19/02/2014 18:12 CEST - TENNIS E STORIA

Hana Mandlikova, storia della John McEnroe al femminile

TENNIS - Hana Mandlikova compie oggi 52 anni. La omaggiamo ricordando il suo talento unico, l'amore doloroso per Wimbledon e la sua impresa più bella: vincere gli US Open superando sia Chris Evert che Martina Navratilova. Riccardo Nuziale

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Hana Mandlikova
Hana Mandlikova

“Nel tennis femminile, più giochi noioso e in sicurezza, più chance hai di vincere.”

Infatti le quattro dee all time elette – Suzanne Lenglen (pur ammettendo di non averla mai vista giocare), Helen Wills, Pauline Betz e Maureen Connolly – sono tutte giocatrici da fondo. Povere giocatrici d’attacco! “Possono andare a rete, ma non hanno né la forza fisica né l’agilità per battere una picchiatrice da fondo”. “Gli uomini sono esattamente l’opposto. Eccetto sulle superfici scivolose, i migliori giocatori d’attacco s’imporranno sui giocatori da fondo perché l’atleta maschio è veloce e forte a sufficienza per coprire la rete.”

E Billie Jean King? Fortunata, perché le altre top player della sua epoca, Maria Bueno e Margaret Court, erano anch’esse giocatrici d’attacco. Non a caso all’arrivo di Chris Evert la musica è cambiata. Ma pure la bionda d’America contro le quattro divine avrebbe potuto fare ben poco, “sono piuttosto sicuro che tutte loro avrebbero potuto battere Chrissie sulla terra perché tutte loro avevano più mobilità di Chrissie, e tutte loro sapevano attaccare. Tracy Austin, a quindici anni, ha un dritto incrociato superiore a quello di Chrissie, ed è sempre stato ovvio che potrebbe servire e muoversi naturalmente per giocare di volo – qualcosa che Chrissie semplicemente non può fare. Chrissie è così regolare, ovviamente, che persino una giocatrice aggressiva come Martina Navratilova deve giocare bene per batterla, persino su una superficie veloce, ma nel suo gioco Chrissie non ha varietà sufficiente tale da poter battere le giocatrici davvero grandi. Supponendo che Tracy maturerà, penso che inizierà a battere Chrissie piuttosto presto, anche sulla terra.”

Già, Martina Navratilova. Lei? E Evonne Goolagong? Nelle giornate migliori, con il servizio che va a mille, sono in grado di battere le giocatrici da fondo. Ma alla lunga sono costrette a cedere. Il perché è evidente: “Nel tennis femminile, più giochi noioso e in sicurezza, più chance hai di vincere.” È il 1979 e la filippica marchiata a fuoco trova nel padre il nome di Jack Kramer, tra le pagine del suo “The Game: My 40 Years in Tennis”.

È il dicembre 1980 e Betty Stove concorda con il gigante americano, uno dei padri del tennis moderno nonché uno dei grandi rivoluzionari del nostro sport: “Gli uomini hanno il 20% di forza muscolare in più, anche più piccole e spalle più grandi, e il loro intero metabolismo è diverso. Nel tennis maschile, se un grande servitore mette la prima, il punto è finito. È un o la va o la spacca. Il tennis femminile è più un gioco di posizionamento e tattica. Possiamo comunque seguire a rete con il colpo giusto, ma naturalmente non abbiamo la potenza per essere decisive come gli uomini. È un gioco più difficile per noi, ed è per questo che lo spettatore comune può identificarsi meglio con il tennis femminile rispetto a quello maschile”.

La Stove, doppista sopraffina che tre anni prima diede suo malgrado gioia a un’intera nazione, finendo sconfitta nella finale di Wimbledon contro Virginia Wade, viene interpellata in quanto allenatrice della nuova stella mondiale, la 18enne cecoslovacca Hana Mandlikova, che a novembre ha vinto il suo primo Slam agli Australian Open. E che ha tutta intenzione di screditare Kramer e la presunta superiorità del tennis da fondo rispetto a quello offensivo. Nonostante pochi mesi prima, alla sua prima finale major, proprio contro la massima espressione di quel periodo del tennis coriaceo, Chris Evert, fece partita per un set, cedendo 57 61 61.

Ma il suo gioco incanta. Ammalia. Servizio esplosivo, è capace di trovare vincenti da ogni parte del campo, di toccare la pallina con una nonchalance quasi umiliante, sia da fondo che nei pressi della rete. La Stove non ha dubbi, la sua assistita potrebbe diventare una delle più grandi di sempre, “perché il suo talento non ha limiti.” Allo stesso tempo, però, è pienamente consapevole delle insidie e dei dubbi che nascono dall’essenza stessa di Hana: “Quando hai così tanta varietà come ne ha lei, c’è più spazio per gli errori”.

Agosto 1984. “(gli inglesi, ndr) Hanno due buoni giornali. Il resto è terribile. Solo gossip e spazzatura. Dopo il secondo o terzo turno, mi chiesero come avrei affrontato Martina in finale. Risposi ‘non devo giocare contro Martina, ho Jo Durie al prossimo turno. E se batto Jo, ho Chris.’ Dissi che Chris è una grande giocatrice e che Martina è una grande giocatrice, ecco tutto. Non ho detto nient’altro e non capisco perché la Evert se ne sia uscita con tutte quelle stupidaggini che non ho mai detto. Ho sempre detto che la Evert è una grande giocatrice e una brava persona. Non ne sono più sicura. Sa che non può battere Martina ora come ora e la pressione è più su di lei, quindi penso sia questo il motivo per cui l’abbia fatto, per buttare la pressione su di me.”

Bisogna avvolgere il nastro di un mese per comprendere queste parole di Hana Mandlikova. Lei, considerata la John McEnroe femminile non solo per questioni tecnico/religiose. Lei, che nel 1981 palesò la sua indignazione per vedersi assegnare agli US Open solo la quinta testa di serie, dietro Evert, Jaeger, Austin e Navratilova (“Il computer non fa più alcuna differenza per me, non è importante. Penso che sarei dovuta essere la tds n.2 a Flushing Meadows. Ho vinto il Roland Garros e sono arrivata in finale a Wimbledon e mi sono ritrovata quinta agli US Open, quindi non mi fido più della macchina”). Lei, che anni dopo in una conferenza stampa minacciò i giornalisti di prenderli a pugni in faccia se fosse nuovamente saltato fuori il nomignolo da lei tanto odiato, ‘unpredictable Hana’, l’imprevedibile Hana.

Bisogna tornare a Wimbledon. Torneo amato dalla Mandlikova ma dove i risultati non trovano continuità: tre ottavi, addirittura un secondo turno. E la finale dell’81. Che aveva tutta l’aria di teatro della consacrazione definitiva e non solo per la spinta mediatica, forse incapace di accettare l’ovale del nulla affiancato al binomio talento sublime-Championships (l’eterno ritorno che si sarebbe rifatto vivo negli anni Duemila con Justine Henin). In quell’edizione la cecoslovacca volò, annientando chiunque, facendo dimenticare con un devastante doppio 6-0 che l’australiana Wendy Turnbull, sua vittima l’anno prima nella finale degli Australian Open, era giocatrice vera, non una qualunque (tre finali Slam in singolare, nove titoli major tra doppio e misto quando queste discipline erano veritiere, n.3 mondiale come best ranking). E soprattutto battendo in tre set Martina Navratilova, 75 46 61. La sconfitta successiva a Wimbledon della fuoriclasse statunitense, che con la Mandlikova condivide la terra natia e la decisione di passaggio di bandiera (Hana ha ottenuto la cittadinanza australiana nel 1988), sarebbe arrivata il 20 giugno 1988, quando avrebbe di fatto dato il benestare al Grand Slam di Steffi Graf. Sette anni dopo, quindi.

Ma sono gli anni in cui c’è la consapevolezza che sconfiggere una delle due dittatrici significa quasi sempre essere solo a metà dell’opera. Infatti in finale trovò Chris Evert e non ci fu partita. 62 62. Uno shock ancor più doloroso se si pensa che poche settimane prima la Mandlikova era riuscita nell’impresa di battere la Evert nel suo regno, quello rosso del Roland Garros, dove l’americana non perdeva dalla sua prima partecipazione, nel 1973 (era imbattuta da “solo” quattro edizioni, però: nel triennio 76-78 non giocò. Sulla terra vinceva da 72 partite). E se si pensa che quello sarebbe rimasto l’ultimo Wimbledon vinto dall’allora n.1 del mondo.

Il 1984 è un anno importante. Dopo due anni e mezzo torna a vincere tornei, ben cinque tra gennaio e marzo, tutti sul tappeto indoor americano. Ad aprile tocca per la prima volta quello che rimarrà la sua vetta in termini di classifiche, il n.3, lei che ha sempre dovuto combattere con il conflitto di odio verso il computer e di bramosia verso il n.1, sebbene si sia sempre sentita così (nel 1981 dichiarò “Non penso ci siano giocatrici migliori di me”). Dopo quasi due anni torna a giocare una semifinale Slam, perdendo in tre set contro la Navratilova.

E a Wimbledon torna a volare. Batte Elena Eliseenko, 61 60; batte Catarina Lindqvist, 75 63; batte Catherine Tanvier, 64 76; batte Helena Sukova, 64 61; batte Jo Durie, 61 64.

“Hana si è messa addosso un sacco di pressione parlando in quel modo. Era troppo sicura di sé e mi ha sottovalutato. Ha parlato troppo di Martina e si è dimenticata che non mi batte da tre anni.”

Da quella semifinale ’81 del Roland Garros. Da allora, dieci vittorie di fila per la Evert, 20 set a 1. La semifinale ’84 dei Championships finisce, se possibile, in maniera ancora più umiliante della finale ‘81. Un 61 62 carnefice, con una serie di nove game consecutivi per la Evert dopo il primo game. 12 quindici conquistati nel primo set, 17 nel secondo. I passanti diabolici e chirurgici di Chris che annientano il gioco di volo progressivamente sempre più sconsolato di Hana, la legge di Kramer che urla.

Le parole imputate, probabilmente miccia della prestazione monstre della Evert, sono presunte dichiarazioni della Mandlikova che, forte di essere stata l’unica capace di battere la Navratilova nell’ultimo anno, dal Roland Garros 1983 (nella finale di Oakland a gennaio, 76 36 64; una nuova sconfitta sarebbe arrivata per la Navratilova solo a dicembre agli Australian Open, in semifinale contro la Sukova), e dei cinque titoli prima menzionati, vedeva come unico ostacolo tra lei e Wimbledon proprio la n.1 del mondo.

Ma questo, si oserebbe addirittura dire, è il meno: subita una delle sconfitte più cocenti della sua carriera, la Mandlikova lascia il Centre Court senza il tradizione inchino in direzione Royal Box, al Duca e alla Duchessa di Kent. Senza aspettare la Evert. Di più: diserta l’obbligatoria conferenza stampa post-match. Pandemonio. Persino la Navratilova interviene: “Il modo in cui ha lasciato il campo prima di Chris non è assolutamente professionale. Non si fa. Non importa se perdo 60 60,  aspetto la mia avversaria per l’inchino al momento dovuto. Semplicemente Hana non ha rispetto per nessuno. È triste. Penso stia mettendo addosso sé stessa tutta la pressione.”

È il 1986. Dopo il per lei inevitabile anno di pausa, si torna a volare sui prati. Nei quarti un set perso con Lori McNeil, regolata 67 60 62, nulla più. E in semifinale c’è sempre lei, ancora lei, per sempre lei. Chris Evert. Come nel 1981 un doppio incontro ravvicinato, ma stavolta la semifinale parigina è stato un massacro in favore della favorita, 61 61.

“Le altre volte, quando giocavo contro Chris, qualcosa andava storto, m’innervosivo e in un men che non si dica la partita era persa. Oggi, quando ho subito un paio di cattive chiamate, mi sono innervosita, ma solo per un minuto. Dopo di che ho continuato a giocare.”

Eccome. Nonostante un break subito nel settimo gioco, non si scompone, recupera immediatamente lo svantaggio e scappa 5-1 nel tie-break. La Evert non si da certo per sconfitta, risale fino al 5-4, ma al secondo set point la Mandlikova chiude.

Il capolavoro è però nel secondo parziale: sotto 2-5, la dea cecoslovacca rifila 14 punti di fila all’avversaria (da manuale di guerra i primi due game: due ace e due servizi vincenti per il 3-5, quattro vincenti per il controbreak), va 5-5 0-30, non le lascia più scampo. 76 75. Le due orrende mutilazioni sono state, almeno in parte, vendicate.

Oltre alla vittoria, la dolcezza della pace: “Hana è più carina ora. È più matura sia come persona che come giocatrice. È stata padrona di sé dopo la partita. La sconfitta è stata un colpo molto duro per me e lei avrebbe potuto girare il coltello nella piaga. Non l’ha fatto e l’ho apprezzato.” I dissapori di due anni prima dissolti in una frase.

In finale c’è sempre lei, ancora lei, per sempre lei. Martina Navratilova. Hana è l’ultima ad averla battuta su quel maledetto Centre Court e, per quanto sia nettamente sotto negli head to head, è avanti 3-2 negli scontri Slam. “Dovrò servire come ho fatto contro Chris e dovrò andare a rete molto. Spero sarà un bel match. Sperò sarà un match lungo.”

Va avanti 3-0. 4-1. 5-2. Serve per il set sul 5-3. Perde 76 63. “Le palline erano molto, molto pesanti (a causa della pioggia). Questo ha favorito lei perché ha la potenza per colpire più forte. Se le palline fossero state più leggere, come nel match con Chris, avrei potuto fare di più.” Pioggia nemica anche per aver reso il manto erboso scivoloso. Un paio di capitomboli nel primo set la portano alla decisione di cambiare scarpe sul 5-2. Errore fatale? “Ho commesso un errore quando ho cambiato le scarpe perché gli appoggi erano un po’ diversi. Il campo era molto scivoloso, sono caduta un paio di volte quindi ho pensato di provare qualcosa di diverso.”

La Navratilova le nega la gioia anche in doppio, superando lei e la Turnbull, in coppia con l’immancabile Pam Shriver, 61 63. Nel 1989, dopo tre sconfitte in finali major con le solite due, troverà la soluzione ideale per vincere il suo primo e unico Slam in doppio: spezzare la coppia cannibale e mettersi con Martina. Agli US Open una delle somme più abbacinanti di talento mai viste su un campo da tennis supera in semifinale le nuove stelle Graf e Sabatini, in finale proprio la Shriver e un’altra giovane protagonista, Mary Joe Fernandez.

A Wimbledon non brillerà più, ma sarà il luogo dove vorrà giocare l’ultima partita. È il 1990. Ai Pilkington Glass Championships di Eastbourne, dove esce subito per mano di Raffaella Reggi, Hana Mandlikova dice basta. “Sono come un’arancia senza succo. La determinazione non c’è, la motivazione non c’è e sono troppo orgogliosa per perdere con giocatrici contro le quali non dovrei perdere. Per questo lascio.”

“Il mio più grande rammarico è non aver vinto Wimbledon. Sarebbe meraviglioso andar là e fare qualcosa di speciale, ma devo essere realistica, non posso più vincere titoli dello Slam e sostanzialmente è questo il motivo per cui ho giocato per 13 anni e per cui ora smetto.”

Rifiuta la sconfitta al primo turno contro l’italiana Lapi, vincendo 11-9 al terzo. Saluta la partita dopo, piegata dalla statunitense Henricksson 63 63. Come, prima del suo connazionale Ivan Lendl dovrà aspettare le vesti di guida tecnico-spirituale di un’altra gemma delicatissima, Jana Novotna, per far suo quel trofeo scivoloso.

“Ho avuto un sacco di bei momenti nel tennis. Vincere gli US Open, battendo Chris e Martina in quel modo, è stato il migliore.”

È il 1985 e Oakland si conferma luogo prezioso: se l’anno prima la sua vittoria contro l’imbattibile Navratilova era risultata un’impresa, quest’anno il trionfo lo è forse ancor di più, dato che in finale torna a battere la Evert dopo dieci incontri, quasi quattro anni. Ma negli Slam non va: perde nei quarti a Parigi, al terzo turno a Wimbledon. L’ultima finale risale al 1982, quando agli US Open la Evert le fece assaggiare la solita zuppa velenosa, 63 61.

Il tabellone di Flushing Meadows dice ipoteticamente Sabatini, Sukova e le solite due. La Sabatini perde subito e al suo posto c’è un osso duro come Kathy Jordan, che infatti le toglie un set. La Sukova, che contro la sua connazionale non è mai stata in grado di capirci molto, non va oltre una dignitosa resa per 76 75.

Le solite due, dunque. Steffi Graf permettendo, ma no, perde nettamente la semifinale contro Martina, probabilmente stremata dal triplo tie-break necessario per piegare la resistenza della Shriver e dall’emozione della prima semifinale Slam: 62 63. La 16enne tornerà.

Nonostante gli ultimi due incontri (Palm Beach e Toronto) abbiano riportato il solito requiem, la vittoria di Oakland ha lanciato un messaggio, ha ridato musica alla convinzione poetica della Mandlikova: Chris Evert si può battere. Ma come si può, piuttosto, battere Evert e Navratilova di fila? Nessuno ci riesce da quattro anni, dal 1981, quando Tracy Austin le sconfisse a Toronto (la Evert aveva però la testa altrove, causa minacce di morte ricevute durante gli ultimi giorni del torneo). Negli Slam addirittura da sei, dal 1979: sempre la Austin, agli US Open.

Il tempo scorre, il tempo si ferma.

Il tempo si ferma. La Mandlikova lascia sgusciare dalle mani la racchetta per poi prenderla a calci. Ha appena schiaffeggiato goffamente una risposta su una seconda di servizio, per il punto che vale il game point Evert. Il quarto per la statunitense nel game, che ha appena recuperato un pericolosissimo break di svantaggio nel terzo set. 46 62 32 per la cecoslovacca, che accumula nello sfogo non solo l’avvilimento per l’orrore appena partorito, ma anche la delusione per il punto precedente, che le avrebbe potuto ridare un nuovo vantaggio. Il millimetrico lob della Evert aveva spezzato l’ala all’airone, in volo a tentare una disperata veronica, scheggiata.

Riecheggiano le parole di Betty Stove, che non era d’accordo con Kramer in un punto, sulla mancanza di spettacolarità nel gioco difensivo. “Dipende da come si combinano i match. La gente è attirata dal vedere leoni e cristiani.” Il confronto di stili. Eccolo.

La Mandlikova cerca le vie della rete il prima possibile, spessissimo direttamente in risposta, la Evert si arma di gambe d’acciaio e stilettate difensive. Ma quel che non ci si aspetta è che la statunitense è nervosa. Sbaglia palle per lei banali, non controlla passanti che lei solitamente gioca a occhi chiusi. Il motivo è subito rivelato: nonostante abbia poco prima ristabilito l’equilibrio, nel computo servizi, la Evert sente di non avere l’inerzia dalla sua. La Mandlikova sbaglia meno del solito, sbaglia meno di lei in questo frangente, e lei non ha la solita lucidità.

Nel punto successivo il tutto si palesa con un errore addirittura pacchiano, con un facilissimo rovescio sparato oltre la linea di fondo, dopo che aveva disinnescato nuovamente l’attacco avversario con un lob, sebbene questa volta non definitivo.

La padrona di casa accumula game point su game point (alla fine saranno sette), ma sente la pressione che solitamente risiede sulle spalle dell’attaccante, quella data dalla coscienza di dover fare tutto alla perfezione per vincere il punto. La Mandlikova le annebbia ulteriormente la vista, soprattutto col rovescio, dal quale non si capisce mai se nascerà un colpo in top, un approccio a rete in back, una smorzata, una frustata incrociata, un colpo attendista lungolinea. Può sbagliare un’esecuzione, anche elementare, ma non perde mai la spregiudicatezza. Invece la Evert colpisce per istinto di sopravvivenza. Come nella seconda palla break, dove gioca una seconda molto profonda e non si fa intimidire dall’attacco della Mandlikova, affondata al secondo passante; come nella terza, dove il tempo si ferma e fa un rumore assordante, con la Mandlikova che attende invano l’out dei giudici sulla seconda deviata dal nastro della Evert, che trova uno dei suoi passanti impossibili sull’approccio profondissimo avversario.

Ma dopo 10 deuce e 15 minuti, è ora che il tempo vada avanti: la Mandlikova chiama a rete la Evert con un back corto per poi costringerla all’errore con il lob. Cade a terra, sa che è finita. Ce l’ha fatta. Poteva chiudere nell’ottavo game, con un match point a disposizione in risposta, poteva complicarsi la vita nel nono, sul 30-40. Ma la partita era già finita, lo sapevano entrambe. 46 62 63.

Entrambe non sono soddisfatte. “Non ero carica come al solito. Il mio cuore non era lì, questa è la verità. Non sono una macchina, ci sono giorni in cui sei più motivata che in altri.”

“Non penso di aver davvero giocato il mio miglior tennis, oggi. Penso di poter fare un po’ meglio di così.” Con la Navratilova servirà.

Anche perché il tempo si ferma di nuovo, e questa volta ha le sembianze di un orco.

Hana Mandlikova è in ginocchio. Letteralmente. Ad allacciarsi le scarpe? A cercare un Dio da pregare? È in procinto di servire, ha appena subito un passante evertiano da Martina Navratilova, che con i due grossolani errori precedenti forma il 5-5 0-40. Il risultato è infinitamente meno grave della situazione: la cecoslovacca il set lo aveva già vinto, avanti 5-0. Pezzo dopo pezzo, si è disossata (“a dir la verità, sono andata nel pallone”). E ora è a un triplice passo dal baratro. La perdita di quel set, considerata la modalità, significa la sconfitta.

L’indomani i giornali avrebbero insistito sulla sua inconsistenza mentale, sul suo tennis d’inutile bellezza. No. Ace. E passante che piega la volee di diritto avversaria: la reazione c’è. Se poi la Navratilova da boia diventa incarnazione di humana pietas, affossando un dritto a campo vuoto che il nastro le aveva accomodato, è chiaro che il game è destinato ad entrare in una dimensione altra.

Per undici minuti, nove deuce, otto palle break/death/match, le due duellano a rete in abbracci tra erotismo e tauromachia, alla ricerca della verità più estatica, tra tagli di carta e pugnalate all’addome.

Se Martina ferisce con attacchi fulminei, Hana risponde con danzate discese a rete in controtempo. Se Martina ad ogni errore guarda lassù, in cerca di conforto divino, Hana saluta l’esito di qualsiasi quindici con il silenzio più impercettibile.

Si galleggia, sia negli errori che nei capolavori. E il tempo si ferma due volte: nella volee della Mandlikova che annulla la penultima palla break, culla che s’innalza, fluttua e non scende mai, trovando gli ultimi centimetri di campo quando il paradisiaco braccio sinistro avversario è ormai addormentato; e nella superba risposta bloccata lungolinea della Navratilova a procurarsi l’ultima, vana possibilità di 6-5, con la Mandlikova statica per qualche istante nei pressi del corridoio a cercare le invisibili tracce del tracciante, tra protesta e ammirazione.

Quando lo smash la libera vittoriosa, la poetessa Hana non cade a terra, come contro Chris Evert, ma lancia un urlo di autentico sollievo. Di più: di autentica gioia.

Perché il resto è teatro: vinto al tie-break il parziale psicodrammatico, cede di schianto il secondo, a recuperare energie mentali, strappa il servizio nell’ottavo gioco del terzo set per chiudere, la speranza di 6-3 diventa 5-4, con una pennellata di lava dell’indomita Navratilova. Ma come in semifinale, la partita è già finita. Resta solo da vedere come i fili della realtà vogliono illudere, dando segni di presunta autenticità. Non c’è più spazio per gli incubi dell’imprevedibile Hana. 76 16 76.

E per una volta c’è il bagno di umiltà: “Penso che Martina e Chris siano ancora al vertice. Non sono ancora pronta per essere la n.1.”

E forse mai come stavolta la Navratilova non sa darsi pace. “Pensavo di essere davvero delusa nel 1981. Questa volta è stata addirittura peggio, ma potete scommettere che tornerò.” Il riferimento è alla sconfitta nella finale degli US Open 1981 contro Tracy Austin. I ricorsi storici sono talvolta inquietanti (o sublimi, a seconda dell’occhio di chi guarda): quella partita la Navratilova la perse quasi con lo stesso risultato, 16 76 76. Non avrebbe comunque deluso gli scommettitori, vincendo le due edizioni successive del major americano.

E in fondo, in cuor suo, col tempo avrà accettato quella sconfitta. Una volta disse: “Il tennis è quasi troppo facile per Hana. Ecco perché è capace di perdere partite contro giocatrici con le quali non avrebbe diritto di perdere. Semplicemente perché non le interessa.” La sconfitta? Il tennis? Il perdere nel tennis che non le interessa? La parola alla Pizia.

Nella sua autobiografia del 1989, “Hana”, è riuscita a immortalarsi e mostrarsi in una sola frase. Sapremo mai se Jack Kramer l’ha letta?

“Sarebbe probabilmente noioso se tutte giocassero con il controllo supremo di Chris Evert. La morale della favola è che io sono quella che si fa male, ma non voglio mettere sotto chiave le mie emozioni.”

Uno sguardo dall’alto verso il basso ha voluto che, nonostante il 19-7 finale in favore di Chris, l’ultimo set giocato dalle due, a Indian Wells nel 1989, sia finito 6-0 per Hana. In tutta la carriera non ci era mai riuscita.

 

NOTA: Il sesto gioco del terzo set contro Chris Evert è a inizio video, mentre l'undicesimo contro Martina Navratilova parte al minuto 38. Un'avvertenza: nonostante quanto indicato dall'utente che ha caricato il video, la finale non è riproposta integralmente.

Riccardo Nuziale

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