Tennis USA, la rinascita passa attraverso il ritorno al college

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Tennis USA, la rinascita passa attraverso il ritorno al college

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TENNIS – Il torneo di Wimbledon ha visto ai nastri di partenza diversi giocatori americani provenienti dal circuito universitario. Douglas Robson di USA Today ha analizzato il fenomeno.

Negli ultimi 15 anni il tennis americano a livello universitario era stato considerato come una specie di garanzia per poi essere dimenticati a livello di tennis professionistico. Il torneo di Wimbledon ci sta invece dimostrando che l’esperienza nei college americani – almeno per quanto riguarda il tennis maschile – è un importante viatico per l’ingresso nel tennis professionistico.

Dei 7 giocatori americani presenti nei primi 100, 4 hanno giocato nei college. I migliori sono l’attuale n. 11 John Isner – che proviene dall’Università della Georgia – e il n. 68 Steve Johnson, dall’ateneo della California del Sud.

L’esperienza universitaria, però, non è limitata ai soli giocatori statunitensi. Anche chi non è americano ha tratto vantaggi frequentando i college. Ai nastri di partenza del torneo si sono presentati anche quattro giocatori non statunitensi: il sudafricano Kevin Anderson (n. 20 ATP che ha giocato nell’Università dell’Illinois), lo sloveno Blaz Rola (che nel 2013 vinse il campionato universitario rappresentando lo stato dell’Ohio) e i due tedeschi Benjamin Becker (che nel 2004 vinse il titolo NCAA per l’Università di Baylor in Texas) e Tim Puetz (proveniente dalle qualificazioni, che ha giocato per l’Università di Auburn in Alabama).

Tra i teenagers, quello con la classifica ATP piu’ alta e’ l’australiano Nick Kyrgios, attualmente al n. 145.

L’esperienza universitaria e’ stata perfetta per me, e sta dando buoni risultati anche a tanti altri giocatori” ha affermato John Isner, che nel 2007 ha trascinato la squadra della sua universita’ fino alla vittoria nel campionato NCAA.

Il ritorno al tennis universitario e’ stato anche alimentato dall’accresciuta fisicità del tennis moderno. “L’incremento dell’età media dei top-100 è la dimostrazione del cambiamento a livello di maturità fisica e mentale che in questo periodo richiede il tennis”, sostiene Bradley Klahn, che è stato sconfitto dal connazionale Sam Querrey nel suo match di primo turno di martedì scorso. Il 23enne Californiano sostiene che i suoi 4 anni all’Università di Stanford l’hanno aiutato a “crescere” e che non ha mai avuto l’intenzione di passare al professionismo subito dopo la scuola superiore perché sapeva di non essere ancora pronto per affrontare la difficoltà del circuito professionistico. “Non ho mai incontrato qualcuno che mi abbia detto di rimpiangere di essere andato a scuola, ma ho conosciuto persone che probabilmente rimpiangevano di non esserci andate“, afferma il n. 75 ATP.

Steve Johnson, che e’ stato sconfitto al primo turno dallo spagnolo n. 27 del mondo Roberto Bautista-Agut, ha avuto una delle migliori carriere in assoluto a livello di tennis universitario. Il 24enne californiano ha condotto alla vittoria la squadra della sua università per ben quattro anni di fila e ha vinto il titolo di singolare anche nel 2011 e 2012. “Credo che in questo momento sia difficile per ragazzi di 17, 18 o 19 anni entrare nel circuito maggiore e dominare come poteva accadere dieci anni fa” ha affermato di recente Johnson; “gli avversari sono più forti, sia fisicamente che mentalmente e non è così facile confrontarsi con loro. Credo che al college si abbia la possibilità di maturare, capire quanto significhi il tennis e cosa si voglia realizzare, almeno questo è quanto è successo a me”.

Per quanto riguarda il tennis femminile, l’università non riveste invece la stessa importanza per l’accesso al circuito professionistico. L’unica giocatrice presente nel tabellone principale di Wimbledon che può vantare un’esperienza a livello di circuito universitario è la 26enne inglese Samantha Murray (ammessa grazie a una wild-card e sconfitta al primo turno da Maria Sharapova) che si è laureata alla Northwestern University nello Stato dell’Illinois.

In passato, nei vent’anni che hanno seguito l’inizio dell’era Open nel 1968, il tennis universitario era la norma per i tennisti statunitensi; più o meno tutti i migliori giocatori del tempo provenivano dal college, da Jimmy Connors e John McEnroe negli anni ’70, fino a Tim Mayotte e Gene Mayer negli anni ’80. In seguito, i montepremi sempre crescenti e le maggiori opportunità di guadagno che offriva il circuito professionistico hanno contribuito a far sì che molti giocatori saltassero l’esperienza universitaria; ne è la prova il fatto che nessun giocatore della generazione che è esplosa negli anni ’90 – parliamo di giocatori del calibro di Pete Sampras, Andre Agassi, Jim Courier, Michael Chang – ha continuato gli studi dopo le scuole superiori. La stessa scelta è stata fatta anche dagli altri top-player statunitensi che sono emersi negli anni successivi: Andy Roddick, Mardy Fish e Robby Ginepri.

Anche il 23enne americano Denis Kudla ha seguito la strada dei suoi predecessori. Kudla, che per il secondo anno consecutivo ha raggiunto il secondo turno a Wimbledon (fermato poi dal giapponese Nishikori), è diventato professionista nel 2008 dopo aver vinto l’Orange Bowl nello stesso anno. L’attuale n. 136 ATP, dopo essersi misurato con le difficoltà che presenta il circuito professionistico, ha affermato di avere ogni tanto qualche rimpianto ma di essere comunque convinto di aver preso la giusta decisione. “Mi avevano offerto un buon contratto e ho deciso di accettarlo” ha affermato.

E’ stato proprio per evitare casi come quelli ora descritti che negli ultimi anni la USTA (l’associazione tennistica statunitense), sotto la guida di Patrick McEnroe, ha lavorato molto a stretto contatto con le università con l’obiettivo di permettere l’ingresso ad ancora più giocatori di talento nel circuito professionistico.

Anche Brad Gilbert, ex n. 4 del mondo ed ora collaboratore dell’emittente televisiva americana ESPN, proveniva dal mondo universitario; l’ex campione sostiene che il college può essere un’alternativa interessante per i giovani talenti: “Credo che possa essere un’ottima opportunità di crescita se non si è ancora fisicamente o mentalmente pronti. Inoltre, entrare molto presto nel circuito professionistico significa andare incontro a molte sconfitte che possono pesare a livello mentale, quindi il mio consiglio per i più giovani è quello di prendere in considerazione la possibilità di andare al college, almeno fino a quando non vi saranno offerti soldi a sufficienza per farvi gestire da un agente”, ha concluso Gilbert con la solita schiettezza.

Un altro giocatore americano, l’attuale n. 67 Sam Querrey, pur non avendo frequentato l’università spera che l’esempio di Isner, Johnson e Klan possa incoraggiare altri ragazzi a fare lo stesso, anche se aggiunge che probabilmente il fatto che ora si siano messi in evidenza diversi giocatori che provengono dal college sia dovuto all’attuale debolezza (in termini di classifica generale) del tennis maschile americano.

L’ultima voce a favore delle università americane proviene dallo sloveno Blaz Rola (che ha raccolto solo due games nel suo match di secondo turno contro Andy Murray); prima di frequentare il college il giovane sloveno non aveva fatto alcun progresso nel circuito minore, specialmente sul cemento: “Sui campi veloci non facevo praticamente neanche un punto. Ovviamente era un bel problema”. In seguito Rola è stato ingaggiato dall’Università dell’Ohio e da quel momento tutto è cambiato: “Mi è piaciuto tutto fin dal primo giorno, e se qualcuno me lo chiedesse rifarei tutto daccapo”.

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