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15/06/2012 20:23 CEST - US Open 2012

La USTA sul tetto che scotta

TENNIS - Nei piani di espansione del complesso di Flushing Meadows salta all'occhio la mancanza di un piano per mettere un tetto sull'Arthur Ashe. Verranno spesi $500 milioni dalla USTA senza però dotarsi dell'unica struttura di cui ha bisogno. Vanni Gibertini

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You cannot be serious”, non potete parlare sul serio. Questa sembra essere la reazione prevalente tra i tifosi e gli addetti ai lavori all’annuncio fatto dalla USTA, la federazione tennis americana, sul programma di ammodernamento da 500 milioni di dollari per il Billie Jean King National Tennis Center di Flushing Meadows che verrà iniziato a partire dal 2013. Il Louis Armstrong verrà rifatto ed ampliato, sarà costruito un nuovo “show court” da 8000 spettatori, ci saranno altri 3 nuovi campi, ed una terrazza panoramica da 800 persone per regalare una vista sui campi secondari, ma ancora niente tetto per l’Arthur Ashe.

Nonostante le quattro finali consecutive rimandate a lunedì, si sono dimostrate insormontabili le difficoltà ingegneristiche che erano già state rese note durante i bagnatissimi giorni delle ultime edizioni degli Open: “Le soluzioni a nostra disposizione non consentono di progettare un tetto per la copertura dell’Arthur Ashe Stadium che sia abbastanza leggera da poter essere sostenuta dallo stadio – ha dichiarato la USTA nell’annunciare il progetto di espansione. Il problema è e rimane quello del peso di una struttura che dovrebbe coprire lo stadio da tennis più grande del mondo, il quale è costruito su un terreno paludoso di riporto, e che quindi cederebbe sotto il peso di un carico eccessivo, facendo sprofondare la struttura. Non sembra siano disponibili al momento materiali abbastanza leggeri da risultare sopportabili per lo stadio, di conseguenza le uniche soluzioni sarebbero quelle di un tetto autoreggente, che però non sembra praticabile in quanto occuperebbe una notevole area intorno all’Arthur Ashe, limitando fortemente gli impianti circostanti. La sola altra soluzione sarebbe quella di radere al suolo l’attuale stadio e costruirne uno nuovo, più piccolo, ma con copertura mobile, distruggendo un impianto di appena 15 anni e richiedendo un investimento notevolmente superiore ai $500 milioni che la USTA pagherà per questo ampliamento. Troppi, anche per l’Open più ricco del mondo, anche per l’Open che più degli altri si piega ai desideri (ed ai dollari) delle televisioni, che sarebbero le prime a beneficiare di un torneo a prova di maltempo.

Vedendosi impossibilitati a correggere una decisione chiaramente sbagliata presa 15 anni fa, quando ad uno stadio più piccolo e ‘copribile’ si preferì l’attuale monumentale catino, necessariamente “en plein air”, la USTA rilancia con un progetto d’espansione che punta ad aumentare ancora le presenze del torneo: una volta realizzate, le nuove strutture consentiranno di accogliere almeno 10.000 persone in più per sessione, facilitando la progressiva demolizione dei record mondiali di presenze che ogni anno il torneo macina con grande regolarità: 721.059 spettatori rappresentano il record dell’edizione 2011, cui si prevede si potranno aggiungere almeno altre 100.000 unità una volta che il National Tennis Center avrà finito il suo “lifting”.

Certamente, tutte le volte che mi sono trovato a camminare per i viali del BJKNTC in quelle afose giornate di agosto nelle quali orde di tifosi sudati ed appiccicosi si accalcano nel tentativo di vedere un diritto di Serena Williams, ho proprio pensato ‘Accidenti, sarebbe davvero bello se di fossero ancora più persone qui’ – questo l’ironico commento di Sports Illustrated, il principale periodico sportivo statunitense, che attraverso il proprio sito internet ha anche rincarato la dose ricordando come “più grande non vuol dire migliore”. Il nuovo progetto infatti prevede la distruzione e la ricostruzione dei due campi storici di Flushing Meadows: il Louis Armstrong e soprattutto il Grandstand, definito come “il campo più intimo e pieno d’atmosfera degli Open”. D’altra parte, come avevamo già spiegato nei precedenti articoli dedicati all’argomento, quei campi stavano arrivando alla fine del loro ciclo di vita naturale, soprattutto per il fatto di essere stati costruiti sopra una discarica. Ma se la loro ricostruzione era oggettivamente inevitabile, ciò che non era necessariamente auspicabile, sempre secondo Sports Ilustrated, era il loro sensibile allargamento: da 10.000 a 15.000 posti per il Louis Armstrong, e da 6.000 a 8.000 posti per il Grandstand, compromettendo così la speciale atmosfera dei due luoghi, al momento così diversi da un centrale “in confronto al quale anche il Grand Canyon dà un senso di intimità”.

Ma come si è ormai capito, ciò che muove gli animi (e le ruspe) nei grandi tornei di tennis sono i profitti: d’altro canto le federazioni nazionali si finanziano in gran parte con gli utili di questi eventi, ed il prezzo da pagare per correggere quel madornale errore di valutazione fatto negli anni ’90, quando si preferì il “grande e bagnato” al “piccolo e asciutto”, è stato giudicato troppo elevato. Soprattutto in un periodi in cui le associazioni giocatori sembrano propense a scendere sul sentiero di guerra per ottenere una fetta più grossa degli introiti del tennis ed una più equa distribuzione della torta. Infatti, se calcoliamo l’entità del prize money in termini percentuali rispetto agli introiti totali del torneo, nel 2009 gli US Open distribuirono ai giocatori 21,6 milioni di dollari, che rappresentano il 18,3% dei 118,1 milioni di dollari di profitto netto incassati dalla USTA (stando ai dati ufficiali rilasciati dalla stessa federazione). Se si pensa che i contratti collettivi delle leghe professionistiche americane (i cosiddetti “Collective Bargaining Agreement”) prevedono una percentuale degli introiti che si scosta di soltanto qualche punto percentuale dal 50%, si capisce come i giocatori (senza i quali, non bisogna dimenticare, non ci sono né tornei né profitti) hanno un ampio margine di trattativa nel prossimo futuro per aumentare le loro entrate. Nessuno lo dice, ma forse è questo il motivo che più di ogni altro spinge la USTA a non lanciarsi in faraoniche opere di distruzione e rifacimento dell’Arthur Ashe che impegnerebbero una quantità notevole di risorse finanziare mentre si intravedono nubi minacciose che si addensano all’orizzonte delle richieste economiche dei giocatori. E sono questi i rovesci che fanno più paura, non quelli di Nadal e Djokovic, non quelli di Giove Pluvio. Con buona pace nostra e delle televisioni.
 

Vanni Gibertini

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