16/02/2014 20:08 CEST - TENNIS STORIA

The Genius John McEnroe

TENNIS - La prima volta che lo vidi, a Bologna e in coppia con Peter Fleming, aveva diciannove anni. Osservando un tennista che giocava come tutti i maestri avrebbero sconsigliato, non capii subito che sarebbe diventato una leggenda. Alberto Bezzini

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2202660P BORG & MCENROE PC X
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Novembre 1978: insieme al mio abituale compagno di doppio, andai a Bologna, partendo da Firenze dove tutti e due frequentavamo l’università. La meta, il Palazzetto dello Sport per il prestigioso torneo di tennis (WCT e Grand Prix) che vi si svolgeva - un po’ a singhiozzo per la verità - in quegli anni.

Il vincitore della prima edizione (1971) era stato Rod Laver, la seconda (1974) era andata ad Arthur Ashe, l’anno successivo era stata la volta di Bjorn Borg. Dopo un salto di due anni, finalmente il torneo aveva luogo nuovamente e avrebbe continuato regolarmente per altre tre edizioni fino al 1981.

Un amico in loco ci aveva, su nostra richiesta, procurato i biglietti e assistemmo alla sessione pomeridiana di singolare maschile. Sinceramente, passati tanti anni, non ricordo neppure chi vedemmo giocare…
Giunti al tardo pomeriggio e con ancora un buon margine di tempo prima dell’ultimo treno disponibile per tornare a Firenze, convinsi il mio amico/compagno di doppio (più propenso ad una girata in centro a Bologna con tanto di cena “come si deve”) a rimanere ancora un po’ per veder giocare un doppio tra due italiani e una coppia americana secondo me niente male.

Gli americani erano Peter Fleming (che si sarebbe aggiudicato il singolare in finale su Adriano Panatta) e quel tipo che, l’anno precedente, da dilettante, partendo dalle qualificazioni, aveva raggiunto la semifinale di Wimbledon, fermato (in quattro set) da Jimmy Connors: un diciannovenne di nome John McEnroe.

Iniziò il palleggio di riscaldamento durante il quale, osservando quello strano ragazzotto pallido e dall’espressione oscillante tra lo scocciato e il “capitato lì per caso”, cominciai ad avvertire un senso di disagio: stavo assistendo ad un modo di portare i colpi che mi risultava la perfetta sommatoria di tutto quello che, per anni, aveva mandato in bestia i miei maestri di tennis.

Diritto e rovescio colpiti frontalmente, con la testa della racchetta ciondoloni (più bassa del polso), aperture appena accennate e chiusure di movimento che non andavano oltre venti/trenta centimetri dopo l’impatto con la palla. Non bastasse, il tutto era quasi sempre accompagnato da un salto, al termine del quale, il peso del corpo sembrava ricadere più indietro che sulla palla!

Ci dicemmo che forse era solo una fase di riscaldamento un po’ svogliata e che poi, dopo…

Poi, dopo… tutto continuò esattamente in quel modo, con l’aggiunta di un servizio che cominciava con le spalle rivolte alla rete, la testa della racchetta che quasi strusciava in terra e una torsione della schiena al limite delle possibilità di equilibrio.

Le traiettorie che ne uscivano erano velenosissime e, soprattutto sui punti dispari, chi rispondeva era quasi impossibilitato a tentare una reazione minimamente efficace.

In generale non sembrava correre molto ma, sorprendentemente, la pallina andava sempre dove lui era posizionato e, a fondo come a rete, la geometria era a sua disposizione…

Naturalmente vinsero la partita (e vinceranno anche il torneo, come pure quello dell’anno seguente) e John McEnroe fu, per tutta la partita, silenzioso e compostissimo nei confronti di arbitri e pubblico, a differenza del suo compagno che urlò un paio di “shut up!” ad un gruppetto di giovani spettatori poco interessati alla partita.
Uscì dal campo a testa bassa, con le sue Wilson Pro Staff e quell’improbabile capigliatura di riccioli rossicci tenuta insieme da una fascia, senza nè salutare né far caso agli applausi.

Non capii subito che avevo visto giocare uno che sarebbe diventato una leggenda del tennis moderno, uno che giocava e avrebbe giocato un tennis diverso da chiunque altro, un tennis che non si poteva né copiare né insegnare. Lo capii guardandolo tante altre volte negli anni successivi, fino a divenirne un accanito tifoso.

Alberto Bezzini

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