Fare la valigia è un’arte. C’è chi ci mette cinque minuti, chi una settimana. Poi ci sono i giornalisti sportivi, categoria a parte, che vivono metà dell’anno in aeroporto e l’altra metà in tribuna stampa. Eppure, anche con una discreta esperienza di viaggi, la valigia per dodici giorni a New York – durante lo US Open – resta un rebus che nemmeno il Times Square Crossword saprebbe risolvere.
Clima ballerino e stile “a prova di metropoli”
Partiamo dal presupposto che il clima newyorkese, a fine agosto, è un enigma. Ufficialmente è estate, quindi caldo, umidità e aria condizionata sparata come se fosse il Polo Nord. Ufficiosamente, può capitare di uscire la mattina con 30 gradi e rientrare la sera con la sensazione di trovarsi a Reykjavik. Risultato: la valigia deve prevedere tutto. Dalla camicia di lino leggera fino al maglioncino di emergenza, passando per la giacca “un po’ elegante ma non troppo” che in conferenza stampa ti fa sembrare professionale senza dare l’impressione di essere appena sceso dal volo Milano–Wall Street.
New York, si sa, è la capitale dello stile urbano. Non puoi arrivare in metropolitana con lo stesso outfit che useresti per andare a vedere il torneo di paese. Ma allo stesso tempo, guai a sacrificare la comodità: scarpe buone per macinare chilometri tra Flushing Meadows, Manhattan e il Queens, pantaloni resistenti ma dignitosi, e una serie di magliette di riserva perché l’umidità dell’Atlantico non perdona.
Professionalità tra l’abbigliamento e gli strumenti del mestiere, sempre con personalità
La valigia del giornalista da Slam deve essere un mix: professionale, certo, ma anche personale. Un dettaglio, una sciarpa colorata, una t-shirt che racconta un lato più leggero. Perché in una sala stampa affollata di laptop e volti concentrati, la differenza la fanno i particolari. E poi c’è lo stile “over richiesto”: non serve l’abito da sera, ma almeno un outfit che ti permetta di non sfigurare in caso di invito a una cena improvvisata a Midtown.
Fin qui l’abbigliamento. Ma il vero giornalista sa che la valigia non si chiude mai davvero senza gli strumenti del mestiere. Computer, ovviamente, e non dimenticate il caricatore, altrimenti la carriera finisce prima del torneo. Taccuino e penna, perché le idee migliori arrivano sempre in metropolitana, quando il Wi-Fi non funziona. Poi l’arsenale tecnologico: telefono, iPad, cuffie per isolarsi dal chiacchiericcio della sala stampa, e soprattutto lui, il vero compagno di viaggio. L’adattatore universale. Un oggetto apparentemente banale, ma senza il quale ogni trasferta si trasforma in un incubo. God save him, davvero.
Lo sport: il lusso del Central Park e… la racchetta
Perché, alla fine, il giornalista rimane anche un appassionato di sport. E allora, via con scarpe da running e completino tecnico infilati in valigia, con la speranza (o l’illusione) di ritagliarsi un’ora per correre a Central Park. Perché, ammettiamolo: dire “mi sono allenato a Central Park” ha un fascino diverso rispetto a “sono andato a fare footing sotto casa”. Non capita tutti i giorni, e in fondo basta poco per sentirsi un newyorkese temporaneo. E così, tra outfit da giorno e da sera, giacche leggere e scarpe comode, tra adattatori e caricabatterie, tra velleità sportive e necessità professionali, la valigia prende forma. Faticosamente, ma prende forma. Eppure, resta sempre un dubbio. Quello che accompagna ogni giornalista di tennis alla vigilia di ogni trasferta. La racchetta la porto o no?
Perché, a ben vedere, nessuno di noi ha mai davvero risolto questo dilemma. Da un lato, l’idea romantica di finire una giornata a Flushing Meadows e poi andare a colpire due palline nei campetti pubblici di Manhattan, provando ad ispirarsi a quelli più bravi visti tutto il giorno, dall’altro, la dura realtà: peso in più, spazio che manca, e la consapevolezza che il tempo per giocare, tra un match e una conferenza, non lo si trova mai. Ma in fondo è proprio questo il bello: ogni volta ci ripromettiamo di portarla, ogni volta ci chiediamo se vale la pena. La valigia del giornalista è questo: un esercizio di equilibrio, tra professione e passione, tra serietà e leggerezza. E ogni volta, quando finalmente si riesce a chiudere la zip, resta una consapevolezza: ci sarà ancora dello spazio? Perché sappiamo che dentro non ci sono solo vestiti e strumenti, ma dodici giorni di vita, di tennis e di New York che sono una parte del bagaglio da portar con se quando tutto sarà finito. È la bellezza e la fortuna di questo mestiere.