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Everyday America: viaggio nel Sistema USA

Tappa introduttiva del viaggio alla scoperta del sistema universitario e tennistico americano, raccontato attraverso le storie dei suoi figli

Last updated: 20/02/2019 10:43
By Lorenzo Dicandia Published 15/09/2016
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15 Min Read

Division I e Division II, insieme a Division III, sono le categorie in cui la National Collegiate Athletic Association, l’istituzione che regola lo sport universitario, divide i vari college. Nella prima divisione, composta da 351 college, ci sono tutte le più importanti, famose e grandi università americane a cui è concesso di assegnare borse di studio complete per soli meriti sportivi. La percentuale di studenti-atleti rispetto alla popolazione totale di studenti è del 4%, la cui metà godono degli allenatori, delle strutture e dell’educazione completamente gratis. Nella seconda divisione, composta da 300 università, le borse di studio per meriti sportivi sono parziali e la percentuale di studenti-atleti è dell’8%, mentre nella terza divisione non esistono vantaggi fiscali per gli atleti. Una volta ammessi al college, la vita degli studenti-atleti è scandita dalle classi e dalle ore d’allenamento, almeno tre al giorno. Per evitare di perdere la borsa di studio, gli atleti devono infatti raggiungere un certo numero di crediti a semestre, oltre a dover mantenere una media decente, pena la perdita della borsa di studio e del posto in squadra. Agli studenti-atleti è concesso laurearsi con un anno di ritardo nella facoltà scelta. Il secondo e ultimo obbligo per gli studenti è quello di mantenere lo status amatoriale per tutti gli anni dell’università, pena ancora l’esclusione dalla squadra.

Il college era stata una tappa fissa degli americani fino agli anni ottanta: McEnroe e Connors avevano vinto il titolo NCAA rispettivamente con Stanford e UCLA. Le successive vittorie ancora da adolescenti di Chang, Sampras e Agassi, tutti diventati professionisti senza passare dall’università, avevano invece interrotto la tradizione portando anche la generazione successiva, quella di Roddick e Fish, con l’eccezione di Blake studente di Harvard per due anni, a saltare l’esperienza universitaria. Negli ultimi anni c’è invece stata un’inversione di rotta grazie alle buone carriere di John Isner, Steve Johnson, Kevin Anderson e di altri ragazzi nella top 100. Il sistema americano è però apprezzabile, prima ancora che per quelli che al successo ci arrivano, soprattutto per tutte le centinaia, migliaia di aspiranti tennisti che finiscono invece dirottati verso un’altra carriera, a volte perché privi del talento necessario per fare del tennis la propria vita, altre perché all’arrivare dell’età adulta ambizioni e motivazioni possono cambiare. La transizione dalle competizioni liceali a quelle universitarie si materializza infatti solo per l’1.7% degli aspiranti tennisti, sia tra le donne che tra gli uomini. La percentuale scende ancor più drasticamente quando si analizza invece il passaggio dal college al professionismo.

Ma poi, quando parliamo di professionismo nel tennis, cosa intendiamo? Il tennis è infatti uno sport tanto meritocratico quanto crudele; non ha squadra né contratto. Se vinci ripaghi le spese e magari guadagni anche qualcosa, se perdi hai invece perso con la partita anche i soldi messi sul viaggio e sull’hotel e il coach e il vitto e i trasporti. Negli Stati Uniti si fa un gran parlare dei costi collegati ad una carriera professionistica e la conclusione a cui si è arrivati è che per coprire le spese e riuscire in più a fare una vita agiata o quantomeno benestante, bisogna essere tra i primi cento. Al di sotto, si lotta con il coltello tra i denti per arrivare almeno in pari tra entrate e uscite. Il costo dei viaggi, che portano dall’Australia alla Cina e dall’Europa agli Stati Uniti, per un top 100 è infatti stimato sui cento-centocinquantamila dollari l’anno a persona, secondo quanto dichiarato da Granollers, Mattek-Sands e qualsiasi altro tennista tra la cinquantesima e la centesima posizione intervistato negli ultimi anni. Il tutto va poi ovviamente moltiplicato per il numero di persone che seguono il giocatore ed esclude il salario dell’allenatore e le altre spese che non siano riferite ai viaggi. Per un giocatore intorno alla centocinquantesima posizione, che riesce ad accumulare un guadagno lordo annuo sui $100k dollari, le spese devono essere forzatamente più caute. Il tennis resta dunque uno sport d’élite e anzi è lo sport d’élite d’eccellenza, dato che i guadagni dell’unico sport paragonabile, il golf, sono alti per chiunque riesca a raggiungere un buon livello (il rapporto fra i guadagni del numero 50 e quelli del numero 1 è di uno a tre per il golf e uno a quattordici per il tennis). Per i genitori che credono d’avere un buon talento in casa, provare a mandarlo diritto tra i professionisti rischia sicché d’essere una scommessa azzardata e perdente al primo infortunio serio o calo motivazionale del ragazzo.

Il college americano viene in aiuto, aprendo le porte a più carriere ed evitando la dispersione dei ragazzi che del tennis si sono stancati e l’hanno capito tardi o che più semplicemente non sono riusciti ad emergere. A capirlo, se si hanno delle possibilità o no, non ci si mette molto. Gli studenti frequentano infatti diversi tornei ed incontri l’anno in un circuito valido e competitivo, alla presenza di quasi tutti i migliori prospetti americani e di un buon numero di stranieri. Tentano nel frattempo anche tornei professionistici, senza ritirare l’assegno, per toccare da vicino il mondo dei grandi. Se i risultati ci sono si prosegue, altrimenti si opta per una carriera alternativa, quella che viene dai libri e dalle altre passioni. D’altro canto essere certi del proprio futuro a diciotto anni e riuscire poi a realizzarlo è per pochissimi. Agli altri è dato tentare e fallire e tentare ancora una volta, magari con nuovi obiettivi e interessi. Purtroppo non tutti i sogni sono raggiungibili, neanche in America. Però, forse, l’America ti dà la possibilità di sognare anche la notte dopo aver fatto i conti con la realtà. È su questa base che Brendan Evans, il protagonista della seconda tappa del viaggio nel sistema-tennis americano, ha ricostruito la sua carriera. 

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