19/09/2012 18:29 CEST - L'opinione - 140 commenti

L'importanza relativa d'essere n. 1

TENNIS - E se il numero uno non fosse l’unico? Dopo questi US Open potremmo considerare Murray, Federer,e Djokovic, con Nadal forse un po' più distaccato, primi ex aequo per il 2012? Enos Mantoani

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Roger Federer (Photo by Cameron Spencer/Getty Images)
Roger Federer (Photo by Cameron Spencer/Getty Images)

Ci tiene Roger ad essere numero 1. E ci tengono anche Nole e Rafa, e anche Murray. Eccome se ci tengono.
Ma è poi così importante nel tennis? Sicuramente lo è al giorno d'oggi, e anche al giorno di ieri, ma forse non al giorno dell'altro ieri.

Già, perché la categoria mentale del numero 1 è propria dei nostri tempi. Come anche il GOAT. È un bisogno così pressante della cultura post-1968, inteso come post apertura all'era open. Siamo noi ad aver bisogno di sapere precisamente chi è il numero uno, chi è il migliore, chi è il più forte, a non ammettere la difficoltà di giudizio. O bianco o nero, o primo o niente.

Ne hanno certo bisogno anche i giocatori (per contrattare contratti), i tornei (per accaparrarsi sponsor), il business chiamato tennis (per vendere), i giornalisti e i tifosi (per parlare di qualcosa il lunedì mattino).
O forse no? Forse è un bisogno insito nell'animo umano (io sono il migliore), insito in ogni sport (altrimenti non ci sarebbero classifiche o campionati).

La questione è che prima del 1968 il tennis non era visto come uno sport. Era un divertissement delle classi più alte, sembrava: di fatto non lo era. Tutti volevano primeggiare, chi per un motivo chi per un altro. Ottusamente però si evitava di considerare l'elefante nella stanza.

Come sappiamo, le classifiche dei tennisti matematicamente compilate sono nate nel 1973. Era ed è un bisogno ormai di tutti. Ma un bisogno di comodo: come dice Rino Tommasi, il computer sa far di conto, ma non capisce di tennis.

Ma cosa succedeva prima del 1973?

Semplice, succedeva quello che succede con i commenti nei blog: ognuno diceva la sua. Erano soprattutto i giornalisti e in seconda battuta gli addetti ai lavori (manager e direttori dei tornei, giocatori, etc..) a stilare la classifica dei giocatori, ma solo alla fine dell'anno. Poco democratico, sicuramente più divertente. E sicuramente c'era un'opzione che difficilmente si verifica ora: la coabitazione al n. 1.

Le variabili erano innumerevoli, a partire dal fatto della divisione in due circuiti, uno amatoriale e l'altro professionista. E poi dalle federazioni venivano stilate le classifiche per Paese, non quelle internazionali che invece erano, in maniera ufficiosa, compilate dai più famosi giornalisti di tennis.

Andiamo però con ordine e diamo qualche esempio di quello che succedeva.

Prendiamo in considerazione, per comodità, il periodo che va dagli anni ’30 al 1968, il grande spartiacque della storia del tennis. Questo per alcuni motivi: prima degli anni ’30 abbiamo informazioni più frammentarie, il gioco era un po’ meno conosciuto, e ora non ne conosciamo benissimo neppure i protagonisti. Dal 1930, ma soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, migliorano i collegamenti tra i continenti e c’è più spazio nella società per lo sport.

Dunque, come si è già ripetuto, c’erano due circuiti, quello amatoriale e quello pro che dopo la seconda guerra mondiale in America era diventato solido e potente. E anche in Europa andava piuttosto bene. La questione era: è più forte un giocatore amatore o un pro? È più competitivo il circuito amatoriale o quello pro? È più forte il n. 1 pro o quello amatore?

Istintivamente verrebbe da dire quello professionista, ma come la mettiamo con quei grandissimi giocatori che nello stesso anno vincevano i tornei amatoriali, come Wimbledon e poi passavano ai circuiti pro? Come è possibile compararli? Pensiamo a Kramer che vinceva a fine anni ’40 prima i tornei amatoriali e poi quelli pro. Così è difficile sapere se negli anni prima del passaggio di Kramer tra i professionisti, il n. 1 di quest’ultima categoria fosse il n. 1 in assoluto (così era considerato Bobby Riggs). Di certo, è quasi unanimemente riconosciuto che dal 1948 in poi chi era il primo tra i professionisti era anche il primo nel mondo.

La questione passa ora su un altro campo: chi decideva chi è il number one?
O meglio, chi decide anche oggi chi è il numero uno? Basta davvero la classifica ATP o WTA? Si veda il caso Wozniacki di qualche anno fa.
Già, perché un conto è affidare il computo a un computer con il suo sistema di punti, ingiusto o giusto che sia, un altro è affidarlo a giornalisti o comunque a giudizi opinabili. Vi immaginate le accuse di partigianeria, di simpatie troppo accese, di sciovinismo e via così andando?

Ad ogni modo i giornalisti più accreditati erano quelli inglesi e quelli americani ed è interessante notare gli anni in cui dei giocatori venivano messi al n. 1 a pari merito. Ovviamente sono una specie di medie dei voti che si fa a posteriori, visto che ognuno indicava il suo preferito. Per esempio dal 1935 al 1936 Fred Perry e Ellsworth Vines si possono considerare i numeri uno appaiati. Nel 1937 addirittura ne aggiunsero un terzo: Don Budge. Come anche nel 1970, e si era già in era open: i tre erano Laver, Rosewall e Newcombe.

Ve l’immaginate ora Federer, Djokovic, Murray e Nadal (che ho elencato in stretto ordine di classifica attuale) messi lassù a pari merito? È un’idea poi così astrusa?
In fondo nel 2012 ognuno ha vinto uno Slam e i Master 1000 se li sono quasi equamente divisi…

Enos Mantoani

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