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10/11/2010 08:21 CEST - PROFILI

See you mister Dent

TENNIS - Taylor Dent ha annunciato il ritiro a soli 29 anni. L'americano era rimasto uno degli ultimi interpreti del gioco d'attacco e per questo motivo era molto amato dagli appassionati. In carriera ha raccolto poco (4 titoli vinti) ma ha dovuto subire due operazioni alla schiena che l'hanno costretto lontano dai campi dal 2006 al 2008. Nicola Gennai

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Quando si dice il caso. Proprio nel giorno in cui Nicolas Mahut viene sconfitto a Parigi Bercy giocando solo serve & volley, Taylor Dent si ritira. Ma è proprio (anche) per questo motivo che l’americano ha deciso di farla finita con incordature, 0-15, doppi falli, ace e palle break. Il suo stile di gioco, il servizio e volèe, è ormai, come dimostra la seppur onorevolissima sconfitta dello spettinato francese, un modo di interpretare il tennis buono solo per i fanatici, per i giocatori di club, per chi vuole divertirsi, ma ahimè, lo vuol fare senza vincere. 
 

Chi batte e scende, al giorno d’oggi, sa già quello a cui va incontro. Risposte vincenti a go-go, passanti sempre tra le stringhe, gioco di volo sempre più arduo, colpi un tempo definitivi che tornano una, due, tre, quattro volte, fino a quando, presi dalla rabbia, non vengono affossati in rete o finiscono out.
Triste il destino del serve and volleyer. Triste il modo in cui ci lascia Taylor Dent, con una poco onorevole sconfitta da Rik de Voest al secondo turno del semisperduto torneo challenger di Charlottesville, Virginia, Usa. Proprio a Charlottesville, giusto qualche giorno fa, il Dent che fu tennista aveva rilasciato un’intervista che faceva già intuire ciò che si è avverato ieri: "Se mi accorgo che sto facendo progressi, allora andrò avanti, altrimenti prenderò la decisione (di ritirarmi) quanto prima". La “decisione” è davvero stata presa alla velocità di un lampo, più o meno quella dei suoi servizi a 240 all’ora, l’ultimo dei quali è stato avvistato a Wimbledon, dove pochi mesi fa ha stabilito il record di battuta più veloce di sempre a Church Road.
 

Ci aveva provato il figlio d’arte di Phil a tornare a dei buoni livelli. Ci aveva provato con tutto se stesso. Aveva anche leggermente cambiato il suo modo di giocare, facendo s&v praticamente solo sulla prima di servizio, visto che, a suo dire (e a nostro giudicare), “sulla seconda non è più realistico”. Ma i risultati, evidentemente, non erano stati quelli che il sosia di Rino Tommasi si aspettava. Per chi era riuscito a raggiungere la piazza numero 21 del mondo (8 agosto 2005), una seconda carriera fatta di stenti per rimanere tra i primi 100 non doveva avere molto senso. Già, due carriere. Perché di questo si deve parlare quando ci si rapporta con Taylor Dent. Nella sua vita tennistica c’è un prima e un dopo. Il prima va dal suo passaggio nei professionisti nel 1998.

L’americano di Bradenton, classe 1981, si affaccia quindi al grande tennis quando chi attacca non è ancora un oggetto da museo, leggi Sampras, Rafter, Ivanisevic e Philippousis, tanto per citarne alcuni scarsi. Dopo la gavetta di routine, il fatidico muro dei 100 viene infranto a colpi di ace e voleè vincenti il 4 marzo 2002. Di lì a poco arriverà la prima grande (non sono molte ad essere sinceri) soddisfazione: la vittoria in un torneo. Siamo a Newport, non un torneo qualunque, in ogni caso. In finale Dent sconfigge James Blake, un altro la cui carriera è stata a dir poco tribolata. Con quella vittoria sui verdi prati della Hall of Fame, Taylor entra di fatto nel tennis che conta. Nel 2003 sfonda anche la barriera dei top50, nei quali si stabilizza senza particolari problemi. Il 2003 è anche il suo anno più vincente, con ben 3 tornei conquistati: Bangkok, Memphis e Mosca. A Memphis in particolare impressiona per un motivo preciso: in finale sconfigge quell’Andy Roddick che proprio in quella stagione avrebbe vinto gli Us Open e sarebbe divenuto numero 1 del mondo. Dopo queste affermazioni Rino (ops…Taylor) diventa un inquilino fisso nei primi 20-30 giocatori del mondo. Nel 2004, invece, sfiora la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atene, sconfitto 16-14 al terzo da Fernando Gonzalez nella finalina. A colpire, oltre ad un braccio davvero molto sensibile (per chi ha buona memoria, durante il suo ottavo di finale contro Hewitt a Wimbledon nel 2005, il duo Marianella Bertolucci rimaneva impressionato dalla nonchalance con la quale l’americano giocava le voleè), era il suo davvero originale movimento di servizio (qui imitato da Federer). Una specie di ingobbimento, con la gamba destra stranamente sollevata in modo obliquo e un successivo ancora più strano saltello a bocca spalancata a mostrare una dentatura vagamente equina, compiendo anche un gesto con le braccia quasi a pararsi da un colpo basso. Fatto sta, che, come accennato, il servizio di Dent faceva davvero paura. Ma faceva anche male. Tanto. Alla schiena. Neanche il tempo di gioire appieno del best ranking, che pochi mesi dopo, febbraio 2006, la prima parte della carriera di Taylor vedeva la fine. Su un campo di Rotterdam. Ritiro al termine del primo set contro Christophe Rochus. Schiena maledetta. Prima operazione. A distanza di un anno, di tennis neanche a parlarne. Marzo 2007, seconda operazione. Ormai si parla di carriera finita, si sprecano gli amarcord, visto che, nel frattempo, tutti gli attaccanti sono scomparsi e Dent era rimasto uno degli ultimi a difendere (bene) la categoria. Passano i giorni, i mesi, le settimane. Ma lo yankee, di dichiarata fede repubblicana-reaganiana, non demorde. Vuole tornare a giocare. E’ costretto a passare intere giornate a letto per rimettere in sesto i cocci della sua schiena ferita. Nel frattempo, come è normale che sia, ingrassa a dismisura (non che prima fosse un grissino).

E così, quando il 26 maggio 2008 riceve una wild card per il torneo challenger di Carson, si presenta in campo a dir poco appesantito, tanto che gli 88 kg segnalati dalla guida Atp strappano (grasse, ovviamente) risate. Perde al primo turno, ma poco male: la sua seconda carriera è iniziata. Il ritorno nel circuito maggiore pare un segno del destino, visto che avviene a Newport, dove sei anni prima aveva alzato la coppa del vincitore. Di lì alla fine dell’anno calcherà i campi di altri quattro tornei, vincendo due partite soltanto al challenger di Champaign. L’importante, per molti fanatici del tennis classico, e per i meno fanatici che vorrebbero vedere più varietà in campo è però che Dent ci sia. Sfruttando la classifica protetta, nel gennaio 2009 può prendere parte alla campagna d’Australia, terra cui è legato per via del padre Phil, aussie di nascita (Taylor ha tatuato sulla sua spalla destra, oltre a quella americana, la bandiera australiana). Dopo due anni può finalmente tornare a dire la sua in uno Slam. Chi lo rivede giocare dopo tanto tempo nota però subito due cose: la già accennata pancia in esubero e, come conseguenza, una mobilità davvero ridotta. Il braccio, però, è sempre lo stesso. Ed è grazie al suo braccio, al suo talento (non certo alle gambe) che un paio di mesi dopo si toglie una bella soddisfazione. Quella di vincere cinque partite di fila a Miami (tre di qualificazione), per affrontare in ottavi di finale nientemeno che Roger Federer. Il nostro fa la sua bella figura e, nel primo set, ha ben otto opportunità di brekkare lo svizzero. Chiaramente perde il match, ma la felicità (per lui e per i suoi tanti fans) di essere tornato a calcare un palcoscenico del genere è davvero forte. Il resto della stagione prosegue tra alti e bassi, spesso Dent deve passare dalle qualificazioni, spesso perde al primo turno. Poi arriva Il Match: Taylor Dent vs Ivan Navarro Pastor, secondo turno, campo Grandstand, sessione serale Us Open. Quattro ore filate di ace, serve & volley, back di rovescio, chip and charge, attacchi in controtempo, finezze, palle corte. Un tripudio per gli occhi. Un tripudio per Taylor, che, stremato, celebra la sua rocambolesca vittoria (con un match point salvato) al tie break del quinto afferrando il microfono del chair umpire e arringando la folla con un molto americano “You guys are unbelievable” (minuto 1.20).
 

E’ uno dei sui ultimi sussulti, visto che nel 2010 raccoglie solo 12 vittorie totali a fronte di 19 sconfitte. Ad alti livelli comincia a diventare davvero inconsistente. Al Roland Garros e agli Us Open viene martirizzato da Soderling, a Stoccolma da Federer. Sembra sempre più sfiduciato, sempre meno convinto dei suoi mezzi.
Fino a ieri. Fino a che non decide di farla davvero finita. Ci ha provato a vivere una seconda carriera, ma non gli è riuscito appieno. Per quanto riguarda il futuro ha dichiarato di non veder l’ora di “trascorrere più tempo con la mia famiglia, soprattutto con mia moglie Jenny e nostro figlio Declan. Voglio restare ancora nel settore del tennis". Oppure potrebbe darsi alla politica, sua grande passione.

Noi, che ci occupiamo di tennis, lo ricordiamo così.

Ciao, Taylor.

Nicola Gennai

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Tratto da: On This Day in Tennis History di Randy Walker