Leggende

Trent'anni di rivalità

Borg-McEnroe, Agassi-Sampras, Federer-Nadal. Tre duelli che hanno segnato gli ultimi tre decenni della storia del tennis, che hanno segnato l'inizio dell'era moderna di questo sport. Mastroluca

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Borg vs McEnroe

Fuoco e ghiaccio. Come Lee Blanchard a Bucky Bleichert, ma senza nessuna Kay Lake a condizionarne o limarne la rivalità. Fuoco e ghiaccio. Come i personaggi di “Black Dahlia”. Come Beatles e Rolling Stones. McEnroe e Borg. Superbrat e Iceman. L'uno, mancino, attaccante disperante, un magma pronto ad esplodere di improperi e offese, la dimostrazione vivente che “ogni riccio è un capriccio”, il ribelle con una causa, come lo identificò lo slogan di una fortunata campagna pubblicitaria della Nike che parafrasava il titolo originale di Gioventù bruciata. L'altro, un destro tanto flemmatico in campo quanto turbolento nella vita, lo svedese più freddo che abbia mai tenuto in mano una racchetta, per lui ha inventato un regno e un modo di giocare: ha insegnato al mondo che si può vincere Wimbledon quasi senza lasciare la riga di fondo, in una posizione intermedia tra quella dei terraioli di prima generazione e quella degli attaccanti. Con lui è nato il concetto del contraccattante dal fondo. Biondo quasi come Gesù, la sua vita l'ha bruciata dopo, quando si è voltato a cercare i suoi vent'anni e non li ha trovati più.

Una storia, quella della loro rivalità, che non poteva concludersi con un vincitore acclarato. Si sono affrontati 14 volte, con 7 vittorie a testa. E prima dell'ultima sfida, nella finale degli Us Open 1981, si erano equamente divisi anche i 40 set giocati fino a quel momento. Borg è entrato nella storia per le tre doppiette Roland Garros Wimbledon di fila tra il 1978 e il 1980; McEnroe, che pure ha vinto tre volte Wimbledon, nella leggenda dei Championships entra più che altro per una sconfitta. Per i 22 minuti più incredibili nella storia del tennis: il tiebreak del quarto set della finale del 1980: 34 punti, il più lungo nella storia delle finali sull'erba londinese.

E' l'ultima grande vittoria di Borg contro l'americano, che nel quinto set perde solo tre punti su 31 giocati al servizio, e col rovescio da fondo riesce a disinnescare gli attacchi di un McEnroe che attacca, forza e varia, che serve col 61.7% da destra e il 65.1 da sinistra, ma si arrende 8-6 al quinto.

Si prende presto la rivincita, Big Mac, nella finale degli Us Open a settembre. Borg vuole disperatamente conquistare New York, ma la Grande Mela resta straniera, bizzarra e irraggiungibile per lo svedese che cede 7-6 6-1 6-7 5-7 6-4.

The Ice vince ancora contro McEnroe, nel round robin del Masters, a gennaio del 1981, 7-6 al terzo, prima di battere Lendl in finale; il ceco si troverà dalla parte “sbagliata della rete” anche nella finale del Roland Garros 1981, l'ultimo trofeo dello Slam alzato da Borg.

A Parigi inizia la fase discendente della sua carriera, una discesa interrotta quando Borg ha iniziato a capire che l'immagine pubblica che avrebbe dato da lì a qualche anno non sarebbe più stato all'altezza della statua che aveva costruito di se stesso. Voleva lasciare al mondo solo il ricordo della parte migliore di sé, come già aveva fatto una sua illustre connazionale, Greta Garbo. Così facendo ha trasformato la sua storia in un'epopea.

Un'epopea che ha vissuto il suo penultimo capitolo di rilievo nella rivincita dei Championships edizione 1981. McEnroe aveva collezionato prima della finale multe e penalty points a cascata. In semifinale, contro l'australiano Rod Frawley, aveva esclamato: “In questo posto vengo sempre fregato dagli arbitri” mentre Lady Diana Spencer lasciava il royal box a metà partita. Anche se la scelta di affidare il compito di giudicare a dei dilettanti che solo da un anno erano obbligati a superare un test della vista prima del torneo qualche legittimo dubbio lo lasciava, e non solo in Superbrat. Borg era rimasto, come al solito, glaciale nei suoi incontri e aveva cancellato le critiche con un successo in cinque set su Jimmy Connors. Chi diceva che era condizionato dall'infortunio alla spalla, chi obiettava che avrebbe lasciato il tennis per stare con sua moglie, Maria Simionescu, per un po' dovette ricredersi.

Lo svedese non modificò la sua idea di partita. Nel primo set aspetta dietro la riga di fondo, mentre le velenose traiettorie mancine col servizio di McEnroe lo costringono a volte a rispondere con i piedi in corridoio; è il primo a brekkare, andando 3-2 prima di chiudere 6-4. Domina a lungo gli scambi, ma dopo un'ora di gioco il secondo set è ancora sul 3-3. McEnroe continua a tenere e allunga al tiebreak, pur avendo sprecato nove set point. Ma qui, davanti allo sguardo della Principessa Grace Kelly, il suo servizio esplode e chiude 7 punti a 1.

Nel terzo Borg in avvio è perfetto, rilassato, non sbaglia praticamente mai. Ma non sfrutta le occasioni. Eppure, dopo un doppio fallo di McEnroe, si ritrova avanti 3-1 prima di tenere il servizio. Ma viene brekkato nel settimo gioco (all'undicesima possibilità concessa all'americano) e McEnroe riesce a salvarsi nel game successivo, una maratona di 12 punti in cui commette due doppi falli.

Il decimo game riassume il senso della loro rivalità. Una palla rimbalzata sulla riga viene chiamata buona, ma l'arbitro Bob Jenkins chiama l'overrule: Borg si ritrova avanti 40-15 sul servizio di McEnroe. Il pubblico si zittisce, tutti aspettano la scenata di Superbrat, che però non arriva. BigMac si dirige verso la riga di fondo, sospira, serve due aces e tiene il servizio. Successivamente ha ammesso che ha contenuto la sua reazione anche per il rispetto che nutriva per il Borg-uomo. McEnroe chiude il terzo set 7 punti a 4 al tiebreak, il terzo su tre perso dallo svedese in finale ai Championships.

Il regno dello svedese di ghiaccio a Londra finisce. Nel quarto si va avanti seguendo i servizi fino al 5-4 McEnroe, che trova il break decisivo con una volée lungolinea semplicemente irraggiungibile. Il pubblico, che aveva sostenuto Borg, applaude educatamente, senza troppo entusiasmo. Lo stesso Borg dirà: “Nessuno può vincere sempre”. McEnroe festeggia alla sua maniera, non partecipando alla tradizionale cena dei vincitori. “Volevo passare la serata con i miei amici e la mia famiglia, non con un branco di settantenni che non facevano altro che dirmi che mi comportavo da cretino”, ha spiegato qualche tempo fa a Sports Century, un programma di ESPN Classic.

Ma il re spodestato già medita la vendetta, da consumarsi a casa del delfino designato, a Flushing Meadows. E' questa sensazione, secondo Lesley Visser del Boston Globe, ad aver spinto lo svedese a dichiarare che vincere gli Us Open fosse la sua più grande passione. Ma McEnroe aveva un record di 22 vittorie su 24 partite nello Slam statunitense, Borg di 34-9.

Nell'ultimo match della sua carriera, a Borg è mancata quella determinazione che l'aveva sorretto neo grandi trionfi, nonostante un primo set incoraggiante, con il 72% di prime (contro il 48% di BigMac) e un break decisivo nel quinto gioco. Superbrat però sembra riuscire a leggere nella mente di Borg, e riesce a ribattere a ogni mossa dello scandinavo, che vede l'efficacia del servizio calare al 40% dopo il primo set e si lascia sfuggire il secondo con due doppi falli servendo sotto 2-5.

McEnroe gioca il match della vita, in controllo sia del gioco che del carattere. Nel terzo, con Borg avanti di un break e al servizio per salire 5-3, McEnroe trova una risposta vincente con il rovescio incrociato: 15-0. Dopo un errore di rovescio, BigMac torna avanti: Borg prende la rete, ma si vede scavalcato dal lob di dritto dell'americano. Borg si getta avanti per contrastare il più giovane avversario, che però indovina un altro delicato passante incrociato di rovescio. E con un altro lob brekka: lo farà ancora al decimo game per chiudere il set.

La pressione sale tutta sulle spalle dello svedese; ma i servizi mancini in kick ne prosciugano la resistenza, già messa a dura prova nell'ottavo game del terzo set, che si rivela decisivo. McEnroe vince 46 62 64 63. Borg scappa, si rifiuta di assistere da spettatore al trionfo dell'americano, non ritira il trofeo che spetta al finalista sconfitto: vuole abbandonare tutto, gli us Open, New York, il tennis. Per tutta la vita gli era stato insegnato a vincere. Una volta sconfitto, una volta compreso che niente sarebbe più stato come prima, la sua reazione è stata chiara e senza ripensamenti: smettere e dedicarsi ad altro.


Agassi vs Sampras
Non è stato solo uno dei match migliori di sempre. Nel quarto di finale degli Us Open del 2001 c'è un'iconicità simbolica che racchiude il senso della contrapposizione che ha marcato gli anni Novanta e l'inizio del nuovo millennio. “Pistol” Pete Sampras, il WASP che ha sacrificato il glamour per la sostanza del tennnis, il bravo ragazzo che serve con la lingua di fuori, si presenta in completo bianco. Andre Agassi, un tempo biondo quasi come Gesù (toupé or not toupé, questo è il problema), l'anima torbida del tennis a stelle e strisce, passato attraverso esagerazioni, legami tribolati e per la “redenzione” insita nell'essere diventato il signor Graf, in completo nero.

Una rivalità iniziata nel 1989, a Roma, con la netta vittoria di Agassi; una contrapposizione tra due rivali che si sono sempre rispettati ma mai amati fino in fondo, che ha preso “fuoco” nel 1990, in finale agli Us Open. Un Sampras perfetto, prima maniera, contro un Agassi che non ha mai accettato la sconfitta ma lì ha iniziato a capire che avrebbe potuto colpire ancora più forte.

Perde ancora, in un match di livello tecnico straordinario, nelle semifinali del Masters 1994. Per un set Agassi non concede palle break, strappa il servizio e chiude con un'accelerazione lungolinea di rovescio 6-4. Il match gira a metà del secondo, dopo uno scambio stellare: Pete prova il chip and charge con l'approccio lungolinea di rovescio, e arriva in allungo sul passante incrociato stretto di dritto; riesce poi a chiudere a campo aperto sulla controsmorzata incrociata di Agassi, che cede 46 76 62.

Quando si giocano 34 partite uno contro l'altro, a un certo punto la tecnica e la strategia iniziano a contare di meno: ormai nessuno può avere più segreti. Ed è la mente a guidare la performance prima e più delle gambe o delle braccia, come dimostra la finale degli Australian Open 1995, l'unica finale di Slam vinta da Agassi sul Kid Sampras (46 61 76 64). In quell'edizione Sampras aveva pianto lacrime sincere quando il suo coach, e futuro capitano di Davis, è stato ricoverato in ospedale al terzo turno; e ha commosso tutti quando ha rimontato per due volte uno svantaggio di due set, scoppiando in lacrime prima del quinto contro Jim Courier. Ma questo non gli ha impedito di vincere la partita. Dopo la vittoria, però, Agassi ha dato prova di quel rispetto che tra i due non è mai mancato. “Oggi non era al meglio” disse, “ma la verita è una: lui è davanti a tutti”.

Pete si prende la rivincita a Flushing Meadows, poi per quattro anni nessun confronto diretto nei tornei dello Slam fino a Wimbledon 1999 (sei match totali, con 4 vittorie di Sampras). Nel match che chiude il millennio, nel “suo” giardino, Sampras gioca probabilmente la sua miglior partita sull'erba dei Championships. Il 4 luglio Sampras conquista il suo sesto Wimbledon, e il dodicesimo Slam della carriera. “Oggi camminava sull'acqua” ha ammesso a fine partita Agassi, che al termine della premiazione ha scherzosamente tentato di colpire il Kid con il trofeo del finalista. “E' stata la mia miglior partita da anni” ha spiegato Pistol Pete. “Andre ha tirato fuori il meglio di me portandomi a giocare a livelli fenomenali”. Come dimostrano le quattro risposte vincenti, i 17 ace (compresi i due di fila che hanno chiuso la finale), un paio di strepitosi passanti stretti di rovescio, tradizionale ed efficiente barometro della sua condizione e del suo standard di gioco, e una volée in tuffo alla Becker. Il 63 64 75 finale, scandito da un break per set, ha mandato Sampras nella storia come il primo giocatore dell'era open a trionfare per sei volte nella cattedrale del tennis.

Lo spettacolo della rivalità che ha scandito gli anni Novanta traborda all'inizio del nuovo millennio. E se il tennis è forse l'unico sport in cui è potuta sopravvivere una rilevante quota di epica, lo si deve a match come la semifinale degli Australian Open del 2000. Agassi vince 64 36 67 76 61, e il tiebreak del quarto set è da incorniciare accanto a quello giocato tra McEnroe e Borg a Wimbledon 1980. Match indimenticabili per diversi motivi: perché è solo la seconda volta che Agassi e Sampras arrivano al quinto set, perché solo Sampras può far apparire debole Agassi in un tiebreak (ha vinto il “jeu decisif” del terzo set 7-0), perché solo Agassi può sopravvivere a 37 aces e trovare la strada per la vittoria godendo dell'abbraccio di 15 mila fans in delirio. Andre diventa il primo, dopo Rod Laver, a raggiungere quattro finali consecutive nel Grande Slam, al termine di una battaglia di oltre tre ore che però si decide nel giro di cinque minuti.

Andre si trova con le spalle al muro: è sotto 5-4 nel tiebreak del quarto set, Sampras, solo minimamente condizionato da un piccolo infortunio muscolare al fianco destro durante il primo set, è a due punti dal match. Si salva con due servizi vincenti e un passante di dritto sul servizio del ventinovenne di Washington. Agassi tiene il servizio nel primo gioco del quinto. Sampras inizia a servire per il secondo game. Cerca l'ace centrale, Agassi risponde nelle scarpe, Pete prova la volée incrociata cui Agassi ribatte d'istinto, altro tentativo di Pete col passante incrociato di dritto, voléè in tuffo di Agassi che chiude il punto. Il pubblico impazzisce, Sampras si avvia mestamente a fondo campo, con lo sguardo a terra. Il match si decide qui. Sampras mette a rete un colpo non impossibile poi, sul 15-30, si lamenta del fatto che Agassi saluti ad alta voce il coach, Brad Gilbert, seduto accanto a Steffi Graf: un gesto inusuale per lui. Andre con un velenoso dritto lungolinea costringe Sampras a sbagliare la volée prima che Agassi, ancora di dritto, trovi l'unico break di cui ha bisogno nel quinto set. Sampras perde per la prima volta in Australia al quinto set; Agassi si avvia a vincere il torneo contro Kafelnikov.

Ma è solo il preludio del vero show, che arriva l'anno successivo, con il “Van Halen tribute” che va in scena a Flushing Meadows. Un match che ha cambiato la storia del tennis, cinque giorni prima dell'attacco alle Torri Gemelle che ha cambiato la storia del mondo.

Spettacolo puro. Tre ore e trentadue minuti di show che il pubblico ha salutato con una standing ovation all'inizio del tiebreak del quarto set. Un match in cui nessuno ha mai perso il servizio, in cui ci sono state solo nove palle break (polarizzate nel primo e nel quarto). Sampras è al suo meglio: 25 aces, 170 discese a rete con il 70% di punti trasformati. Agassi è strepitoso, gioca un match di difesa, risposte e anticipi impossibili e chiude con 15 errori gratuiti e 55 vincenti. Ma alle volte, specie contro il Kid di Washington, il meglio non basta. E si ritrova così a perdere per la seconda volta in carriera a Flushing Meadows dopo aver vinto il primo set (l'unica altra occasione contro Lendl nel 1988).

Una chimica particolare, quella che si crea tra i due, con Agassi forse frenato dai ricordi negativi. I due tornano sul luogo del delitto dodici mesi dopo, per l'ultima grande recita di Pete Sampras. E Agassi non vuole rovinargli la festa. Elimina Hewitt in semifinale lottando, mentre Sampras ha vita più facile contro Sjeng Schalken. Saampras si muove meglio, è più fresco, anche se col fiato un po' corto. Fa serve & volley su prima e seconda, con una voglia matta di vendicarsi chi lo considerava un dead man walking prima del tempo. E, stavolta sì, Andre perde perché c'è Pete di là, che chiude 63 64 57 64 e appende la racchetta al chiodo.

Andre perde per quella chimica particolare che Sampras ha sintetizzato anni dopo così: “Con me Agassi perdeva anche quando giocava meglio perché sapeva che ero più forte”.

Federer vs Nadal
Ricordi negativi, alchimie caratteriali che si saldano a caratteristiche tecniche sono il cuore anche della rivalità degli anni Duemila. Nadal e Federer hanno fazioni di tifosi altamente polarizzate, eppure non sono così diversi, entrambi schivi, entrambi poco altezzosi, i due si stimano e si rispettano. Sarà che si può interpretare la loro opposizione come il duello tra la forza e l'estetica, o più semplicemente come la sfida tra due modi di intendere la bellezza e l'efficacia, ma tra “nadaliani” e “federeriani” si è creata una divisione che non è solo partigianeria sportiva.

Ma qui siamo passati dal dominio della memoria a quello della cronaca, ed è quasi superfluo ricordare i grandi momenti dei duelli dei giorni nostri, su cui praticamente tutto si è detto e scritto. Dal capolavoro del maiorchino al Roland Garros 2008 (che diventa il primo giocatore dal '99 ad infliggere un 6-0 allo svizzero) fino alle recenti lacrime dello svizzero in Australia, i momenti chiave dei loro duelli coincidono spesso con le sconfitte di federer, che ha dovuto anche “accettare” che un Nadal smanicato riducesse a brandelli il rituale dei Championships scalando il Royal Box al termine della più bella partita di tennis che il mondo abbia ammirato.

Una storia fatta di ricordi negativi, che pesano soprattutto su Federer, dai due match point di Roma 2006 alle occasioni sprecate due volte a Montecarlo: pesa soprattutto quella del 2008, con federer avanti 4-0 nel secondo set. Un dualismo che ha visto Nadal vincere 9 volte su 11 sulla terra (tredici in totale) ma che ha segnato la storia di questo sport. Nadal ha la serie di vittorie consecutive più lunga di sempre sul rosso, 81 partite, interrotta da Federer nella finale di Amburgo 2007. Federer ha record di 56 vittorie sul cemento e 65 sull'erba, entrambe interrotte dal maiorchino. Si sono affrontati in sette finali di Slam, e finché Del Potro non ha detronizzato lo svizzero a New York, nessuno dei due aveva mai perso in finale di un major contro altri avversari.

Bastano i numeri per spiegare la bellezza e l'importanza del duello, non basta la psicologia per spiegarne l'andamento. Il vantaggio di Nadal, quel suo topspin esasperato di dritto, va a sbattere sul punto di relativa debolezza dello svizzero, che fatica a giocare il rovescio d'attacco sulla palla velenosa del maiorchino. Ha tentato col dritto inside-in, che ha migliorato negli anni, il dritto anomalo lungolinea giocato dal lato sinistro, ma non sempre ne ha ricavato benefici. Anzi, questa soluzione l'ha tradito sul più bello, alla risposta sul match-point che ha regalato a Nadal l'edizione 2008 di Wimbledon.

Una storia che dimostra come ognuno riesca a tirar fuori il meglio dall'altro, in un clima di assoluti rispetto reciproco. Un solo piccolo screzio tra i due, quando a Wimbledon 2008 Federer si è lamentato delle eccessive perdite di tempo del maiorchino: all'improvviso era diventato Phil Jackson che si rammaricava perché non venivano chiamati falli a Kobe Bryant.

Ma questa è un'altra storia. La loro è ancora piena di pagine bianche ancora tutte da riempire.

Alessandro Mastroluca

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