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Addio a Pietrangeli: la Coppa Davis come faro e la forza della passione che portò l’Italia a Santiago

Pietrangeli ha legato il proprio nome alla Davis con record imbattibili. Carattere spigoloso e mai alla ricerca di compromessi, quasi da solo si batté per giocare la finale in Cile

Ultimo aggiornamento: 01/12/2025 14:32
Di Beatrice Becattini Pubblicato il 01/12/2025
17 min di lettura 💬 Vai ai commenti

Racchiudere Nicola Pietrangeli in qualche parola stesa su un foglio, nero su bianco, sarebbe impossibile. Un personaggio totalizzante e polarizzante allo stesso tempo, che ha fatto della schiettezza la propria cifra identitaria. Negli ultimi anni è passato alla ribalta per le dichiarazioni non sempre morbide nei confronti dei giocatori italiani. Ma Pietrangeli è molto di più di qualche uscita sgangherata. Perché anche una partita di tennis non può essere ridotta a una volée mancata. Quello che Nicola ha fatto per il movimento azzurro è l’eredità più preziosa.

Sezioni
La leggenda di Pietrangeli in Coppa Davis: da giocatore a capitanoLa finale del 1976: la partita di Pietrangeli contro il boicottaggioPietrangeli: l’uomo dietro al campione

Nato a Tunisi nel 1933 da padre italiano e madre sovietica, ha sempre personificato la passione tipicamente tricolore di chi non ha interesse a piacere agli altri, ma vuole essere semplicemente se stesso. Nel suo editoriale, il direttore Ubaldo Scanagatta lo ricorda come un uomo brillante, di mondo, oltre che una leggenda dello sport nostrano. Tre volte vincitore del Roland Garros, nel 1959 con la doppietta singolare-doppio in coppia con Orlando Sirola e nel 1960 e altrettante principe di Montecarlo. Senza dimenticare i due trionfi agli Internazionali d’Italia.
Tuttavia, è alla Coppa Davis che Pietrangeli ha legato inesorabilmente il proprio nome. Ha posto l’asticella del record di match disputati nella competizione talmente in alto – 164 con 110 vittorie fra singolo e doppio – che difficilmente verrà insidiato.

La leggenda di Pietrangeli in Coppa Davis: da giocatore a capitano

Pietrangeli non ha mai conosciuto le mezze misure e non ha lasciato niente a metà. Neppure in quella Coppa Davis che, a un certo punto, gli sarà apparsa maledetta, con le due finali sfumate sul più bello nel 1960 e 1961.

Dopo una carriera di successo da giocatore, nel 1976 fu scelto come capitano per la rinascita dall’allora presidente federale Giorgio Neri, in quella che fu l’ultima intuizione di una presidenza illuminata. Pietrangeli ereditava dal suo predecessore, Fausto Gardini, uno spogliatoio diviso, quasi due squadre in una: Adriano Panatta e Paolo Bertolucci da una parte e Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli dall’altra. Al nuovo capitano poco interessava della coesione fuori dal campo. L’essenziale era ritrovare la compattezza e l’armonia affinché ognuno potesse offrire la migliore versione tennistica di se stesso.
Pietrangeli è stato l’uomo giusto al momento giusto. E, come egli stesso non ha mai nascosto, la Dea Bendata quell’anno ci mise la sua firma. Gli avversari affrontati – Polonia, Jugoslavia e i campioni in carica della Svezia – erano rimaneggiati nelle formazioni, con il polacco Wojciech Fibak e, soprattutto, Bjorn Borg fuori dai giochi, rispettivamente per scelta di programmazione e per un infortunio. Contemporaneamente poteva contare su un Panatta alla migliore stagione in carriera. Le vittorie degli Internazionali d’Italia e del Roland Garros ponevano Adriano in una dimensione altra; insieme alla vera certezza di Davis, ovvero Barazzutti, all’affidabilità di Bertolucci in doppio e alla “riserva di lusso” che dimostrò di essere tutt’altro che un comprimario, Zugarelli, furono la forza del 1976 azzurro. Senza occultare la presenza fondamentale di Mario Belardinelli, guida tecnica e demiurgo di una delle generazioni più floride della racchetta italiana. Un connubio di forze differenti, un amalgama eterogeneo di caratteri complementari.

I quarti di finale con la sempre ostica Gran Bretagna sui prati di Wimbledon azzerarono le incertezze, anche se ad attendere l’Italia in semifinale c’era l’Australia, ancorché da affrontare sulla terra rossa del Foro Italico. Quel tie è universalmente riconosciuto come una finale anticipata, il vero epilogo di quell’edizione di Davis. Ci vollero quattro giorni per decretare la nazione vincitrice: un lunedì lavorativo si trasformò ben presto in una festa. La racchetta tricolore tornava a giocarsi il titolo dopo 15 anni. Da Pietrangeli a Pietrangeli.

La finale del 1976: la partita di Pietrangeli contro il boicottaggio

Gli occhi degli appassionati di sport erano tutti per il tennis. Il 1976 non fu un anno felice per le altre discipline. Il calcio aveva ormai smarrito la bussola: all’eliminazione precoce dai Mondiali del 1974 in Germania dell’Ovest fece eco la mancata qualificazione agli Europei in Jugoslavia – e qualcuno potrà ravvisare analogie con la situazione attuale, corsi e ricorsi storici. Le Olimpiadi di Montreal rappresentarono una delle peggiori spedizioni nella rassegna a cinque cerchi che il Belpaese ricordi e perfino la Formula 1 e la Ferrari quell’anno lasciarono con il cerino in mano i tifosi, con il gravissimo incidente occorso a Niki Lauda al Nurburgring.

Il tennis, allora, era l’ultima speranza di chi vive di passione. Uno scrigno di aspettative e sogni. Perché questo dovrebbe essere lo sport. Eppure il rischio che gli italiani si vedessero privati persino della racchetta assunse contorni sempre più nitidi e drammaticamente reali.

A sfidare l’Italia in finale sarebbe stato il Cile, che non aveva neppure giocato la sua semifinale, perché l’Unione Sovietica si era rifiutata categoricamente di scendere in campo, perlopiù in trasferta, contro uno Stato dittatoriale, dove il generale Pinochet aveva usurpato il potere attraverso un golpe militare, con l’uccisione del presidente democraticamente eletto Salvador Allende.

Interrogato sull’eventualità di un boicottaggio, in conferenza stampa Pietrangeli disse di considerare dei buffoni chi mischiava sport e politica. Non andava certo per il sottile Nicola, che aveva senz’altro fiutato l’odore delle polemiche in arrivo. Perché lo scenario della finale sarebbe stato proprio l’impianto sportivo adiacente al celebre Estadio Nacional, convertito in teatro di morte e violenze feroci per gli oppositori del regime. D’altra parte, l’idea che lo sport e la politica fossero due sfere dell’agire umano separate era ormai stata superata dai fatti. Si sondarono soluzioni intermedie, come l’eventualità di disputare la sfida in campo neutro, ma non vi fu nessuna apertura in questo senso da parte della Federazione Internazionale. Se l’URSS aveva imposto dall’alto il boicottaggio, in Italia la via battuta dalle istituzioni, sportive e non, fu quella della prudenza. La FIT, la cui presidenza era ancora vacante – nel bel mezzo dell’interregno tra Giorgio Neri e Paolo Galgani – non si esprimeva, in attesa di una mossa del CONI, scettico nel decidere perché il tennis non era ancora disciplina olimpica. Anche il governo guidato da Giulio Andreotti, appena insediatosi, era rimasto silente.

Visto l’immobilismo istituzionale, nell’opinione pubblica si aprì un vero e proprio dibattito, con l’intervento massiccio della società civile, compatta per boicottare la trasferta. La diatriba si fece sempre più radicata tanto da catalizzare le attenzioni del dibattito pubblico e da portare alla creazione di due poli contrapposti pronti a confrontarsi in ogni sede.

Il CONI provò timidamente a esporsi in favore della partenza della squadra, più per riempire il silenzio proveniente dalla Federtennis, all’interno della quale il presidente in pectore Paolo Galgani stava monitorando le dinamiche che andavano plasmandosi, che per un vero interesse.
A rompere l’impasse fu proprio Pietrangeli. Il capitano di Davis iniziò così la sua personalissima battaglia nello spazio pubblico per convincere della bontà delle posizioni a favore, presenziando ovunque gli fosse possibile esprimere le proprie idee. La speranza era di cambiare l’orientamento dell’opinione pubblica, fortemente contraria a giocare. Apparve continuamente nelle case italiane attraverso la televisione, davanti a quegli spettatori che per anni avevano seguito le sue gesta sportive sugli schermi. Non esitò a confrontarsi direttamente con gli esponenti più intransigenti come l’onorevole del PCI Pajetta e addirittura con la band degli Inti-Illimani, esuli nel nostro Paese, e Domenico Modugno, una personalità che all’epoca sapeva smuovere il pubblico e aveva un’influenza tutta sua.

Nicola Pietrangeli andò avanti per la sua strada, ma era consapevole che l’ultima parola spettasse comunque alle istituzioni. Nonostante amasse intestarsi l’epilogo positivo della vicenda, la sua partita giocata nell’arena pubblica, seppur indispensabile, era del tutto secondaria rispetto a quella che si stava svolgendo nel palazzo della politica. Il cambio di rotta del PCI di Berlinguer, che appoggiava esternamente l’esecutivo e gli garantiva la sopravvivenza, si rivelò decisivo per il benestare della partenza.

Non esiste controprova – i fatti emersi negli anni corroborano l’idea che le trame politiche abbiano prevaricato le logiche sportive – ma la sensazione è che comunque l’onnipresenza tenace di Nicola sia stata dirimente. Il suo personaggio diretto e quasi mai vulnerabile nelle proprie posizioni è stato il volto di chi era a favore della trasferta. La compostezza severa unita a una tracotanza richiesta per persuadere e convincere fece vacillare anche i più accaniti sostenitori del boicottaggio.

Pietrangeli ne uscì vincitore sotto tutti i punti di vista. In cuor suo sapeva che il Cile con Jaime Fillol e Patricio Cornejo non avrebbe potuto arginare la sua squadra e per questo si batté con tanto vigore. Perché quell’Insalatiera era l’ossessione sportiva più insistente, dopo averla sfiorata in due occasioni. Era convinto che i suoi giocatori non l’avrebbero deluso. E allora doveva vincere la sua partita contro gli scettici. La storia ci restituisce un’Italia trionfatrice, nella dissonanza cognitiva provocata dalla bolla argutamente predisposta dalla dittatura cilena, interessata a propagandare un’immagine del Paese ostinatamente contraria a quanto i media andavano dicendo quotidianamente.

L’unico squarcio in quel microcosmo artefatto fu rappresentato da due magliette rosse, quelle indossate da Adriano Panatta e Paolo Bertolucci per due set nel doppio potenzialmente decisivo. Pietrangeli non ha mai creduto alla natura provocatoria del gesto. Se si fosse trattato di un atto di una protesta politica verso Pinochet, assicurava Nicola, i due tennisti glielo avrebbero detto. Così non fu e allora con spirito bonario, il capitano riteneva quel gesto una “panattata”.

Con Adriano, Nicola ha sempre avuto un rapporto ambivalente. Un istrione come Pietrangeli in alcuni momenti ha accusato l’irruenza con cui Panatta si è preso la scena tennistica. Non per invidia. Semplicemente per un aspetto del carattere mai smussato, neppure in più tarda età, al cospetto di Jannik Sinner.

Pietrangeli: l’uomo dietro al campione

Oggi che gli azzurri sono campioni ter di Coppa Davis, dare per scontato le vittorie è il rischio bellissimo che si corre. Al di là del format che ha cambiato l’essenza ultima della competizione, il movimento azzurro ha vissuto di alti e bassi per anni.

Se il tennis ha abbandonato definitivamente l’aura di unicità che lo ha circondato sin dalla sua nascita, lo si deve in parte anche all’avvento di Nicola Pietrangeli, che a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta ha svegliato le coscienze degli appassionati di sport, avvicinandoli alla racchetta.
Certo, il decennio del boom tennistico sono gli anni Settanta, ma le motivazioni non sono squisitamente tennistiche e risiedono nei cambiamenti che la società è andata attraversando in quel periodo. Poi Panatta era un’icona pop, vincente in campo e inseguito dai rotocalchi, l’espressione di un tennis sempre più popolare.

Ciononostante, la storicità della vittoria del 1976 non fu immediatamente assimilata, tanto che la squadra al rientro in patria non venne salutata a dovere. Le polemiche erano state troppo dirompenti perché quel trionfo non suscitasse un certo imbarazzo. Infatti la memoria collettiva creatasi attorno all’evento è questione assai recente. Per decenni non è stata che un segno, quasi uno scarabocchio, nel firmamento delle vittorie sportive nazionali. Eppure la portata era di quelle incredibilmente storiche.

Per Pietrangeli la Davis era tutto e di tutto ha fatto perché anche gli altri riconoscessero l’importanza della competizione, che era – ed è, seppur in versione depotenziata – l’unica forma di contrazione dell’individualità tennistica. Non a caso non è voluto mancare a Malaga quando, dopo 47 anni, gli azzurri sono tornati a sollevare l’Insalatiera. E chissà che non l’abbia vissuta come una rivincita, come quella festa mai arrivata per il trionfo di Santiago.

Non solo gioie, però. La Davis è stata croce e delizia per Pietrangeli. Da giocatore e da capitano.
Nel 1977 l’Italia avrebbe potuto bissare il successo, ma si arrese all’Australia in quel di Sydney. Come spesso accade, chi siede in panchina paga per tutti. Il capro espiatorio non va confuso con il responsabile unico. E Nicola è finito sul banco degli imputati senza essere colpevole.

Nel febbraio del 1978, durante una riunione in un albergo di Firenze dove erano presenti tutta la squadra e il presidente della FIT Galgani, fu comunicato all’ex tennista che le loro strade si sarebbero separate. Se ne andò contrariato e amareggiato soprattutto dal silenzio-assenso di Adriano Panatta, l’unico con cui non avesse avuto attriti diretti, che non prese le sue parti.

Nicola Pietrangeli uscì da quell’hotel fiorentino da profeta disarmato, velatamente accusato negli anni di avere una personalità troppo ingombrante per la posizione di capitano di Davis, che egli stesso non fece mai niente per addomesticare.
Visse il silenzio di Panatta come un affronto personale, il tradimento da parte di un fratello.

Questo era Pietrangeli. Un uomo che ha vissuto al massimo ogni avvenimento della sua vita.

Gli amori tormentati, la perdita del figlio Giorgio a soli 59 anni, un carattere che spesso a un primo impatto ha prevalso sulla leggenda sportiva.
Nel 2006 gli è stato intitolato uno dei campi del Foro Italico, che potremmo definire il terreno di gioco più suggestivo del calendario tennistico. Da vivo, una rarità – anche se non un’unicità per il tennis.
Il Campo Pietrangeli in un certo senso lo rispecchia: personalità strabordante e riconoscibile, il marmo che abbandona il simbolo di freddezza e assume il significato di fermezza tenace. E sarà sempre lì a ricordarci che l’Italia del tennis è stata fortunata.


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