Djokovic, è un problema di donne (Roberto Zanni, Corriere dello Sport)
Tutto sarebbe cominciato sotto rete, c’è anche un video che risale a nemmeno un paio di anni fa. Novak Djokovic era in India, dicembre 2014, invitato assieme ad altre star da Mahesh Bhupathi, giocatore indiano noto per i suoi successi in doppio misto, otto volte vincitore di uno Slam. Bhupathi aveva organizzato un torneo, l’International Premier Tennis League, così assieme a Djokovic e Federer c’erano anche le celebrità locali, tra le quali Deepika “Dippy” Padukone, trent’anni (uno in più del tennista serbo) attrice di Bollywood, la Hollywood indiana, che si mise poi a fare qualche palleggio a rete anche con il numero 1 al mondo. All’epoca Nole era fresco sposino, le nozze con la fidanzata di una vita, Jelena Ristic, le aveva celebrate in luglio Ma evidentemente quell’incontro non l’aveva dimenticato, perché nel marzo scorso, ecco ancora Djokovic-Padukone, un… doppio misto, ma al “The Nice Guy”; locale trendy di Los Angeles, pizzicati mentre lasciavano il ristorante. Quell’uscita (e probabilmente soprattutto il dopocena) non sono passati sotto silenzio in casa Djokovic, perché Jelena non solo avrebbe minacciato il divorzio (la coppia ha un figlio, Stefan, di 22 mesi) ma avrebbe anche chiesto la separazione di un conto corrente bancario dove sono depositati 150 milioni di dollari Ecco allora quali sarebbero i problemi personali diDjokovic, eliminato a Wimbledon come alle Olimpiadi, a causa dei quali dopo lo Slam londinese ha anche rinunciato alla Davis, mentre la moglie se n’era andata in vacanza da sola.
Nole, dopo aver battuto il polacco Janowicz lunedì sera, si è messo a cantare in mezzo al campo per la gente dell’Arthur Ashe Stadium, ma non per la moglie. Jelena infatti, a differenza di quanto accaduto a Wimbledon, era nel box del marito, ma ha seguito l’incontro solo per un po’: poi se n’è andata Chi la conosce bene, o almeno era abituato a vederla sempre in questi anni a New York, ha riferito che Jelena sembrava triste, depressa, dietro un paio di vistosi occhiali scuri, mentre Dippy Padukone impazza nel web peri suoi successi cinematografici e per quelli ottenuti su Instagram: è al top della graduatoria ‘Ootd’, miglior abbigliamento.
«E’ difficile tornare indietro e parlare di questo – aveva detto un insolitamente dimesso Djokovic alla conferenza stampa di presentazione degli U.S. Open riferendosi a Wimbledon -: non è stato un infortunio, si trattava di questioni private. Tutti noi abbiamo problemi privati che dobbiamo ammontare e superare per evolverci come esseri umani Lo è stato anche per me, la cosa si è risolta e la vita sta continuando (…)
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I “duri” Djokovic e Nadal: quei campioni incerottati (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)
Durante la lunga attesa nel tunnel, Novak Djokovic raccontava che le canzoni di Phil Collins, protagonista dello spettacolo prima del suo match d’apertura, lo stavano caricando a mille. «Sono un suo grande fan», spiegava. In verità, era nervoso: scalpitava, perché non sapeva che cosa aspettarsi. Le ultime sue memorie in campo erano il polso sinistro dolorante a Rio, la conseguente eliminazione al primo turno per mano di Del Potro e le lacrime. E poi qui a Flushing, il sorteggio gli aveva teso una piccola trappola: il polacco Jerzy Janowicz, uno un po’ matto, numero 246 del mondo, ma semifinalista a Wimbledon nel 2013. Dopo cinque game, Nole ha creato un po’ di suspense: ha chiesto l’intervento del fisioterapista e si è fatto massaggiare il bicipite del braccio destro, quello sano. Prima di cedere il secondo set (il primo lasciato dal serbo in un debutto di Grande Slam dagli U.S. Open 2010), ha digrignato i denti bianchissimi in una smorfia di dolore dopo un doppio fallo decisivo. Ha sciolto il braccio, ma ha sbagliato il dritto. In tribuna il suo allenatore Boris Becker si mangiava nervosamente le unghie. Segnali importanti. Come il servizio, che nell’ultimo set andava a 160 km./h, decisamente più lento rispetto ai suoi standard. Non era contento, Nole: si era spesso coperto la faccia con l’asciugamano. Poi, steso il rivale, ha ritrovato in parte il buonumore, come se si fosse tolto un peso. Al microfono lo hanno quasi obbligato ad accennare «I can’t dance» dei Genesis, cantata da Collins. Ha abbozzato pure un paio di passi di balletto. E’ venuto giù lo stadio.
Poco dopo, però, tornava cupo. Non sopporta più la stessa domanda: «Come sta?», chiesta con insistenza, e non certo solo per cortesia, in sala stampa. La risposta era secca: «Non credo sia necessario parlare sempre del mio stato di salute. Ho vinto, vado avanti alla giornata». Poi si ammorbidiva un pelo: «Mi sono fatto massaggiare per prevenzione. Va tutto bene, soprattutto il polso sinistro». Aggiungeva: «Dopo tutto quello che ho passato, mi ha fatto piacere mettermi alle spalle questo primo ostacolo. State a sentire: ogni giorno la vita ci presenta qualche difficoltà che dobbiamo accettare, affrontare e superare».
Qualche ora prima, il fastidioso «how are you?» l’avevano posto all’altro grande «ammalato»: Rafa Nadal. Perfettamente giustificato. Perché quando lo spagnolo si tergeva il sudore, sotto il lungo bracciale s’intravedeva la fasciatura che gli proteggeva il polso sinistro. L’ennesima magagna fisica che lo ha costretto al ritiro al Roland Garros e gli ha impedito di andare a Wimbledon, prima di ripresentarsi a Rio. «Rafa, come va?». «Né bene né male. Conta aver vinto, ne sono felice: era importante», diceva. Poi spiegava che ha soltanto bisogno di partite: «E’ dura ricominciare dopo essermi fermato per due mesi e mezzo (si riferiva alla pausa pre Olimpiade, ndr) nel mezzo della stagione: senza colpire mai un dritto, neppure in allenamento. Devi ritrovare la normalità di movimento, che perdi quando sei dolorante. Miglioro ogni giorno, devo solo riprendere fiducia». Un rimpianto: «Ho sbagliato a giocare a Parigi, avrei dovuto fermarmi prima per evitare di aggravare l’infortunio che già mi ero procurato (…)
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Se l’eroe si chiama Giannessi (Claudio Giua, repubblica.it)
Quattro anni fa Alessandro Giannessi sfiorò l’impresa che gli avrebbe garantito il diritto alla ricorrente citazione nei ristoranti dei circoli: “Te lo ricordi? Dai, arrivò tra i Top 100 qualche anno fa!”. Lo spezzino, che allora doveva ancora compiere ventidue anni, si fermò però a quota 126 a causa di guai sia fisici (muscolari e respiratori), sia di tenuta nervosa. Nel tentativo di riguadagnare posizioni nel ranking ATP, si sottopose anche alle cure di Fabrizio Fanucci, esperto nei recuperi impossibili, che nel suo team fiorentino l’affiancò a Volandri, Starace e qualche altra vecchia gloria. Niente da fare.
Quanto gli è accaduto successivamente è un copione visto cento volte con altrettanti colleghi di Giannessi. Per stare a galla, il forte mancino – al quale anch’io, a suo tempo, avevo pronosticato un futuro tra i cinque italiani migliori – ha dovuto rassegnarsi a remare nei ben organizzati Challenger europei e in quelli polverosi nel Maghreb e Sudamerica che solo il mio amico Giovanni e pochi altri seguono con assiduità via streaming. È la vita grama dei tanti che non s’affacciano mai sotto quota 130 al mondo.
Alessandro ha tentato più volte di entrare nei main draw degli Slam e dei Masters 1000. Testardo, la scorsa settimana ha azzeccato la serie esaltante per la quale ha lavorato duro in anni oscuri: le vittorie nelle “quali” degli UsOpen su Ramanathan, Sugita e Kamke, un solo set ceduto, l’ingresso tra i magnifici 128 di New York, il salto in avanti di settanta posizioni nel ranking mondiale (ora è 193). Merito anche della recente collaborazione con il tecnico palermitano Paolo Cannova, che allena Salvatore Caruso.
Ieri, seconda occasione in carriera per lasciare un segno duraturo nella storia del tennis azzurro: primo turno a Flushing Meadows contro Denis Kudla, americano nato a Kiev 24 anni fa, picchiatore temuto nel circuito, quarto turno un anno fa a Wimbledon, attualmente ATP 128 ma a quota 53 poco più di tre mesi fa. Tra i due unico precedente nelle qualificazioni agli ultimi Internazionali, con l’italiano eliminato con onore (3-6 6-7).
È la partita perfetta di Alessandro. Primo set con troppa emozione da smaltire (0-6), secondo gestito con intelligenza (6-4), terzo conquistato di forza (6-1), quarto strategicamente lasciato per non sprecare le forze rimaste (1-6), quinto condotto come fanno i campioni, non dando mai il tempo all’avversario di capire cosa sta accadendo (6-0). Punteggio quasi palindromo. Il game da incorniciare è il quinto del quinto set, con Giannessi avanti per 4-0 che combatte per un quarto d’ora per riuscire ad andare a servire per il match. Alla fine, Alessandro non si rende conto che il suo sogno s’è avverato a New York: non fosse che lo sloggiano di forza per il match successivo, rimarrebbe lì a bordo campo a gustarsi i colori, i rumori, gli odori della Court 12, magari insieme agli italotifosi che l’hanno incoraggiato senza sosta. Adesso può seriamente ritentare l’assalto ai Top 100.
Se Giannessi è il nostro eroe di giornata, i bocciati sono i due italiani più dotati eppure meno costanti, Fabio Fognini e Camila Giorgi. Con la differenza che il numero 1 d’Italia ha passato il turno, la numero 3 no. Entrambi hanno offerto nuovi saggi dei propri difetti caratteriali. Il ligure s’è esibito nel consueto show di proteste, improperi, bestemmie, strafottenze, colpi sublimi ed errori marchiani. Atti e atteggiamenti inaccettabili in un professionista di lungo corso. Anche il veterano russo d’origine georgiane Teymuraz Gabashvili, ATP 105, s’è adeguato all’avversario e ha sfoggiato discreti esempi d’esibizionismo extratennistico.
Per quasi quattro ore Fognini ha fatto il possibile per forgiare la propria sconfitta e, se non c’è riuscito, è perché l’avversario s’è procurato problemi alla gamba destra. Sotto 2-5 nel quarto set, ha momentaneamente fatto pace con sé stesso e con il mondo, ha rimontato e poi superato Gabashvili senza nemmeno bisogno di affidarsi al tie break. Nemmeno il set finale, risolto al secondo set a disposizione, è stata una passeggiata. Risultato finale 6-7 3-6 7-6 7-5 6-4, ma il mio voto a Fognini resta un 3.
L’indecifrabile e glaciale ragazza di Macerata ha mostrato di avere quanto servirebbe per battere un mostro sacro come Sam Stosur – qui campionessa nel 2011 – e, nello stesso tempo, quanto basta per perdere invece da lei malamente (…)