fino a quel momento ha saputo sostenere, anzi disfarsi.

Ora però una nuova sfida, la più dura, e stavolta pare proprio non farcela. Una settimana soltanto da leader (e senza neanche aver giocato), molti pensano che Rafter abbia quasi rinunciato a quel trono, a quello scettro. "Perché?": la domanda è legittima, ma per noi sembra altrettanto lecito pensare al perché Rafter abbia deciso così, e proviamo ad interpretare. Un tennista, specie un n.1 con tutti i crismi, è un giramondo forzato, costretto a muoversi in continuazione per competere. Ecco, Pat ha sempre sofferto questa vita così logorante, e spesso s'è preso delle pause abbastanza lunghe dal tennis, anche nei momenti migliori della sua carriera, rifugiandosi nel suo ennesimo esilio alle Bermuda. Lontano da tutti, per disintossicarsi dagli eccessi e dalla competizione, solo con la sua dolce metà ed il suo amatissimo surf. Cavalcare le onde è sempre stato il suo passatempo preferito, naturale come camminare per uno nato vicino al reef della barriera corallina. Il mare, l'acqua, un naturale habitat per Rafter, anche più di un campo dove pensare a titoli, montepremi, pensare agli avversari.

2000-2001, LE GRANDI DELUSIONI - Questo avrà pensato Rafter (lo speriamo), e questo nei fatti lo porta alle ultime due stagioni da tennista vero, agli ultimi grandi momenti della sua carriera, a cominciare da quel Wimbledon 2000 con me bimbo sperduto, ignaro di chi fosse (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa...). E qui, forse, si apre il capitolo più doloroso: quello del perdente di successo, quello dei rimorsi, quello delle imprese sì, ma sempre incompiute, mai completamente sue.

LA FERITA DELLA DAVIS MANCATA - Il primo cruccio di sempre riguarda sicuramente quell'Australia di cui poi diventerà capitano di Davis. Rafter ha contribuito e tanto per il suo paese, con 21 vittorie in 32 match tra il '94 e il 2001, e ha sempre sognato di alzare l’insalatiera prima di ritirarsi: in tanti per esempio ricordano il 4-1 sugli USA di Martin e Courier con due punti in entrambi i singolari, nei quarti del magico '99, ma i problemi alla spalla gli impediranno di esserci nel modo momento del trionfo, a Nizza.  i sono poi le amare finali del 2000 e del 2001, raggiunte anche grazie a lui lungo la strada. Per sua sfortuna però non sarà mai determinante, e prima con Ferrero, poi con l'errore di schierarlo sia nel singolo che nel doppio contro la Francia (facendo un disastro con Hewitt), Pat non proverà mai quella consacrazione che invece vivrà quattro anni più tardi quel giovane ventenne, già in grado di farsi conoscere. Un giovane di nome Lleyton, che in casa come in giro per il mondo stava cominciando a rubargli la scena, e che farà suo quell'altro alloro a cui Rafter si avvicinerà per ben due volte, in ben due edizioni di fila, sempre nel 2000 e nel 2001.

Stiamo parlando naturalmente della vittoria ai Championships, l'australiano vive dalla posizione più scomoda per un giocatore sia il settimo trionfo di Sampras, ma soprattutto la storica finale al lunedì contro Goran Ivanisevic, che sembrava vivere nel Centrale un mito al contrario dopo tre sconfitte all'atto conclusivo.

WIMBLEDON: DUE FINALI STORICHE, DUE IMPRESE MANCATE – Quanto al primo stop, la stagione nel nuovo millennio non parte bene: la spalla si è già mostrata troppo tenera, lo ha già tradito, e non arriva neanche a Church Road come testa di serie (il suo ranking parla del n.52). Tuttavia l'odore dell'erba, il colore inconfondibile, lo scivolìo della superficie al punto giusto, sono gli ingredienti giusti per diventare la bestia nera di Andre Agassi. L'australiano non ha dimenticato la scoppola dell'anno precedente, in semifinale (7-5; 7-6; 6-2), e al termine di una gara combattuta (7-5; 4-6; 7-5; 4-6; 6-3), diventa il primo australiano dopo Pat Cash nell'87 a guadagnarsi il pass per l'atto conclusivo. E che atto.

Di fronte Sampras - che a sua volta ha di fronte il mito di Will Renshaw - la rivalità tra i due nelle stagioni 1998-2000 aveva già prodotto delle pepite d'oro. I due non si erano mai amati, forse anche degli screzi dietro le quinte, perché è raro vedere un ragazzo tranquillo, quasi noioso come Pete arrivare a dichiarare a Newsweek: "La differenza tra me e Pat? 11 titoli del grande Slam…". Non proprio una frase da gentleman.

Dicevamo però che tutto nasce nel 1998: siamo alla semifinale degli US Open, in cui Sampras aveva dichiarato a mezzo mondo che avrebbe dato una lezione ad un Rafter lanciatissimo, fu un incontro che bello è riduttivo, forse il migliore di quella stagione come emozioni. Cinque set tirati, in cui entrambi giocarono sprazzi di tennis spettacolare, ma alla fine prevalse Rafter. E come allora anche due anni dopo è l’australiano a lasciare meglio i blocchi di partenza, giocando per un set e mezzo ai limiti della perfezione. Ma se due giorni prima, contro il Kid di Las Vegas, era stato il fattore riscatto a guidarlo, questa volta l'amico R gli si rivolta contro, perché Pete torna Pistol e torna Campione, tira fuori gli artigli come poche volte ha fatto in carriera, si aggiudicò il suo ultimo titolo tra il tripudio dei flash, e il farsi della sera a pochi passi dal Meridiano di Greenwich: il pubblico è in festa, il tennis è in festa, meno Pat.

E stessa storia sarà 12 mesi dopo, con l'ultima, grandissima finale da erba, proprio come "Dio tennis comanda". Certo, il registro sarà simile in Federer- Philippoussis del 2003, tecnicamente parlando, ma se qualcuno volesse ricordare un vero atto finale in puro stile Wimbledon, beh, quello  lo abbiamo non l'8, ma il 9 luglio 2001. Siamo infatti al capolinea di una delle edizioni più piovose della storia, con uno dei due contendenti (l'altro, non Pat), che veniva da una semifinale durata praticamente tre giorni, “la finale di quell'anno venne rimandata al lunedì, giorno in cui si vendettero nuovamente i biglietti per il match a diecimila tifosi che non avrebbero mai avuto la possibilità di entrare a Wimbledon se le cose si fossero svolte normalmente”: le parole del direttore Ubaldo Scanagatta rendono al meglio un'atmosfera unica, pirotecnica, autenticamente popolare: una cornice inedita, per un match che chiamato ad essere inedito, lo fu.

2001, ODISSEA A CHURCH ROAD - 6-3; 3-6; 6-3;2-6; 9-7, gioco entusiasmante e animato dal pubblico sugli spalti, il risultato è anche frutto dei due protagonisti, le loro personalità: così diverse quanto simili, a cominciare dall'aspetto.

Pose unconventional, quasi trasgressive le loro nell’immaginario collettivo, tutti e due si presentano in pose quasi castigate: riga in mezzo, taglio quasi da manager per Goran, Pat invece aveva deciso di archiviare la folta chioma di sirenetto ammiccante per un drastico taglio a zero, che fu mostrato in un live show di Channel 3, il ricavato andava in beneficenza. La scelta in realtà - poi si saprà - fu concordata con il suo medico per prevenire quella disidratazione che spesso gli causava crampi, gli stessi crampi che gli erano stati letali pochi mesi prima a Melborune contro Andre Agassi, ancora una volta in finale.

Ehm, finale? Sarà un caso, ma anche di sconfitte in finale se ne intendono, i due signori in questione. Ivanisevic, nel 1998, aveva subito la terza sberla da Sampras, sberla che insieme a un infortunio alla spalla, lo aveva poi infilato in un tunnel lungo due anni, giusto in tempo per capitalizzare la wild-card concessa dall'AELTC. Anche Pat però era un "perdente di successo", ce ne siamo dimenticati? Qualcosa nella sua carriera di grande l’aveva ottenuto, sì, ma aveva perso molte volte, proprio come Goran. E anche a lui - come a Goran - piaceva il tennis veloce, si esaltava nel “serve and volley”... che somiglianza!  A pensarci è quasi separato alla nascita con Ivanisevic, l'australiano, ma le loro sono due vite parallele che sembrano uscite da un film. Per rimanere nel gergo britannico, una “sliding doors” del tennis.

Ecco allora che in un giorno di luglio due tennisti quasi gemelli, e quasi coetanei (c’è solo un anno di differenza), due ex-talenti prodigio traditi dal fisico ed ormai in ribasso, si confrontano in quella che è l’ultima chance della loro carriera. L’ultima grande speranza di risorgere dalle ceneri in cui erano cadute. Rafter arriva in finale dopo un’altra guerra contro Agassi, la seconda di fila, ed il talento inespresso Enqvist. Ivanisevic elimina Henman in semifinale ma soprattutto ai quarti Marat Safin.

Arriva il momento dell'ingresso in campo, ma loro già sanno già cos’accadrà: non chi vince, ma come si giocherà. E cioè nella maniera più violenta possibile, alla disperata e forzando al limite della sopportazione umana i propri servizi. Pochi minuti, quindi, e ci si accorge che una finale così atipica non si era mai vista, un pubblico così non si era mai visto, con le gradinate del tempio che si tramutano negli spalti di un'arena.

Al centro del campo invece la battaglia continua: a tratti furiosa, ma resa smagliante da qualche perla tecnica come le stop-volley basse o i lobs lunghi di Pat - che quasi non reagisce, pare in un mondo tutto suo, quasi aver raggiunto una specie di Nirvana (sarà la vicinanza all'induismo e al buddhismo che sviluppa in quegli anni) - oppure i passanti di Ivanisevic. Entrambi danno il massimo, anche perché sanno che chi vince potrà illudersi ancora, un’ultima dose di morfina prima del collasso finale, chi perde sarà condannato all’oblio. Intanto la clessidra scorre, fino all'ultimo granellino, quell' istante che al primo minuti della quarta ora obbliga tutti ad una sentenza finale, ad una condanna a morte dettata da un mondo dove a 30 anni sei già in ribasso. E approdiamo così a quegli 8 minuti famosi, ai servizi forzati che si frappongono tra Ivanisevic e la gloria… che alla fine arriva. Ma entrambi hanno capito che il loro destino si è consumato, è già scritto: Goran lo capirà a modo suo, quel che è certo è che in questa storia Pat non smaltisce la sua delusione delle sue delusioni, il suo rimpianto dei rimpianti.

2002-2003, VERSO IL RITIRO - Neanche un'altra finale di Davis - la sua amata Davis - lo riporterà a quei fasti, a quei livelli, a quella fiducia in sé stessi: fa sì il suo compitino e batte Seba Grosjean, lo abbiamo visto, ma quello spirito vincente che dall'altra parte è tutto di Nicolas Escudè, beh, quello non è più farina del suo sacco. Qualcosa si è spento, sicuramente, ma non la volontà, o non del tutto. Lui sente che c'è ancora un ultimo tentativo per salvare il salvabile, tornare competitivo o non tornare più, decide allora che il 2002 - anno partito bene con l'ambitissimo premio "Australian of the Year" - sarà l'anno per una battaglia finale con la spalla ormai malandata, e chiede persino l'intervento di uno come Brad Langerveld, luminare della biomeccanica applicata al tennis, ma non c'è nulla da fare. Ecco allora che per Pat arriva il momento in cui dire basta, e farlo davvero: è il 10 gennaio del 2003, il momento dell'addio ufficiale, lo sbocco inesorabile di un anno di riabilitazione andata a vuoto.

C'è ancora il video in rete, di quel momento, e l'impressione - e sottolineo l'impressione -  è che lui tenga impresse alcune parole dette da Ivanisevic più di un anno e mezzo prima, fresco di premiazione, con lui di fronte: “La gente non ricorda i finalisti ma solo i vincitori. Non ricorda che io fui il finalista in tre passate edizioni, ma che furono Sampras e Agassi a vincere. Adesso però ricorderà anche me!”. Il volto è scuro, di Pat, gli si scorreranno in mente tutte d'un fiato, quelle finali perse per strada. Poi però, come svegliati da un incubo, arrivano le parole che ci rendono orgogliosi di questo campione umanissimo, questo campione vero: ""That's sport, you win some and you lose some. However I feel I can leave the game, satisfied with my achievements, knowing that I gave it my all." - "Questo è lo sport, puoi vincere come perdere. Tuttavia posso lasciare questo gioco soddisfatto dei miei risultati, sapendo di aver dato tutto".

Dare tutto: teniamo presente questa parola chiave, anche perché si tratta della regola che Pat ha sempre seguito, e continua a seguire oggi. Innanzitutto come marito, e come padre che spesso si sottovaluta, ed è fin troppo apprensivo:  nell'aprile del 2004 sposa alle Isole Fiji Lara Feltham, che gli dona prima Joshua, poi India,nel maggio 2005. Rafter poi dopo anni è tornato a vivere in Australia, a Sunshine Beach nel Queensland, e quando può cede alle tentazioni della pesca, del golf e del surf, ma quando può.

2006-OGGI, IL TENNIS SI RIPRENDE IL SUO PAT - Infatti il tennis non gli dà scampo per troppo tempo, e pian pianino lo riporta tra le sue grinfie: prima c'è l'ingresso nella Hall of Fame di Newport nel 2006, quindi nel 2008 l'abbandono di un' avventura calcistica nella Minor League andata neanche troppo bene, rilanciandolo come protagonista del BackRock Tour of Champions delle vecchie glorie, nel 2011 l'amore sbocca definitivamente, l'impegno torna a pieno ritmo, e si torna davvero a fare sul serio. A chiamare infatti non è un datore di lavoro qualsiasi, o un giocatore qualsiasi: è l'Australia del tennis a volerlo, per riscattare una situazione indegna per il secondo team più vincente nella storia della Davis.

Dopo la retrocessione dal Gruppo Mondiale nel 2007, lo storico capitano (e suo estimatore) John Fitzgerald, si trova a fare i conti con una situazione ingestibile dopo dieci stagioni di onorato servizio: manca Hewitt, sempre più spesso, giovani di ricambio non ci sono, il purgatorio diventa una costante preoccupante. Serve un cambio generazionale, ed è lo stesso Tiz a meditarlo, dimettendosi. Nel farlo però non si dimentica quel suo pupillo così attaccato alla bandiera, così determinato, così ossessivamente devoto alla febbre Davis, quindi così adeguato a quella poltrona che scotta. Sarà allora il ricordo di chi crebbe in lui comunque, nel 2001, a spingere Rafter nel dire sì senza condizioni? Oppure il desiderio di tornare nel grande tennis dopo quasi 10 anni di ritiro, il voler vincere quell’Insalatiera che gli è sempre sfuggita da giocatore? Non lo sappiamo. Certamente un bel mix di valori e ambizioni: quel mix che oggi lo vede gestire un risvolto delicato del fenomeno Bernie Tomic, decisivo però nel ritorno nel World Group (ai danni della Cina), un progetto che ci tiene nella mischia un certo Pat Rafter, un più che degno Signor Tennis.

Davide Uccella

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