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28/04/2011 22:26 CEST - Atp tour

Pecunia olet? Pagati per esserci

TENNIS - Come fanno i tornei minori ad avere giocatori di richiamo in tabellone? Pagano. E' una prassi abituale ma se ne parla poco e mal volentieri. I primi del mondo possono ambire anche ad assegni a sei cifre per giocare un Masters 500 e in cambio garantiscono visibilità all'evento. Ma ce la fanno i tornei a sostenere questi costi? Al Queen's sono venuti dei dubbi. Enrico Riva

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Una delle cose che adoro nel tennis è l'ambivalenza che si ha con il denaro. I montepremi dei tornei principali sono stellari e il loro incremento annuo non manca mai di essere accompagnato da apposito comunicato stampa. I guadagni dei giocatori sono oggetto di attenzione costante tanto che l'Atp si premura di farli figurare tra le informazioni essenziali dei suoi iscritti e a fine anno i tennisti più abbienti immancabilmente finiscono nelle classifiche di Forbes e affini.

Stiamo parlando di milioni e milioni di dollari, nel caso ve lo steste chiedendo, non di noccioline. Di contro si tende ad avere un comprensibile riserbo sul come i tennisti spendano i propri patrimoni e poco importa che molti di loro eleggano domicilio in paradisi fiscali. In fin dei conti se li sono guadagnati, che ci facciano quello che vogliono. A me fa sorridere che Djokovic, per fare un esempio, riceva in pompa magna il passaporto diplomatico serbo quando le sue tasse finiscono a Montecarlo, ma che ci volete fare, io sono naïve. Immagino che la Serbia abbia fatto bene i suoi conti e si sia resa conto che la sola immagine di Nole basta e avanza per far girare montagne di quattrini in patria.

C'è tuttavia un aspetto economico del tennis che se si può è meglio tenere in sordina: i cachet di partecipazione. Vi siete mai chiesti in base a che cosa i giocatori scelgano un torneo piuttosto che un altro? Proviamo a rispondere coinvolgendo Fernando Meligeni, ex pro brasiliano con 3 titoli in carriera e un best ranking da numero 25 (1999) che nei giorni scorsi ha affrontato la questione per rispondere ai suoi lettori. Fininho identifica 3 variabili principali: l'abitudine (mi trovo bene in un torneo e se posso ci vado ogni anno), la compatibilità (palle e superficie corrispondono maggiormente al mio gioco) e soprattutto i soldi. Non il montepremi complessivo bensì la somma che l'organizzazione è disposta a tirar fuori per avermi nel suo tabellone. Questo fenomeno esiste da sempre sia nel tennis maschile (in cui è perfettamente lecito) sia nel tennis femminile (dove è stato proibito fino al 2010) ed è proporzionale con il valore dell'evento e il peso del giocatore. Ovviamente parliamo di tornei dai 500 in giù perchè i 1000 sono obbligatori per i migliori e gli Slam non necessitano di altro che del loro prestigio.

Ora, che i tennisti più forti prendano soldi per giocare i tornei minori è questione altamente risaputa ma se si può se ne tace. Di che cifre stiamo parlando? Mark Hodgkinson (Telegraph) racconta di come Federer prenda più di 500.000 sterline per il solo fatto di iscriversi al torneo di Dubai mentre Murray e Nadal rimangono in quota 6 cifre per presenziare al Queen's. Jon Wertheim (Sport Illustrated) assegnava cifre simili ad Agassi e a Kournikova qualche anno fa mentre identificava in un range di 50-150 mila dollari il compenso di un top 10. Ovviamente pagare un tennista perchè partecipi ad un torneo è un investimento per gli organizzatori; che sia l'idolo locale che garantisce maggior pubblico o un nome altisonante che attiri gli sponsor, i direttori dell'evento puntano a monetizzare la loro spesa e spesso ai cachet sono attaccate clausole che garantiscono risultati minimi e prestazioni accessorie. Anche perchè avere la star che ti arriva di mercoledì e perde al primo turno è un rischio inutile, percorribile invece se il campione ripaga la diaria con qualche apparizione promozionale.

In questi giorni le questioni monetarie sono al centro di un grosso dibattito in quel di Londra, dove non si è mai fatto mistero dell'esisitenza dei compensi extra. Owen Williams, direttore del Queen's nei '90, dichiarò tranquillamente che "certi giocatori erano pronti a scegliere il torneo in base al maggiore offerente" mentre Ian Wright, suo successore negli ultimi '00, arrivò ad affrontare il problema direttamente con De Villiers, sottolineando come alcuni eventi finivano per svenarsi pur di ottenere i giocatori che contavano. Il presidente Atp lo rassicurò spiegando che si era raggiunto un accordo per cui i compensi di apparizione sarebbero stati nell'ordine del 25-30% del montepremi.

Con le Olimpiadi alle porte in quel di Wimbledon c'è un'ulteriore preoccupazione: il regime fiscale britannico. Succede infatti che gli atleti individuali che competono in Gran Bretagna debbano pagare il 50% di tasse sui compensi di partecipazione, sui premi e in percentuale sulle loro sponsorizzazioni mondiali. L'anno scorso Usain Bolt si guardò bene dal correre nella Crystal Palace Diamond League per non incappare nel fisco e Ian Ritchie, chief executive dell'All England Club, ha chiesto al governo di intervenire prima che il problema si acuisca. Il problema per Ritchie non sono le tasse sui premi ma quelle sugli sponsor che in caso di sport di squadra non si applicano allo stesso modo. Il timore è che molti campioni disertino sempre più il Queen's e gli altri tornei minori britannici per non finire nelle mani dei gabellieri di Sua Maestà e che gli eventi in questione debbano ovviare con faraonici cachet di partecipazione per avere i tennisti che contano.

Una posizione netta a riguardo l'ha presa il torneo di Los Angeles. Il direttore Bob Kramer ha detto che da quest'anno i compensi garantiti cesseranno. "Cercheremo di sopravvivere esclusivamente grazie ai nostri meriti". A proposito di essere naïve...

Enrico Riva

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