Editoriali del Direttore
L’US Open che nessuno dimenticherà mai. Flavia Pennetta, Roby Vinci e Serena Williams
Emozioni indicibili, pazzesche. Un’attesa di 40 anni. Francesca Schiavone e Sara Errani non sono più sole. Un quartetto incredibile. Flavia ripensaci!

VIDEO – I dietro le quinte della finale femminile
Gli aggettivi si sprecano. Le celebrazioni anche. La soddisfazione è enorme. Unica, fino ad oggi. Irripetibile? Speriamo di no, ma molto, molto difficile. Molto più che enorme è però il grazie che dobbiamo a Flavia Pennetta e Roberta Vinci per il loro straordinario US open, e non solo per queste due giornate indimenticabili che comunque hanno fatto la storia del nostro tennis e nessuno potrà mai cancellarle.
Oggi, e non solo perché il New York Times riportava nella prima pagina sportiva le imprese di Flavia e Roberta – citando anche il vostro cronista per un paio di dichiarazioni….una delle quali era, e sarà per tutto il giorno in risposta ai tantissimi che incontrandomi mi hanno detto Great or Good Day for The Italians, “After 40 years a Good Day we probably deserved!, (dopo 40 anni un gran bel giorno forse ce lo meritavamo”) – abbiamo vissuto questa giornata come se fossimo stati finalisti anche noi. Oltre 100.000 visite al sito, una sequela di radio, decine di inviati e corrispondenti dei nostri giornali, radio e tv di base a New York venuti a vedere Pennetta, Vinci e certo anche Matteo Renzi.
Il suo è stato un roundtrip in un solo giorno, insieme a Giovanni Malagò e al presidente della FIT Binaghi, e so che in Italia qualcuno ha criticato il nostro premier…però è vero che ho visto decine di presidenti della Repubblica, primi ministri, reali intervenire a grandi eventi sportivi (non solo Pertini in Spagna 1982 per il mundial di calcio!), e ora alla rinfusa ricordo in passato di aver visto a Parigi il re Juan Carlos e la regina di Spagna al Roland Garros quando Bruguera e Berasategui giocarono la finale del 1994, ho visto Bill Clinton venire a vedere Agassi a Parigi (anche se non era una finale), i reali del Belgio per non so più quale finale fra Clijsters e Henin, reali di Olanda per Krajicek, premier australiani per i loro giocatori….ma onestamente nessuna finale di Slam è stata mai più sorprendente di quella conquistata dalla n.26 e dalla n.43 del mondo.
La finale non è stata tecnicamente granché, direi che è stata quasi più brutta che bella, ma nessuno si aspettava che fosse di grande livello, al’altezza delle due superbe semifinali giocate dalle nostre ragazze quando hanno battuto una dopo l’altra le prime due tenniste del mondo. E, nel caso di Flavia, dopo aver battuto 2 giorni prima anche la n.4. Le nostre due “bandiere” hanno così dato vita alla finale complessivamente più “anziana” degli Slam dall’epoca di Wimbledon ’77, quando Virginia Wade batté, di fronte a Her Majesty the Queen Elizabeth nell’anno del Centenario dei Championships, l’olandese Betty Stove. Le due finaliste di allora avevano insieme 63 anni e 11 mesi, Flavia e Roberta ne hanno 66 e 19 giorni. Sapevamo che sarebbe stata una battaglia di nervi. E lo è stata. Quindi non di grandissima qualità. Roberta era stanca per l’impresa del giorno prima, per mille interviste che “sì, mi hanno fatto piacere, ma sono arrivata la sera in albergo che ero morta e oggi il primo set mi sentivo stanca”. Così Flavia, più esperta a questi livelli e in questo teatro, con una semifinale meno stressante, è stata più solida e ha vinto con merito. La favorita era lei.
L’abbraccio finale fra le due ragazze, ex compagne di camera per 3 anni e mezzo e separate alla nascita da appena 65 km, quanto distano perchè Taranto e Brindisi, mentre Flavia preannunciava a Roberta quel che avrebbe detto di lì a poco, cioè del suo ritiro inatteso a chiunque non facesse parte del suo ristretto clan tecnico-familiar-sentimentale, è stato secondo me ancor più bello, più vero, più genuino, spontaneo e per nulla calcolato di quello, ormai rituale, che ha chiuso il 27mo Williams-Show o Sister’s Act che dir si voglia.
Spiego nel video – il modo più veloce per dire quello che penso quando si è sovvraccarichi di cose da scrivere e coordinare – perchè con il trionfo di Flavia su Roberta si raggiunge un obiettivo non facile da raggiungere. Quello, al di là della facile retorica da fotoromanzo, di due ragazze del Sud, di una Puglia oggi più orgogliosa che mai, capaci entrambe di lasciare un’impronta indelebile, un vero marchio su questo US open 2015. Se dico che hanno vinto tutte e due qualcuno sorriderà, ma se ha la pazienza di leggermi capirà meglio pechè lo dico.
1) Flavia Pennetta per via del fatto che è il suo primo Slam, con il colpo di scena finale del ritiro che nessuno si aspettava e che nessuno aveva mai annunciato, roba che ha fatto impazzire quei bambinoni degli americani – Pete Sampras vinse nel 2002 ma il ritiro lo annunciò un anno dopo qui nel 2003, Marion Bartoli lo annunciò un mese dopo aver vinto Wimbledon e non sul centre court mentre riceveva il prestigioso trofeo – e perchè con il ritorno fra le prime 10 del mondo, addirittura a 33 anni un posto più su del suo best ranking. n.8 del mondo ha sigillato, doppiamente almeno, questo torneo.
2) E Roberta Vinci perchè è il suo nome che verrà sempre ricordato da tutta la stampa specializzata nel prossimo mezzo secolo, quando si ricorderà che Serena Williams ebbe la sventura di venire fermata a sorpresa nella sua corsa verso uno strameritato Calendar Grande Slam a due passi dalla sua conquista, un po’ come successe a Martina Navratilova in Australia nel 1984 quando fu inopinatamente battuta da Helenona Sukova.
La Sukova è stata a lungo top-ten, però tutti la ricordano per quella vittoria su Martina Navratilova, e sono passati 31 anni. Lo stesso accadrà per Roberta Vinci a meno che Serena Williams riesca a realizzare il Grande Slam fra uno o due anni. Ma abbiamo visto quanto sia difficile. E potevamo capirlo già dal fatto che se dal 1988 e da Steffi Graf non c’è più riuscita nessuna giocatrice non deve essere una cosina semplice semplice. Martina Navratilova, che ha vinto anche 6 Slam di fila, avrebbe certamente meritato di trovarsi insieme a Steffi, Margaret Court (1970) e Little Mo Connolly (1953) fra le grandi immortali regine del tennis. E così anche Serena Williams che al di là dei 21 Slam vinti – uno meno di Steffi, ma sono sicuro che la eguaglierà e sorpasserà se non prenderà la stessa drastica decisione di Flavia Pennetta – merita certamente di essere considerata la più forte tennista della prima decade del terzo millennio. Di gran lunga. Anzi, c’è da stupirsi perché nell’arco di 15 anni abbia vinto “soltanto” 21 Slam, considerato il gap che c’è stato fra lei e tutte le altre.
Insomma Roberta è nella storia del tennis forse perfino più di Flavia Pennetta…perché, per insistere nell’esempio, quanti di noi ricordano a memoria tutte le vincitrici dell’Australian Open dal 1984 in poi, o anche dell’US Open in poi.
Flavia Pennetta non verrà certamente mai dimenticata in Italia da chiunque sia appassionato di tennis, o anche soltanto lo segua. Ma fuori d’Italia, e soprattutto negli Stati Uniti e fra gli amanti delle statistiche, Roberta Vinci potrebbe anche venire ricordata di più per aver fatto questo questo terribile, diabolico sgambetto a Serena quando ormai tutti la consideravano già Calendar Grand Slam Winner. L’aver realizzato due volte il Serena’ s Slam non la ripagherà mai a sufficienza e gli anni passano. Ha 34 anni, un fisico massiccio che necessita continui allenamenti. Non so, a questo punto, se ce la farà mai. E proprio quel pensiero la deve aver angosciata al punto da renderla più tesa di una corda di violino contro Roberta e da farle fare tantissimi errori davvero inconsueti (senza nulla togliere a Roberta che meglio di così non poteva giocare “Il match della mia vita, il più bel momento della mia vita”).
Con la sensibilità che contraddistingue le persone di tatto, Roberta ha avuto parole, e soprattutto sinceri sentimenti, di solidarietà per Serena: “Poveretta – le è scappato detto in conferenza stampa – le ho distrutto un sogno, immagino che sia incavolata nera, quando la incontrerò – e Roby si copre gli occhi con le mani come per mimare la necessità di nascondersi – le dirò ciao, è ovvio, ma certo non le dirò nulla di questa partita. Temo che non se la potrà dimenticare facilmente…forse mai”.
Devo dire che non ho fatto il tifo per nessuna, ma sono contento per Flavia che abbia coronato il sogno di vincere uno Slam. Ho sempre avuto grande, grandissima simpatia per lei (anche se non mi ha mai invitato alle sue spaghettate con Di Palermo e soci in Australia!) , e devo dire che diversamente da Francesca che è istintiva ed umorale e quindi potevi trovarla in gran buona giornata come in cattiva, può essere simpatica un giorno e insopportabile un altro – e per questo talvolta ci sono stati anche piccoli scontri od incomprensioni, dovuti in parte anche ad una certa difficoltà espressiva (soprattutto agli albori della sua carriera) – Flavia è sempre stata un modello di simpatia e comportamento. Questione di carattere certo, ma bravissimi anche i genitori, Oronzo e Concita, che l’hanno tirata su così bene. Oronzo lo conosco da una vita, è stato un discreto giocatore, grande lottatore, e anche lui come sua moglie sono sempre stati inappuntabili. Appassionati tifosi della figlia, ma sempre con il dovuto garbo e distacco (anche se papà ha spesso sofferto fino allo spasimo).
Flavia ha vissuti anche momenti difficili, ricorderete la “brutta sorpresa” che le fece il suo precedente fidanzato Carlos Moya (2007), quando loro due convivevano e si parlava quasi apertamente di un possibile matrimonio. Uno choc micidiale, che le fece perdere sonno, chili, serenità, partite, posizioni in classifica. C’era chi la dava per dispersa nelle retro vie del ranking Wta. Nel luglio 2013 pareva quasi sul punto di ritirarsi. “Deciderò a fine anno”. Poi raggiunse la sua prima semifinale dell’US open.
Sono sempre stato pieno d’ammirazione per come è riuscita ad uscire da quel terribile, complesso trauma, reagendo alla grande, al punto anzi da diventare anzi lei la prima tennista italiana a fare l’ingresso fra le top-ten. Stimolando Francesca Schiavone a fare altrettanto e perfino meglio. E Francesca ha poi fatto la stessa cosa con le altre, con Sara, con Roberta. E poi, di seguito per Flavia eccola diventare la n.1 del mondo in doppio in coppia con Gisela Dulko, 10 tornei vinti prima dell’US open con la perla del Premier Mandatory di Indian Wells, quattro Fed Cup, la semifinale all’US Open 2013 che sembrava dovesse restare per sempre – a 33 anni compiuti – come il suo miglior exploit.
E’ sempre stata sorridente, disponibile, educata, intelligente. Non c’è ragazza nel circuito che la trovi antipatica, scostante.
Io mi ero molto sorpreso nei giorni scorsi quando l’avevo sentita dire un qualcosa che è in contrasto con quanto dicono un po’ tutti i tennisti, e cioè che “Allenarmi mi è sempre piaciuto, non mi è mai costato nulla anche se dovevano essere 4 ore pesanti prima con Gabi (Urpi) poi con Salva (Navarro). Ma competere invece sì, certe volte non avrei proprio voluto scendere in campo.”
Ecco, forse da quelle parole avremmo dovuto capire – con un po’ più d’intuito – quello che stava maturando nella testa di Flavia (che peraltro, se leggete o ascoltate la sua intervista, dice di averlo deciso durante il torneo di Toronto), perché io ho conosciuto centinaia di giocatori che dopo anni di sacrifici non avevano più voglia di allenarsi. E anche di viaggiare. Ma la competizione ce l’avevano nel sangue, e avevano sempre voglia di competere. Flavia invece evidentemente sente la competizioni in modo diverso. Ha deciso di smettere. Il suo annuncio, comunicato a sorpresa perfino a Roberta con la quale prima di questa finale ha vissuto dozzine e dozzine di incontri sul campo da tennis e molti di più fuori dal campo se si pensa che per tre anni e mezzo divisero la stessa camera all’Acqua Acetosa quando erano “convocate” dalla Federazione del presidente Paolo Galgani -15 anni fa avevano vinto il Roland Garros junior – beh ha colto in contropiede tutti noi. Lei lo aveva detto solo ai genitori, alla sorella, all’allenatore e al fisio, a Fabio (che invece ci ha detto di averlo saputo ieri mattina…chissà perché?).
Ci siamo rimasti tutti di sasso, pur ammirandola per il coraggio (ragazzi, sì, ce ne vuole quando sei sulla cresta dell’onda, quando hai appena vinto uno Slam e sei tornata tra le top-ten e ogni anno che giochi anche se tu dovessi perdere sempre potresti portare a casa fra premi, sponsor etcetera 2/3 milioni di euro) e la personalità. Vi dico che quando l’ho scritto in chat a mia moglie lei mi ha risposto: “Grandeee!!! Anch’io farei proprio come lei. Bravissima!”
Però mia moglie a tennis non ha mai giocato, non ha vissuto nello sport come sempre Flavia dacchè aveva 9 anni e incontrava a Brindisi, nel circolo di casa e di suo papà presidente, Roberta.
Molti campioni non sanno smettere nemmeno quando perdono, hanno paura di aprire un’altra pagina della loro vita. Forse Flavia sogna di diventare mamma, di mettere su famiglia. Ha 33 anni e la si deve capire.
Però, però…io ho capito parlando con Matteo Renzi che si è trincerato dietro un toscanissimo “Io non ci voglio mettere il becco” ma ammiccando a Giovanni Malagò…che il CONI e la FIT faranno di tutto per farle cambiare idea.
Intanto, rispetto a quanto detto sul campo, poi si è appurato che Flavia, oggi sesta nella race, terminerà l’anno agonistico sperando di qualificarsi per le finali WTA di Singapore.
Poi c’è il discorso olimpico che preme a CONI e FIT, soprattutto perché dal tennis non è mai arrivata neppure una medaglia.
Fra le prime dieci coppie del mondo, sono più quelle che vedono a fianco tenniste di nazionalità diverse che della stessa.
L’opportunità per vincere una medaglia nel doppio, stante l’attuale fase di stallo fra Errani e Vinci (“Ma io non mi metterei davvero nel mezzo, farei di tutto perché tornassero insieme”) è tale per cui le pressioni perché il suo ritiro venga rinviato saranno enormi. Vedremo se resisterà.
Diciamo che Flavia ha ufficialmente dichiarato “Questo è il mio ultimo US open”. Quindi in teoria, poiché a Rio si giocherà d’agosto e prima dei Giochi, Flavia potrebbe anche esserci. Anche perchè se ci fosse l’Italia potrebbe schierare due coppie certamente competitive. Vinci-Knapp lo sono. E ripeto: togliete fuori tutte le coppie di nazionalità miste e di medaglie potremmo vincerne addirittura due.
Premesso e detto che questo fatto delle medaglie cui il CONI e le federazioni danno tanta importanza – magari per strappare qualche contributo in più che poi viene investito con la nota discrezionalità -a me fa invece un po’ sorridere, io sarò certamente fra quelli che si augurano che Flavia ci ripensi. Se non dovesse esserci più, il suo sorriso, il suo sense of humour, direi la sua bella freschezza tipicamente mediterranea, la grazia che ha sempre avuto anche se accompagnata da una grandissima grinta, dolcezza e sensibilità, mi mancheranno moltissimo.
Per una volta, ma una volta sola prometto, starò dalla parte di Binaghi (e Malagò) nei loro tentativi di farle cambiare idea. A Rio ci andrò anch’io e fare la cronaca di un match da medaglia mi piacerebbe! In fondo anche Roger Federer, che di anni ne ha 34, ha sempre fissato come suo primo obiettivo “l’ arrivare almeno fino a dopo le Olimpiadi di Rio”. Perché no anche Flavia? Se invece non ci darà retta…beh ancora una volta, l’ennesima, grazie davvero di tutto. Flavia ha voluto salutarci nel tuo momento migliore, da grande, grandissima. “Ho avuto tutto quello che volevo, anzi di più…”. Vero. Siamo noi che…non vorremmo accontentarci mai, perché sappiamo che nei giardini italiani di Flavie, ma anche di Roberte, di Sare e di Francesche, non ne nascono mai abbastanza. Tutte e quattro ci avete regalato momenti emozionanti, indimenticabili. E noi, io, appunto, non vi dimenticheremo mai.
Editoriali del Direttore
È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
Australian Open
Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT
I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.
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Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.
Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.
Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.
Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.
Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?
A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.
Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.
Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.
Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.
Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.
Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.
Quelle ultime due lettere, A e T, stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.
Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.
Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.
Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set- a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizio. Mai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.
Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.
Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.
Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas.
Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.
Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.
I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.
Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.
Australian Open
Australian Open: Sabalenka sugli scudi. Ha vinto il miglior servizio o il miglior dritto? E l’assenza di inno e bandiere bielorusse ha senso?
Hanno vinto…gli studi biomeccanici della regina 2022 dei doppi falli. Ma fra dritto e rovescio, quale è il colpo da fondo di solito più decisivo? Il duello Djokovic-Tsitsipas suggerisce una risposta sbagliata

La nuova campionessa dell’Australian Open, Aryna Sabalenka, è una ragazza che l’anno scorso aveva vinto…la classifica di chi aveva fatto più doppi falli fra tutte le prime 100 tenniste della WTA.
Roba da far arrossire Sascha Zverev. Aryna, che diventa la seconda bielorussa a vincere uno Slam in Australia dieci anni dopo Vika Azarenka, di doppi falli ne aveva commessi ben 427 nel 2022, a una media di 8 a match. Ma lo scorso anno, durante lo US Open, subito dopo aver perso dalla Swiatek, lei che ama farsi chiamare “Tigre” –e che si è fatta fare un tatuaggio di una tigre sull’avambraccio sinistro “perché mi deve ricordare di lottare sempre come una tigre…”- aveva deciso di mettersi a studiare la tecnica della sua battuta con uno specialista di biomeccanica, con due obiettivi: 1) ritrovare percentuali migliori sulle prime palle di servizio 2) servire seconde palle meno aleatorie.
Prima della finale il coach della Rybakina Stefano Vukov aveva dato l’aria di mettere le mani avanti, quasi anche a voler mettere maggior pressione su Aryna: “Il risultato dipenderà da chi servirà meglio”.
E quello della Sabalenka, Anton Dubrov: “Vincerà chi saprà controllare meglio le proprie emozioni”. Anche questo, per la verità, sembrava più un messaggio rivolto alla sua “assistita” piuttosto che a Elena Rybakova, ragazza piuttosto introversa che sembra spesso anche fin troppo in controllo dei suoi nervi. Almeno all’apparenza, perché oggi l’ho vista spesso parlare con se stessa dopo alcuni errori.
Beh, in questa finale vinta 4-6,6-3,6-4, Aryna ha perso il primo set della finale e il primo dell’anno, ma dopo è riuscita abbastanza bene a controllare le proprie emozioni fino a quando – a seguito dell’ennesimo dritto lungo della Rybakina (decisamente il colpo più incerto della kazaka) sul suo quarto matchpoint e dopo che sul primo aveva commesso un doppio fallo – si è lasciata andare lungo distesa sul campo centrale della Rod Laver Arena coprendosi il volto e piangendo come un vitellino, con tutto il petto percorso da sussulti irrefrenabili.
Direi che lo studio ha pagato – soprattutto in percentuale di prime palle, il 65% contro la Rybakina che si è fermata al 59%; la seconda palla invece secondo me necessità di studi ulteriori: è troppo piatta, c’è poco lift – perché durante tutto l’Australian Open di doppi falli Iryna ne ha fatti “soltanto” 29 in 7 partite. Quindi è scesa a 4 di media a match.
Vero, però, che le prime sei Aryna le ha vinte tutte in due set e sempre perdendo pochi game, così come aveva vinto in due set tutte le partite giocate al torneo di Adelaide. Oggi che la partita è durata 2h e 29 minuti per 3 set, i doppi falli sono stati 7, non pochissimi, però sono stati bilanciati da 17 ace (mentre la Rybakina ne ha fatti 9 e un solo doppio fallo: insomma la forbice dice +10 per gli ace a favore della ragazza bielorussa, + 6 a favore per i doppi falli a favore della kazaka) e poi non so dirvi quanti siano stati i servizi immediatamente vincenti, ma in quelle 70 volte in cui ha messo direttamente la prima ha fatto 50 punti. Sospetto che i servizi vincenti che siano stati parecchi.
Quindi il servizio ha svolto un ruolo importante in un match caratterizzato da pochi break, cinque in tutto in 29 game, come vediamo di solito accadere più in un match di uomini piuttosto che di donne.
D’altra parte le due ragazze finaliste hanno un fisico non così comune per il tennis femminile: un metro e 84 centimetri la Rybakina, un metro e 82 la Sabalenka che ha anche due spalle e una potenza che non tanti tennisti di sesso maschili possono vantare e disporre.
I servizi della Sabalenka sfiorano i 200 km orari e fanno male. Se un numero sufficiente di battute le sta dentro, strapparle il servizio è tutt’altro che semplice. Infatti la Rybakina c’è riuscita solo due volte pur essendosi procurata 7 pallebreak, entrambe nel primo set. E poi più.
Con le sue possenti, fracassanti risposte, invece la Sabalenka di palle break ne ha conquistate 13 e dopo l’inutile break del primo set per risalire dal 2-4 al 4 pari, un break a set nei due set successivi le sono bastati per vincere il match e conquistare il suo primo Slam alla sua prima finale e dopo tre stop in tre precedenti semifinali Slam.
Di solito, se fra due giocatrici di simile livello (ma vale forse ancor più per i giocatori) una ha un grandissimo dritto e l’altra ha un grandissimo rovescio, dai tempi di Steffi Graf (anche se Chris Evert potrebbe aver argomenti validi per obiettare), vince quella con il miglior dritto.
Il dritto, in genere, procura più punti. Tant’è che salvo poche eccezioni se a un tennista si offre una palla a mezza altezza e a metà campo, è più normale che il tennista giri attorno alla palla per schiaffeggiarla con il dritto piuttosto che con il rovescio. Il dritto è un colpo più dirompente. E’ più normale schiacciarlo dando anche una spallata. Ma su questa tesi sono più che aperto ad aprire un fronte di discussione e contradditorio…
Ora ci sarà chi, alla vigilia della finale maschile fra Djokovic e Tsitsipas mi obietterà che Djokovic è il favorito anche se il greco ha il miglior dritto e il serbo il miglior rovescio, ma io a mia volta potrò controbattere che Nole fa comunque di solito più punti vincenti con il dritto che con il rovescio. Vedremo domani (ore 9,30 su Discovery-plus).
Intanto chiudo il discorso sulla finale femminile osservando che la bielorussa Sabalenka non ha potuto godere né dell’inno nazionale a celebrare il suo trionfo, né della bandiera bielorussia sul tabellone e sul palmares dell’Australian Open accanto al suo nome. Magari fra qualche anno ricomparirà al posto di una bandiera bianca. E chissà poi che cosa deciderà Wimbledon quest’anno. Molti auspicano un ripensamento. Non i tennisti ucraini. La Kostyuk, sconfitta in semifinale nel doppio femminile, ha chiesto agli inglesi di non fare marcia indietro.
Io ripenso con piacere a quando l’indiano Bopanna e il pakistano Qureshi si sono messi a giocare il doppio assieme.
Ma fra Russia-Bielorussia e Ucraina la guerra è ancora purtroppo così terribilmente virulenta, orribile oggi perché possano essere dei tennisti i primi a soprassedervi, a non farci caso. Anche se potrebbe essere un gran bel messaggio.
La newsletter Slalom.it di Angelo Carotenuto ha riportato un articolo del Sydney Morning Herald secondo cui “Sopprimendo le loro bandiere (di russi e bielorussi), i dirigenti maldestri offrono solo più fiato al loro vittimismo. Che si tratti di Australia, Parigi, Londra o New York, l’anno scorso ha dimostrato che più bandiere vengono bandite dagli eventi sportivi, maggiore è la sfida che producono. Quanto più il mondo condanna il nazionalismo, tanto più acquistano forza coloro che ci credono. Chiediamolo agli ucraini”
Comunque sia quando hanno chiesto a Aryna Sabalenkaq, nuovamente n.2 del mondo “nel giorno più bello della mia vita” (la Rybakina sarà top-ten, ma sarebbe stata top-five se avesse potuto contare anche i 2.000 punti di Wimbledon 2022) se non le sembrasse strano aver vinto uno Slam senza una sola bandiera bielorussa e neppure una menzione alla bielorussa, lei ha risposto con un sorriso: “Credo che tutto il mondo sappia che sono bielorussa, non vale la pena di aggiungerlo”.