19/09/2012 18:28 CEST - Personaggi - 18 commenti

Il primo Slam non si scorda mai: ma poi?

TENNIS - Connors e Lendl, Murray e Borg, McEnroe e Noah. Il primo Slam è un evento indimenticabile. Ma gestire un tale successo non è sempre facile. La gloria può essere effimera o duratura, lo insegna la storia. Luca Pasta
 

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Andy Murray (Photo by Chris Trotman/Getty Images)
Andy Murray (Photo by Chris Trotman/Getty Images)

Sono le 21, minuto più minuto meno, di lunedi sera 10 settembre a New York: Andy Murray ha appena vinto l’ultimo punto della finale dell’Open degli Stati Uniti. Adesso anche lui è entrato nel club. Il club di quelli che almeno uno l’hanno vinto, di torneo del Grande Slam. In definitiva è entrato nella storia. Perché chi vince uno dei 4 grandi tornei, prima o poi viene citato, ricordato, chiamato in causa, anche dopo molti anni. Altrettanto certo però, è che la strada da percorrere per diventare un grandissimo è appena cominciata. E non è scontata. Per niente. Infatti dopo aver vinto il primo torneo dello Slam può succedere di tutto, lo insegna la storia. Il primo successo veramente grande, può provocare effetti diversi. Vi è stato chi da esso ha tratto la sicurezza in sé stesso e ha continuato senza grosse pause a vincere majors in serie, chi ha dovuto aspettare un bel po’ per vincerne un altro, chi ne è stato quasi scioccato e di Slam non ne ha vinti più, chi ne è stato appagato e lo ha visto come il punto di arrivo di un’intera carriera. Quello che è sicuro è che il periodo che segue una simile vittoria è delicato, e che va gestito con intelligenza. Così Murray dovrà fare, passata la sbornia dei festeggiamenti, delle foto, delle comparsate in televisione, e chi più ne ha più ne metta. E’ difficile pensare che il signor Lendl non lo richiami immediatamente alla realtà e non gli faccia capire, da subito, che gli Us Open 2012 sono solo il primo gradino di una lunga scala. Ma dovrà stare attento, e magari riflettere su quello che è successo agli altri, oggi come ieri.

Il primo Slam come evento precoce e foriero di una grande carriera

Jimmy Connors non era certo un tipo da essere sconvolto dalla sua prima vittoria in un major. Lui era già convinto di essere il migliore, e tale sarebbe restato per il resto dei suoi giorni tennistici. All’inizio di gennaio del 1974 vinse il suo primo Slam in Australia sull’erba di Kooyong, poi non gli permisero di giocare a Parigi per la sua partecipazione al World Team Tennis, e lui per tutta risposta vinse altri due Slam a Wimbledon e a New York. Un caso chiaro quello di Connors: assoluta fiducia in sè stesso, primo grande trionfo a poco più di 21 anni, non moltissime partecipazioni agli Slam a precedere il primo titolo (9), e quindi poco tempo utile alla formazione di un eventuale “complesso” che in ogni caso in un soggetto simile difficilmente si sarebbe formato. Quasi normale che, rafforzato nella sua esaltazione, abbia subito vinto altri major e sia stato in seguito in grado di non scoraggiarsi di fronte ad un periodo di quasi 4 anni senza Slam, da Flushing Meadows 1978 a Wimbledon 1982.

Anche “IceBorg” gestì il suo primo grande titolo con grande naturalezza. Il primo torneo dello Slam vinto da Borg fu Roland Garros 1974. Si trattava del quinto torneo major a cui lo svedese partecipava, e con la vittoria a Parigi divenne il più giovane vincitore nella storia del torneo, superato in seguito da Wilander e Chang. Un predestinato. Che infatti continuò a vincere sempre uno Slam all’anno, fino al 1977, per poi dare luogo dal 1978 al 1980 alle celebri tre doppiette Roland Garros-Wimbledon. Un altro caso di giocatore per il quale il primo successo è arrivato prestissimo, ancor prima che per Connors, e talmente forte, talmente grande e così focalizzato sul suo essere tennista, da aver reso la prima vittoria, un evento naturale, quasi scontato, e non foriero di traumi o destabilizzazioni psicologiche che si sarebbero casomai manifestate non all’inizio, ma alla fine della carriera, effetti in definitiva della precocità di quest’ultima.

La furia giovanile di Mac. John McEnroe: ancora un esempio di primo titolo del Grande Slam giunto presto e trampolino di lancio di nuovi, grandi successi. E’ il Mac capellone di fine anni settanta, che ha cominciato a stupire il mondo con il suo servizio unico, le sue voleè inimitabili, la rabbia agonistica che lo spinge verso la rete alla conquista del mondo del tennis. Alla settima partecipazione in un major, arriva a Flushing Meadows nel 1979 per John ventenne, il primo titolo, che, anche in questo caso non fa altro che rafforzare la sua spinta inarrestabile verso il trono dell’Orso svedese, che spodesterà nel giro di un paio d’anni. Un altro caso di un soggetto che non aveva dubbi dentro di sé, totalmente proteso verso l’ascesa sulle ali del talento e dell’ambizione.

Vi sono altri casi felici, nei quali il primo Slam è stato vissuto serenamente come la tappa iniziale di una grande carriera: Wilander stupì tutti a Parigi nel 1982, quando, alla sua terza partecipazione in uno major, con una calma olimpica da consumato veterano vinse il titolo a 17 e 10 mesi circa, al quale sarebbero seguiti altri 6 major, di cui tre negli anni immediatamente successivi, nel 1983, il 1984, il 1985. Un caso di maturità incredibilmente precoce. Edberg trionfò in Australia nel 1985, a poco meno di vent’anni, ed anch’egli con la sua flemma solo apparentemente segno di scarso carattere ma in realtà fattore di serenità e forza, proseguì con molti alti e pochi bassi la sua carriera ad altissimo livello.

Il caso Becker-Wimbledon 1985 ha, a mio modo di vedere, analogie con il caso Connors, non nel senso di un’età che nel caso di Becker era clamorosamente più bassa, ma nel senso di un soggetto con uno smisurato ego, convinto di essere forte, fortissimo, guidato quasi da una forza misteriosa ed inarrestabile. Becker dopo aver vinto (quarta partecipazione ad uno Slam), sul Centre Court appariva certo entusiasta di aver vinto, ma anche spavaldo, sicuro di sé, come se fosse consapevole che in fondo quanto era accaduto non poteva non accadere, data la sua forza. Non certo l’esultanza di colui che è stupito ed incredulo per l’incredibile risultato raggiunto. Tutto questo aiutò Becker dopo: finale al Masters e bis a Wimbledon nel 1986 seguirono quasi automaticamente il primo trionfo. Se Becker in seguito ebbe delle battute d’arresto, fu per suoi limiti fisici di spostamento, follie tattiche, o sue intemperanze caratteriali, ma non si trattò mai di un tipo condizionato dall’essere improvvisamente diventato un top player.

Lo stesso Courier cominciò a vincere a Parigi nel 1991, e finchè ebbe il fisico e la voglia di soffrire a compensare il relativamente scarso talento si mantenne al vertice, con quattro majors vinti in totale. Arrivando ai giorni nostri o quasi poi, l’emblema del ragazzo predestinato che, vinto il primo Slam non si è più fermato è Nadal: vince a Roland Garros nel 2005 a 19 anni (sesta partecipazione ad un major), e da allora almeno uno Slam all’anno porta la sua firma. Contraccolpi mentali dopo la prima affermazione? Nessuno, anzi, se possibile più determinazione di quanta già non ne avesse.

Sampras e Djokovic: una pausa dopo la prima volta

Pete Sampras a soli 19 anni vince l’Open degli Stati Uniti, alla settima partecipazione ad uno Slam. Una vittoria straordinaria che tutti ricordano. Sembra il preludio ad una grande carriera. Ed infatti sarà una grandissima carriera, ma sarà necessario aspettare quasi due anni per vederlo vincere una seconda prova del Grande Slam, a Wimbledon nel 1993. Un caso esemplificativo di come in certi casi una vittoria così grande avvenuta così presto e un po' inaspettatamente, vada metabolizzata. Nel 1991 addirittura, Pistol Pete non andò mai oltre i quarti di finale nei major. Sampras non era un Connors, un Becker, un Mac.

Era un mite che imparò ad essere campione dentro lentamente. Il caso di un giocatore che vince presto uno Slam e deve attendere molto per conquistarne un'altro si ritrova ai giorni nostri con Djokovic: vince in Australia nel 2008 a meno di 21 anni (peraltro alla 13-esima partecipazione in un major), ma deve compiere una lunga traversata prima di vincere di nuovo a Melburne nel 2011 e cominciare così il cammino trionfale dello scorso anno; una lunga traversata costellata anche da brutti momenti nei quali, specie nel 2008 e 2009 pareva sul punto di perdersi per strada. Il primo Slam a volte, lascia un po' sgomenti, e ci vuole del tempo per dimostrarne la non occasionalità.

Il caso Federer

E’ un caso interessante: vince il primo Slam a 22 anni, non pochissimi ma neppure tanti in un’era nella quale i bambini prodigio sono scomparsi, alla ben 17-esima partecipazione ad uno dei quattro grandi tornei. Un cammino, quello delle 16 partecipazioni precedenti, costellato di eliminazioni nei primi 4 turni, con due soli quarti di finale. Poi, dopo la vittoria di Wimbledon 2003, la clamorosa serie di trionfi che tutti conosciamo. Una relativa lentezza nell’arrivare dunque, ma non caratterizzata dalle delusioni e dalle brucianti sconfitte in finale che caratterizzano, come vedremo, Lendl, Agassi, Murray, piuttosto una progressione molto graduale. Si stenta a crederlo oggi, ma il primo Federer non era affatto calmo, pacato e riflessivo. Era impulsivo e indisciplinato. Probabilmente per anni, non è stato abbastanza maturo caratterialmente e tatticamente per vincere, ed è come se il sopraggiungere di una certa età (ovviamente tutto è relativo) gli abbia consegnato la calma necessaria per aprire la porta degli Slam. Per lui è stato decisamente più difficile il prima, che non il dopo.

Lendl, Agassi, Murray: il primo Slam come liberazione da un incubo

La storia di Lendl è ormai nota a tutti: diventa subito un top player, dalla fine del 1981 risiede stabilmente tra i primi 3 giocatori del mondo, vince due Masters ed altri grandi tornei, ma non riesce a conquistare uno Slam: perde le prime 4 finali, a Parigi con un Borg ancora a livelli d’eccellenza nel 1981, con un Connors al culmine della sua esaltazione a New York nel 1982 e nel 1983, dal più duttile Wilander a Melbourne sull’erba, nel dicembre 1983. Il 10 giugno 1984, verso le 17, è indietro di due set contro John McEnroe sul centrale di Roland Garros. E' allora, in quei minuti, che tutto cambia: rimonta e vince la celeberrima partita, 7-5 al quinto set. Non vi è bisogno ora di ricordare i dettagli di quel match indimenticabile. Quel freddo ragazzo dell'est che ha dovuto affrontare un mondo nuovo, che è stato dileggiato, deriso, né ha fatto nulla per non esserlo, che nel 1983 ha gettato la finale degli Us Open commettendo un doppio fallo sul setpoint che lo avrebbe portato avanti due set a uno contro Connors, viveva in quell'assolato pomeriggio la sua rivincita, alla 19-esima partecipazione ad uno Slam.

La paura di non farcela mai,se ne andò quel giorno, e fu sostituita dalla volontà feroce di essere il migliore. Ma non fu facile essere il migliore. Lendl perse altre due finali ed attraversò altri travagli prima di vincere un secondo grande titolo, e solo questo secondo Slam, l'Open degli Stati Uniti 1985, lo fece davvero entrare in un'altra era. Negli anni '90, Andrè Agassi sembrò in parte ripercorrere la sua vicenda, seppur in contesti e situazioni del tutti diverse: il ragazzo prodigio di Bollettieri, numero 3 del mondo a fine 1988, vincitore del Masters nel 1990, non riusciva a vincere un major: nel 1990 perse da favorito la finale di Roland Garros con Andres Gomez per poi soccombere di fronte all'uragano Sampras in quella di New York, nel 1991 si vide battere a Parigi dall'altro allievo di Bolettieri, quel Courier da sempre reputato a lui inferiore, il “parente povero” che invece era esploso prima di lui. Anzi, lui rischiava di non esplodere proprio, di rimanere sempre solo il fenomeno da baraccone con pantaloncini di jeans e le magliette multicolori.

Se la sorte riservò a Lendl di uscire dall'incubo in maniera incredibile, il modo nel quale vi uscì Agassi fu ancora più incredibile. Nel 1992, alla 15-esima partecipazione in un major, che era però soltanto la terza a Wimbledon, il kid di Las Vegas, di fronte al quale i palati fini e snob del tennis storcevano neppure troppo celatamente il naso, vinse sulla superficie che agli osservatori più superficiali appariva a lui inadatta, l’erba dei Championships: molti non avevano capito che i suoi riflessi clamorosi, il baricentro basso, le aperture rapide e contenute gli avrebbero permesso il miracolo di vincere sull’erba “vera” di allora giocando prevalentemente da fondocampo, un miracolo mai più ripetuto. Ma anche e soprattutto per Agassi, il “dopo” fu molto complesso. In questo caso, probabilmente si può dire che fu la sua vita turbolenta più che lo shock da primo major, il fattore che rese difficile per lunghi anni la sua carriera. Bisognerà aspettare più di due anni, fino agli Us Open 1994, per vederlo trionfare una seconda volta. Murray infine, ha poi percorso un cammino di questo tipo, simile a quello dei suoi due grandi predecessori, nel modo che tutti conosciamo, negli anni 2000.

Altri casi, altre storie

Potremmo poi raccontare mille altre altre storie e delineare molte altre categorie nella casistica dell’evento “primo Slam”: da coloro dai quali ci si aspettava che vinto il primo se ne aggiudicassero altri, come Ferrero, Moya, ancor di più Roddick, a coloro che ne vinsero uno quasi per miracolo, come Albert Costa o Thomas Johansson, senza dimenticare un Chang che, se apparve toccato dalla sorte nel momento della sua vittoria a Roland Garros 1989, diede poi luogo ad un’attività a livelli alti tale, che non ci sarebbe stato da stupirsi se fosse arrivato per lui un secondo grande titolo che invece non arrivò mai in altre tre finali perdute. Ci furono poi talenti naturali notevolissimi, da Adriano Panatta a Stich, a Kraijcek, per i quali arrivò una volta nella vita il torneo in cui tutto funzionava, in cui tutto girava bene, talmente bene da renderli inarrestabili, salvo poi ritornare ostaggi di quella irregolarità che non avrebbe permesso loro di firmare altri majors.

Per altri ancora il primo Slam, giunto in età matura, rappresentò non il punto di partenza, ma di arrivo di una carriera: si pensi ad un Muster ripagato dal Roland Garros del 1995 di tutti i sacrifici eroici fatti per costruirsi una carriera, più forte di ogni infortunio di ogni ostacolo, o ad un Ivanisevic che quando ormai non lo credeva più possibile, vinse a 30 anni Wimbledon nel 2001 dopo avervi perso tre finali.In questo caso è più facile gestire una simile vittoria: si è appagati, si è raggiunto il sogno di una vita, si può lasciare l’esistenza tennistica in pace con sé stessi.

Per alcuni infine, come Yannick Noah, davvero il primo torneo del Grande Slam vinto fu un evento scioccante e destabilizzante: la conquista di Roland Garros 1983 significò per lui, dopo l’immensa gioia, dover sopportare il peso e le aspettative di una nazione intera, un stress insopportabile che non seppe mai più davvero sostenere, e che lo condusse talvolta a momenti di vera depressione. L’accostamento al francese di Juan Martin Del Potro potrà sembrare ad alcuni inopportuno, se è vero come è vero che la crisi dell’argentino dopo la vittoria di New York del 2009 è stata dovuta principalmente a problemi fisici ed infortuni, ma la sensazione che la vittoria di Flushing Meadows, abbia in Del Potro provocato anche un contraccolpo a livello mentale visibile ancora oggi non mi abbandona.

In definitiva la storia ci insegna che vincere uno Slam è un evento che non lascia nel cuore e nella mente di un giocatore soltanto la gioia del momento, ma segni molto più profondi, condizionamenti psicologici positivi ma anche negativi, che possono rivelarsi difficile da gestire.

E bene che Andy Murray sappia questo, se desidera che la sera di lunedi 10 settembre a New York sia soltanto il momento iniziale di una serie di grandi vittorie e non rimanga un episodio, seppur di grande valore.
Avere Ivan Lendl vicino, con il suo realismo estremo, non potrà che aiutarlo, ma, come già ricordavo in un precedente articolo, sarà Andy stesso alla fine il fattore decisivo per il suo futuro.
 

Luca Pasta

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