28/07/2012 20:41 CEST - Olimpiadi

Storie nella storia: quando la politica entra ai Giochi (parte 1)

TENNIS - Berlino '36: Hitler e Jesse Owens. Melbourne '56: la semifinale di pallanuoto Ungheria-Urss. Monaco '72: l'attentato di Settembre Nero e la finale di basket Usa-Urss. Alessandro Mastroluca

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Jesse Owens
Jesse Owens

Berlino 1936
“Come ti chiami?” chiede la maestra al nuovo bambino di colore che si è aggiunto nella sua classe. “J.C.” risponde. Sono le iniziali di James Cleveland, nato a Danville: suo padre è un mezzadro, i nonni sono stati schiavi nella piantagione di cotone. Ma la maestra capisce male e da quel giorno J.C. diventa Jesse. Jesse Owens, la freccia dell’Alabama, il campione che rovina le Olimpiadi di Hitler.

La Germania avrebbe dovuto ospitare i Giochi nel 1916, ma la guerra rimanda tutto di vent’anni. La scelta cade su Berlino nel 1931, due anni prima che il vecchio Hindenburg nomini Hitler nuovo cancelliere. Il Fuhrer decide di farne un manifesto per il Terzo Reich. Spende 42 milioni di marchi per costruire un complesso olimpico da 325 acri in cui spicca lo stadio olimpico da 110 mila spettatori in pietra naturale.

Mette alla porta il presidente del comitato olimpico, Theodor Lewald, perché suo nonno materno è ebreo. Al suo posto nomina un ex colonnello delle SA, Hans von Tschammer und Osten. Esclude dalla delegazione tedesca atleti di primo piano perché di origine ebraica, come il tennista Daniel Prenn, grande amico del barone Von Cramm, e il pugile Erich Seelig. Ma il comitato olimpico Usa, guidato da Avery Brundage, minaccia il boicottaggio se i nazisti non dovessero permettere a tutti gli atleti di origine ebraica di partecipare ai Giochi. Brundage visita Berlino, e il Fuhrer lo porta a visitare speciali centri di allenamento riservati, dice, agli ebrei. Per evitare il boicottaggio, Hitler riammette Helen Mayer, oro nella scherma nel 1928, e richiama Lewald come “consigliere” nel comitato olimpico.

Fa togliere ogni cartello anti-ebrei da alberghi, ristoranti, luoghi pubblici. Ordina alle “camicie marroni” di sospendere le violenze fisiche contro gli ebrei. Le svastiche sono ovunque. I Giochi possono cominciare, con gli Usa regolarmente presenti.

E tra gli statunitensi c’è anche Jesse Owens, che ha corso la sua prima gara a 13 anni. A Cleveland, alla East Technical High School. Il suo allenatore ha ideato un programma di allenamento allora pionieristico: porta un fonografo sulla pista e fa correre Jesse a ritmo di musica. Nel 1935 travolge riscrive la storia: batte tre record del mondo e ne eguaglia un quarto in 45 minuti ai Big Ten Track and Field Championships. E gareggia nonostante un mal di schiena lancinante: gli amici devono aiutarlo perfino a scendere dalla macchina per arrivare sulla pista.

A Berlino vince quattro ori, impresa mai battuta nell’atletica, ma eguagliata da Carl Lewis a Los Angeles nel 1984. Inizia con i 100 metri (10”3), seguono i 200 (20”7), il salto in lungo (8.06), la staffetta 4x100 (39”8).

Alla gara di salto in lungo è legato uno degli episodi simbolo di questi Giochi. Il tedesco Lutz Long, il suo principale rivale, è il primo a congratularsi con Owens per la sua vittoria. Leni Riefenstahl, regista chiamata a immortalare i Giochi nel primo documentario mai girato su un’Olimpiade (Olympia) non riporta la stretta di mano né l’esultanza dei 100 mila dell’Olimpiastadion. Long morirà durante la Seconda guerra mondiale, nella battaglia di Cassino, e riposa nel cimitero militare germanico di Motta S.Anastasia, in provincia di Catania.

Owens smentirà la leggenda secondo cui Hitler si sarebbe rifiutato di stringergli la mano. Semplicemente il Fuhrer non ha salutato nessuno dei vincitori delle gare. Eppure, ricordava, “quando sono tornato nel mio Paese ancora non potevo salire dalla porta davanti sugli autobus. Non potevo vivere dove volevo. È vero, Hitler non mi ha invitato a stringergli la mano, ma non l’ha fatto nemmeno il presidente Roosevelt”.

Melbourne 1956
Nel pieno della Guerra Fredda, i Giochi si spostano in Australia. In quelle settimane tra novembre e dicembre, dall’altra parte del mondo, si vedono atleti dei blocchi contrapposti abbracciarsi e gioire insieme per una vittoria. Ma si vede anche di più.

Olga Fitokova vince l’unica medaglia d’oro per la Cecoslovacchia con il nuovo record olimpico, nel lancio del disco. Sogna di fare la dottoressa, ha iniziato questa disciplina un po’ per caso, prima giocava come portiere a pallamano. Un giorno prima dei dell'inizio dei Giochi incontra un martellista statunitense, Harold Connolly, che nel 1955 è diventato il primo americano a lanciare oltre i settantuno metri e Melbourne, come Olga, vince l’oro e migliora il primato olimpico.

La politica si intromette pesantemente nella loro relazione. Olga viene chiamata in consolato a Sydney con la scusa di un ricevimento, ma è di fatto bloccata fino alla partenza della nave con gli atleti degli Stati Uniti; riceve inoltre solo un orologio d’oro e un premio di tremila dollari, il più basso tra quelli assegnati agli atleti che avevano partecipato ai Giochi, pur essendo stata l’unica medaglia d’oro.

Nel 1957 Connolly inizia un viaggio attraverso l’Europa in qualità di ambasciatore di buona volontà per conto del Dipartimento di Stato. Vuole sposare Olga, ma serve un permesso scritto per unirsi in matrimonio con uno straniero. Olga viene accusata di tradire la patria perché sta per sposare un fascista americano. Connolly scrive allora una lettera al presidente della Repubblica, Antonin Zapotocky che, dopo qualche tentennamento iniziale, convoca Fitokova. Al presidente Olga chiede di mettere una buona parola con gli uffici che dopo qualche giorno concedono il permesso.

Le chiedono però di non dire a nessuno della cerimonia e di organizzarla in un giorno feriale. Si sposano di mercoledì, ma la notizia è già circolata. Il giorno delle nozze ci sono 25 mila persone ad accoglierli: i testimoni di nozze sono i coniugi Zatopek.

Olga ottiene anche un permesso per lasciare la Cecoslovacchia per gli Usa ma non un passaporto. Si avvicinano, nel frattempo, gli Europei a Stoccolma. E Olga non riceve nemmeno il visto per andare in Svezia. Perciò scrive al comitato cecoslovacco. Le viene risposto che non è più considerata una cittadina cecoslovacca, che non potendo allenarsi a Praga non è autorizzata a rappresentare la Cecoslovacchia. Agli atleti, però, dicono che Olga ha rifiutato di rappresentare la sua nazione.

In Cecoslovacchia, nelle settimane che precedono i Giochi, c’è anche la nazionale ungherese di pallanuoto maschile, grande favorita per la vittoria. Sono stati trasferiti perché Budapest è iniziata la rivolta anti-comunista. Il Pcus, già sconvolto a marzo dal rapporto Kruscev che dà inizio alla destalinizzazione, invia in Ungheria l’Armata Rossa che reprime l’insurrezione nel sangue con oltre 2600 vittime.

Molti erano amici dei pallanuotisti, che promettono di non tornare più in patria. Ervin Zador è tra quelli che manterrà la promessa: andrà negli Usa e diventerà l’allenatore di Mark Spitz. In semifinale sfidano proprio l’Unione Sovietica. Dal primo minuto provocano gli avversari in russo, lingua che hanno studiato a scuola. L’arbitro, lo svedese Sam Zuckerman, assegnerà cinque espulsioni temporanee: tre contro i sovietici, due contro gli ungheresi. Manca poco alla fine, l’Ungheria conduce 3-0, e il magiaro Antal Bolváry viene colpito e chiede di uscire: teme che il pugno ricevuto gli abbia rotto un timpano. Bolváry marcava Valentin Prokopov, che per tutto il tempo aveva apostrofato gli avversari dando loro dei fascisti.

Uscito Bolváry, è Zador a controllare Prokopov. A un minuto dalla fine, con l’Ungheria salita 4-0, Prokopov sferra un pugno micidiale che apre una ferita profonda proprio sotto l’occhio destro dell’attaccante ungherese. Un compagno gli suggerisce di attraversare tutta la piscina, che si colora di rosso, per uscire dal lato delle tribune, sotto gli occhi degli spettatori. Ci sono anche tanti americani in tribuna, che in Zador vedono l’icona della violenza sovietica che sparge sangue innocente, sangue ungherese.

Messico 1968
Per l’Italia, dei Giochi del Messico resta soprattutto l’oro dalla piattaforma di Klaus Dibiasi. Nella storia dell’atletica, rimane l’8.90 di Bob Beamon, primato del salto in lungo favorito dall’aria rarefatta. Nella storia del mondo resta una fotografia. Tommie Smith e John Carlos, sprinter di colore, oro e bronzo nei 200 metri, sul podio abbassano la testa e alzano un pugno: il destro Smith, il sinistro Carlos. Pugni avvolti in guanti di cuoio nero. Comunicano al mondo la vicinanza con il movimento del black power, attuano una forma di disobbedienza civile, come auspicato da Martin Luther King, ucciso poco prima dei Giochi. Ma c’è un terzo personaggio che rende questa storia, e questa immagine, indimenticabile. Peter Norman, australiano, bianco. Ha vinto la medaglia d’argento. Condivide il podio con Smith e Carlos, e si unisce alla loro battaglia: si presenta alla premiazione con la spilla del Progetto Olimpico per i Diritti Umani sul petto, come segno di solidarietà. Smith e Carlos saranno espulsi dalla nazionale e finiranno a giocare nella NFL, la lega professionistica di football americano.

Monaco 1972
Nell’antica Grecia, durante le Olimpiadi si fermavano le guerre. A Monaco, la guerra entra nel villaggio olimpico. Un commando terroristico di Settembre Nero, guidato da Luttif Atif (che ha lavorato come ingegnere alla costruzione del villaggio) riesce a entrare, anche grazie alle insufficienti misure di sicurezza, uccide due atleti e ne prende altri 9 in ostaggio per chiedere la liberazione di 234 terroristi palestinesi. Il cancelliere Willy Brandt contatta il Primo Ministro israeliano Golda Meir che non vuole fare nessuna concessione. A tarda sera, gli ostaggi ottengono un aereo per spostare il luogo della trattativa dal villaggio olimpico di Monaco al Cairo. All’aeroporto di Fürstenfeldbruck entrano in azione cinque cecchini tedeschi. Ma il blitz è improvvisato e porta alla morte di cinque terroristi, di un agente e di tutti i nove.

I Giochi non si fermano, e la guerra torna nella città che ha visto nascere il nazismo. È una guerra senza armi e senza vittime. In palio non c’è solo la medaglia d’oro del torneo di basket maschile. Perché quando si affrontano Usa e Urss, una finale non è mai solo una partita. Gli Usa, che non hanno mai perso a basket alle Olimpiadi, si presentano con una squadra di studenti universitari che insieme hanno giocato solo dodici amichevoli. I sovietici sono più esperti e coesi, motivati anche da una carica ideologica supplementare: spostare gli equilibri sportivi del mondo verso Mosca. Gomelsky era l’allenatore della nazionale, ma è ebreo, e il KGB temendo che possa disertare in Israele, gli ha tolto il passaporto. In panchina, per il torneo olimpico, è andato Vladimir Kondrashin.

In finale gli Usa vanno sotto di 10 punti, ma rimontano e a 40 secondi dalla fine hanno solo un punto da recuperare (49-48). Il punteggio non è cambiato quando, a 3 secondi dalla fine, Doug Collins va in lunetta per due tiri liberi che potrebbero dare agli Stati Uniti il primo vantaggio della partita. Collins, futuro coach di Michael Jordan, li segna entrambi. Sorpasso. Vittoria. O no? Durante l’esecuzione del secondo libero, la panchina sovietica si alza in piedi: hanno chiesto un timeout, dicono, che non è stato concesso. Secondo l’arbitro, la lunga pausa per le proteste ha comunque consentito ai sovietici di stabilire una qualche strategia per la ripresa. In campo scende anche Renato William Jones, segretario generale della FIBA, che non avrebbe alcuna autorità per intervenire su un match in corso, che guarda i replay per capire da quando far ripartire il cronometro. Si riparte. I sovietici battono una rimessa lunga. Il cronometro inspiegabilmente segna 50 secondi da giocare, anche se sono solo 3, ma suona la sirena. Gli americani esultano. Troppo presto, però, perché il cronometro va fatto scattare non al momento della battuta, come è stato fatto, ma quando il primo giocatore riceve o intercetta la palla.

Si rigioca per la terza volta, e stavolta Belov va a canestro. Sono i sovietici a vincere. L’oro di Monaco ‘72 va all’Urss. Gli Usa presentano una protesta ufficiale, giudicata da una giuria d’appello composta da cinque membri. Italia e Porto Rico votano a favore; Ungheria, Polonia e Cuba, tutte nazioni nell’orbita sovietica, contro. L’appello viene respinto. “Tutto è andato seguendo strettamente le politiche della guerra fredda» ha scritto all’epoca Gary Smith su Sports Illustrated. «C’erano tre giudici del blocco comunista e il voto è stato di tre a due. L’America ha perso. L’Unione Sovietica ha vinto la medaglia d’oro e a quel punto gli americani avevano di fronte un’amara realtà. Accettare o no la medaglia d’argento?».

Non la accettano. Non si presentano alla cerimonia di premiazione e rifiutano la sconfitta. Le medaglie sono ancora conservate nel caveau del Cio. Kenny Davis, capitano della nazionale Usa, ha scritto nel suo testamento che i suoi familiari non potranno ritirarla nemmeno dopo la sua morte.

Domani la seconda parte con i boicottaggi di Mosca e Los Angeles

Alessandro Mastroluca

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