Sessant'anni di Ivan Lendl, il primo della specie

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Sessant’anni di Ivan Lendl, il primo della specie

Cosa ha rappresentato il fuoriclasse naturalizzato americano per il tennis mondiale?

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Approcciare la figura di Ivan Lendl, che oggi compie 60 anni (tanti auguri, by the way), è incredibilmente complicato, specialmente per chi per motivi anagrafici non l’ha mai visto giocare mentre era in attività.

La natura di questo problema è data da diversi fattori, ma il nodo fondamentale si ritrova in una contraddizione di fondo che forse è l’aspetto più intrigante del nativo di Ostrava. La contraddizione di cui si parla è legata al modo in cui Lendl viene solitamente rappresentato, e cioè come entità monolitica, e a ciò che ha fatto e dovuto affrontare nel corso della sua carriera, e per certi versi anche dopo, che ci restituiscono una figura molto più sfaccettata. Jack McCallum, autore del meraviglioso “Dream Team”, racconto dell’omonima squadra americana di basket alle Olimpiadi di Barcellona, sostiene, probabilmente a ragione, che in quanto spettatori appiccichiamo un epiteto ai migliori giocatori, che li definisce come persone oltre che come atleti, ma trattandosi di qualcuno che è stato cristallizzato dalla notorietà planetaria, ci si aspetta che rimangano uguali per sempre, forse perché non le vediamo come persone in carne ed ossa, e sembra che Lendl sia l’epitome di questo concetto.

La narrativa sulla figura di Lendl, soprattutto per una frangia particolarmente romantica del tifo tennistico (tutta pro-McEnroe, o eventualmente pro-Connors), si sviluppa sui binari della monotonia e del cinismo, sia personali (ricordiamo quando Jimbo gli diede del “chicken”, che noi traduciamo pollo ma in questo caso vuol dire coniglio, per aver sostanzialmente perso apposta una partita al Master) che tecnici, per essere stato il padre dell’iper-professionismo contemporaneo, fondato sulla dieta ferrea del dottor Haas, sull’imperscrutabilità, e su strumenti sempre più potenti e arrotanti, che lo rendevano pressoché ingiocabile sulle superfici dal rimbalzo più regolare, vale a dire cemento e sintetico – in sostanza il nuovo power tennis sembrava cucito di misura sul suo gioco.

Proprio in quest’ottica ho riguardato un’intervista di qualche tempo fa di Adriano Panatta per promuovere “Il tennis è musica”, il testo in cui ha sublimato il misoneismo tennistico. Durante la conversazione, il miglior italiano dell’Era Open dice che la morte del suo ideale di gioco è stata “tutta colpa di Borg“, in quanto fautore di un gioco che si allontanava dai colpi piatti e rettilinei che avevano contraddistinto il primo secolo di gioco. Ora, Panatta cita esclusivamente l’Orso Svedese (un po’ perché suo contemporaneo, un po’ perché probabilmente gli fa piacere ricordare di essere l’unico ad averlo battuto nel suo regno parigino), ma ci sono pochi dubbi che al secondo posto della sua lista di apostati non possa che esserci l’uomo che ha proiettato questo nuovo stile nel mainstream del tennis mondiale (visti anche i trascorsi poco felici in Davis), vale a dire proprio Lendl, il primo, autentico attaccante da fondo, quello che aveva capito che il colpo in tospin poteva diventare un’arma di offesa, sovvertendo i preconcetti vigenti.

E a questo disprezzo si aggiungeva inizialmente lo scherno. Lendl non era bello come Borg (sia fisicamente che per il famoso dritto a sedia, nonchè per doti di volo rivedibili, che lo spinsero a incanalare l’aggressività stando lontano dalla rete), e soprattutto sembrava un perdente: solitamente si ricordano il buco nel palmarès a forma di Wimbledon e tutte quelle finali perse negli Slam (quattro prima del successo di Parigi 84, 11 in totale su 19 giocate), e quasi sempre la memoria è accompagnata dalla Schadenfreude, perché in fondo vedere la macchina che si inceppava sul più bello era divertente e per certi versi rassicurante. Eppure sembra che ci sia sempre qualcosa che manca in queste descrizioni da “sì, era forte, però…”. Innanzitutto, il valore del giocatore è fuori discussione: senza addentrarsi nei numeri, Ivan Lendl ha di fatto preso possesso della città di New York per una decade, raggiungendo otto finale consecutive a Flushing Meadows e nove (sempre di fila) al Master del Madison Square Garden, ed è tuttora il giocatore con più finali Slam giocate nell’Era Open all’infuori dei Big Three.

Ma c’è anche dell’altro. Ancora una volta, come in tante altre circostanze in cui si cerca di capire il gioco, David Foster Wallace ha trovato la descrizione perfetta, scrivendo di lui che vederlo era “fantastico ma non bello […] era come guardare ‘Il Trionfo della volontà in 3-D’“, e rimarcando che lo stile di cui è stato il pioniere è ancora una volta “fantastico, ma in modo brutale […] come vedere un filmato sovietico di una ribellione che viene sedata”. In queste similitudini c’è tanto di ciò che ha reso Lendl unico, umano, e per l’appunto tridimensionale, che gli piacesse o no, sia dal punto di vista estetico che per il rapporto con i totalitarismi.

Qualche giorno fa, ha rilasciato un’intervista a “La Stampa”, e ha confessato di essere stato “addestrato a competere per tutta la […] vita”, scelta lessicale che a mio parere ci racconta tanto di come fosse la vita di un prospetto atletico nell’Est Europa dell’epoca (basti pensare allo scandalo delle atlete della Germania Est costrette a cambiare sesso), e di quanto sia stato difficile per lui divenire fondamentalmente un esule dal 1981 in avanti in America, dove venne inizialmente ospitato dal polacco Fibak. In questo senso Lendl ha avuto una traiettoria opposta a quella di Martina Navratilova, di fatto scacciata da quella stessa Cecoslovacchia che non voleva lasciar andare un uomo che apparentemente incarnava lo sportivo ideale di Lobanovski, tutto esecuzione e volontà.

E allora forse si spiegano così quelle finali perse, che riviste oggi ci restituiscono la figura di un uomo diviso, che era stato programmato per dominare da quelle stesse persone da cui si era staccato in maniera violenta, tanto violenta da richiedere la cittadinanza nel 1987 solo per poter rappresentare il suo nuovo Paese alle Olimpiadi – i cecoslovacchi non avrebbero fornito i documenti, piccati, e la nazionalità sarebbe arrivata solo a Muro caduto, nel 1992. Ivan si sarebbe sfogato sull’altro grande cecoslovacco dell’epoca, quel Miloslav Mecir che era il contrario di lui (esteta e slovacco), e a cui avrebbe lasciato 12 giochi in due finali Slam. Chissà che allora il cambio di passo non dovesse avvenire proprio contro il più americano di tutti, Johnny Mac nato in una base militare USA in Germania, borghese, punk, geniale, urbano, popolare, sregolato, e infine rimontato in quella finale di Parigi 84, grazie anche al fischio di un microfono – forse serviva l’imponderabile per esercitare il controllo di uno che di imponderabile non aveva niente.

Si può aggiungere un ultimo elemento che secondo me complica l’assunto-Lendl. Fortuna serendipity racchette . Rivedendo su YouTube due finali di inizio carriera, una vinta in cinque contro Borg a Basilea, e una persa malamente contro Vilas a Kitzbuhel, entrambe del 1980. Ciò che colpisce è che fosse già tutto lì, grezzo, nonostante la vetusta Kneissl con cui si accompagnava: l’aggressività da fondo, l’atletismo, un proto-dritto inside-in, persino i marchiani errori a rete che non riuscì mai a correggere.
Viene allora da pensare che Lendl non sia stato progettato per il nuovo tennis in carbonio e grafite, ma bensì che il nuovo tennis sia stato una serendipity occorsa ad un ragazzo che aveva scavato uno stile personale attorno ai propri difetti. Ivan fu per certi versi fortunato, quindi, ma fu anche bravo a perfezionare un modello che ha fatto scuola – basti pensare che durante un cambio di campo con Vilas, a 20 anni, beveva Pepsi, alla faccia di Haas!

Il resto del mondo del tennis sembra condividere l’immagine di Lendl non come robot, ma come individuo che si è dato il coraggio necessario per raggiungere la vetta, e i suoi protetti di maggior spessore certamente incarnano questo identikit, ovvero Andy Murray, con cui il rapporto è stato proficuo ancorché discontinuo (derivante dal fatto che Ivan aveva già dato con le trasferte ed è uno molto affezionato al suo tempo libero, mentre Sir Andy l’avrebbe sempre voluto affianco), e Sascha Zverev, con cui è stato discontinuo e basta, se non addirittura disastroso, fra accuse reciproche di pigrizia e superficialità.

Al momento non è dato sapere se Ivan Lendl tornerà a calcare, per interposta persona, i palcoscenici del tennis mondiale. L’impressione è che sia più il tennis a volere lui che lui a volere il tennis, anche perchè il lascito principale, oltre ai soldi che lui ha gestito mercanteggiando arte, sono i dolori all’anca che lo tengono sveglio la notte, come detto nell’intervista al quotidiano torinese di cui sopra. Probabilmente a lui non interessa più di tanto la sua collocazione nel pantheon del gioco, passando gran parte del suo tempo fra Connecticut e Florida, circondato dalle sue cinque figlie e dai campi da golf, dove si alimenta il suo fuoco competitivo, ma la speranza è che la sua grandezza e la sua influenza di tennista, quasi sempre sottovalutate, trovino più apprezzamento in futuro. Tanti auguri, Ivan!

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