La Piccola Biblioteca di Ubitennis: Borg, Wilander, Edberg e la Swedish revolution

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La Piccola Biblioteca di Ubitennis: Borg, Wilander, Edberg e la Swedish revolution

Venerdì letterari. Per la sempre meno Piccola Biblioteca di Ubitennis (40 volumi recensiti e consultabili nell’archivio) presentiamo un libro tutto svedese che ripercorre attraverso la storia di Borg, Wilander e Edberg quella Swedish revolution in grado di trasformare una piccola nazione nella capitale mondiale del tennis per un ventennio

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Holm M. e Roosvald U. (2014), Game. Set. Match. Borg, Edberg, Wilander e la Svezia del grande Tennis, add editore, Torino 2016

Più o meno è finita così: un Borg disintossicato dalla vita gioca ancora due volte a settimana in uno vecchio stadio senza telecamere, Wilander gira l’America su un furgone ascoltando Bob Dylan e insegnando tennis a sconosciuti ed Edberg, dopo la cura Federer, ha imparato a tirare dei gran dritti. Intanto nel 2016 il migliore giocatore svedese semplicemente non esiste. Della grande rivoluzione bionda in grado di portare anche cinque giocatori nei primi quindici del mondo non rimane traccia se non nei video su youtube e in un immaginario collettivo che proprio grazie alla figura enigmatica e totemica di Borg si è innamorato del Tennis.

Il libro che recensiamo per la nostra Piccola Bibioteca di Ubitennis racconta la stagione irripetibile che ha trasformato la piccola Svezia nella capitale tennistica del mondo. Attraverso le vicende e i ricordi dei tre Number One, Holm e Roosvald ricostruiscono il clima culturale dei fantastici anni Ottanta e dintorni. Non so voi ma pochi sportivi mi hanno affascinato come Borg. C’era in quella impermeabilità qualcosa di magnetico, enigmatico e irresistibile. Una specie di protomanuale della comunicazione. Zero parole, massima visibilità. Più che un campione un puro logo. Un’icona che trascendendo l’uomo e il gesto sportivo entra a gamba tesa nel costume e nella realtà quotidiana di migliaia di persone. Più o meno il sogno bagnato di ogni prodotto pubblicitario. Ma di Borg, come dei Beatles, si è già detto e scritto già di tutto. Tranne forse raccontare la storia da un punto di vista culturalmente “interno”. Credo sia il grande merito del libro in questione. Guardare Borg con occhi svedesi e incastonarlo in una realtà storica socialdemocratica che ha prodotto un’incredibile trilogia di numeri uno, prima dell’attuale vuoto cosmico.

E in quello sguardo viene individuata l’ape regina del tennis svedese, quel Re Gustavo V che giocò fino 92 anni, prese l’eretico Barone Von Cramm sotto la sua ala protettrice e di fatto impose, sfiorando il ridicolo, quello sport aristocratico in una realtà socialdemocratica. A raccogliere i frutti di quest’ossessione fu proprio il buon Bjorn Rune Borg che viene raccontato dai suoi anni di formazione. L’ostinata dedizione, l’eresia dei gesti, il miracolo di concentrazione e intensità atletica, il bum di vittorie e infine quello mediatico che lo trasformarono in un idolo per migliaia di ragazze post rivoluzione sessuale e in un uomo magico per un mercato che annusa subito l’affare. Molti dei silenzi di Borg vanno imputati al dibattito tutto svedese se fosse giusto che l’uguaglianza economica raggiunta faticosamente dalla nazione, grazie a una pesante tassazione e relativa ridistribuzione dei servizi sociali, potesse essere messa in discussione da un atleta appena diciottenne che per sfuggire al fisco si rifugiò nel paradiso fiscale di Montecarlo. Oggi il dibattito suona ridicolo ma il professionismo era una creatura giovane anche per il tennis, uscito da poco dagli anni bui del dilettantismo ipocrita. Se Wilander, solo qualche anno dopo, ha potuto percorrere in maniera indolore la stessa strada è grazie al prezzo pagato dalla grande chioccia bimane.

Non è facile guardare i campioni dentro la loro epoca. Uno dei motivi apparentemente misteriosi su perché Borg fu per così poco tempo numero uno è da ricercare in questa direzione. Borg giocava pochissimi tornei, vincendoli quasi tutti, e partecipava a un numero enorme di esibizioni. Il fulmine McEnroe sparigliò le carte in tavola proiettandolo in una fase complessa fatta di feste, amicizie e immortalità sportiva.

Con lo stesso tono viene raccontata la storia apparentemente minore di Wilander, svelando tratti inediti della sua personalità. Dietro quella maschera di compostezza batteva il cuore di un uomo curioso innamorato della musica e della vita vagabonda. Educatamente rassegnato a essere un numero due, il prezzo che pagò per salire sul tetto del mondo, ed eguagliare almeno per un giorno Borg, fu altissimo. La sua vita personale entrò in conflitto con quella sportiva aprendola però a un’altra dimensione “la mia più grande fortuna? Non aver guadagnato abbastanza per potermi permettere di vivere senza lavorare”. In contemporanea viene descritto il clima di cameratismo di una nidiata di campioni cresciuta assieme: Nystrom, Penfors, Carlsson, Jarrid, Gunnarsonn e infine la parabola di Edberg, il figlio più anomalo. Rovescio a una mano e volée celestiali. Il capolinea di una scuola irripetibile che, assieme al ricordo luminoso, ha lasciato in eredità al tennis una grande educazione di cui Roger Federer è probabilmente l’erede più devoto e riconoscente.

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