Fabio Fognini dovrebbe pensare che i ragazzini che giocano a tennis lo vedono, lo imitano e si sentono autorizzati a ad alzare il dito medio, a spaccare una racchetta e a fare i maleducati con l’arbitro. Nick Kyrgios gioca da Dio, un servizio da paura, una gran potenza dal fondo, ma è il primo a dover scegliere cosa vuole fare nella vita. Tranquilli, non è un’altro articolo che si sofferma sui bad boys, quanto l’incipit di una riflessione sulla profonda disparità di trattamento tra gli spacconi che vincono e quelli che non vi riescono. Perché a ben guardare ai primi si perdona tutto, mentre i secondi sono dei gran maleducati che sprecano il loro talento. In altre parole, fino a che punto le vittorie legittimano la maleducazione e il mancato rispetto di avversari e pubblico? Se torniamo indietro di qualche decennio, troviamo i McEnroe, i Connors, i Nastase: grandi campioni, ma anche grandi energumeni capaci delle peggiori provocazioni, di frasi irripetibili e di atteggiamenti al limite della follia. Il 4 Novembre 1984 John McEnroe affrontava nella semifinale del torneo di Stoccolma l’idolo di casa Anders Jarryd, allora n.6 del mondo e tds n.4. L’appuntamento arrivava al termine della miglior stagione di sempre per l’americano, quella delle 42 partite vinte consecutive (record sfiorato ma non raggiunto da Novak Djokovic, che nel 2011 si fermò a 41 dopo che ai quarti del Roland Garros non poté affrontare il ritirato Fognini e in semifinale perse da Federer in una delle partite più belle di sempre), dei titoli di Wimbledon e US Open, delle WCT Finals, del Masters e dell’unica finale in carriera al Roland Garros (persa al quinto contro Ivan Lendl). In quella semifinale in terra scandinava, The Genius aveva perso il primo set ed era avanti 4-2 nel secondo. Il giudice di sedia Leif Ake Nilsson chiama out una sua prima di servizio e l’americano gli chiede, sarcastico: “Nessun errore nel match, vero? Non hai fatto nessun errore, dico bene?”. Il giudice di sedia, impassibile, ignora la domanda: “Second serve”. A quel punto McEnroe perde la testa: “Rispondi alla domanda! La domanda, idiota!”. Penalty point e poi dritto lungo in avanzamento sul break-point a favore di Jarryd. John si avvicina alla sedia e dà un’ulteriore impennata alla sua follia: due racchettate a tutto braccio su ciò che trova sul tavolino, tra cui bicchieri di vetro (non di carta, di vetro), come ricorda Nilsson.
Se Fognini avesse spaccato con una racchettata dei bicchieri di vetro a ridosso degli spettatori, cosa diremmo? L’ha fatto McEnroe, che certamente in quel momento suscitò lo sdegno di tutti (oltre a beccarsi 21 giorni di sospensione e una multa di 7500 dollari), ma è John McEnroe, quello dell’epico tie-break di Wimbledon ’80 contro Borg (qui raccontato da Gianni Clerici in un estratto del suo “Wimbledon”), quello che ha vinto 7 Slam e allora quanti oggi se lo ricordano a frantumare bicchieri di vetro a un metro da dove sedeva il pubblico? Lo facesse Fabio, una macchia del genere sarebbe la sua croce quando si parlerà di lui negli anni a venire. Giustamente, verrebbe da dire, ma allora perché non lo ricordiamo per Big Mac? Inutile girarci attorno, lui è un immortale di questo sport, Fognini no. Le vittorie del primo cancellano le sue follie nella mente degli appassionati, anche se tali rimangono, follie che non sarebbero mai perdonate a un giocatore buono, ma non un campione. È legittimo questo due pesi e due misure?
Gli esempi si sprecano in molti altri sport. Nella boxe è difficile trovare pugili leggendari e senza una personalità ingombrante (del resto quelli dal gran talento ma dalla scarsa personalità come fanno a imporsi nella boxe?), ma nei ricordi di tutti, anche di chi non ha mai seguito il pugilato, svetta Mohammed Alì. Certo, per l’impegno sui diritti civili, per aver disertato il Vietnam con tutto quello che comportava ai tempi una scelta del genere, ma soprattutto perché era un grande spaccone che vinceva. Non solo, perché le sue spacconate prima del match mettevano tatticamente la sfida nel terreno a lui più congeniale. Cassius Clay era un autentico smargiasso che prima del match irrideva l’avversario e sul ring dava seguito a quell’atteggiamento col suo stile teso a farlo sfogare fino a portarlo all’esasperazione fisica e mentale. “Questo adesso lo ammazzo di pugni”, si ripeteva il campione del mondo dei massimi George Foreman durante il leggendario “Rumble in the Jungle” di Kinshasa del 1974, ma colpo dopo colpo, ripresa dopo ripresa, le sue bordate erano sempre meno cariche di potenza e sempre più appesantite dalla frustrazione nel vedere che l’irridente Clay era sempre lì, verticale e saltellante, a pungere come un ape e volare come una farfalla. Fino all’epilogo finale. Senza tutta la sua sfrontatezza, tutto il suo senso di superiorità e tutta la personalità capace di portare il pubblico di ogni parte del mondo dalla sua parte, Alì oggi non sarebbe ricordato come “la boxe”. Ci sono stati molti altri pugili che sono stati altrettanto validi tecnicamente e anche per personalità (Rocky Marciano, Sugar Ray Robinson, Joe Louis), ma Alì è stato l’unico a convogliare la sua presunta superiorità sull’avversario nella tattica per abbatterlo sul ring dopo averlo provocato fuori con le sue sparate, come fece appunto nello Zaire contro Foreman. Ecco allora che uno tra i più grandi spacconi di sempre (lo è sempre stato quando combatteva) è ricordato come il più grande del suo sport.
In Italia in molti sbaviamo per il Dio Pallone. Un antipatico, sfrontato, maleducato sbruffone che però molto spesso vince. Un profilo del genere chi vi ricorda? Forse quel portoghese di Setubal che si presenta alla Pinetina all’inizio dell’estate 2008, a una domanda un po’ sospetta chiede spiegazioni, il poveraccio che l’ha fatta scopre la maschera e spiega che voleva intendere altro e Josè Mourinho che inventa la prima di mille genialate: “Ok, ma io non sono pirla!”. E in un amen Setubal diventa Lambrate… Ne seguono altre, di sparate da scrivere e leggere a fiumi, talmente tante che quando il nostro parla di prostituzione intellettuale i giornalisti, invece di rispondere al fuoco (gli aveva semplicemente dato delle baldracche, niente di meno) riportano supini il verbo del Vate, a metà tra il piacere della pratica sadomaso, tanto è divertente, e l’accettazione incondizionata dell’insulto pur di non spegnere quella meravigliosa fonte di scrittura originale: “Continua pure, Josè, che senza le tue perle noi che raccontiamo?”. E facevano bene, i colleghi, perché quel bullo di periferia si dimostrava anche un grandissimo allenatore, capace di far vincere all’Inter la Champions League 2010, convogliando alle noti doti di motivatore la capacità di plasmare una squadra che difende, fa quasi catenaccio, ma quando riparte gioca a memoria e incanta. E allora che gli puoi dire? Puoi solo adorarlo, se sei interista, o detestarlo, se parteggi per l’altra sponda dei Navigli o per la Juventus. In ogni caso non lo puoi certo ignorare… e allora lo spazio sui giornali lo troverà sempre. Perché quando parla va quasi sempre oltre, ma è uno che entrerà di diritto negli almanacchi del calcio. Il fatto che ora, nella sua seconda carriera inglese, stia inanellando sconfitte in serie, non offuscherà la sua stella di energumeno cattivo e vincente. Continueremo a stigmatizzarne gli atteggiamenti e la maleducazione, salvo poi ricordarlo come l’allenatore che ha portato il Porto e l’Inter sul tetto d’Europa e il Chelsea a diventare una delle squadre più forti del mondo.
Forse dobbiamo rassegnarci: anche se intemperanze e follie sono le stesse da parte di chi vince e di chi perde, i vincenti se le potranno sempre permettere, gli altri no.
Tornando al tennis, infatti, cosa dire di Nick Kyrgios? Lui potrebbe essere l’esempio vivente di questa disparità di trattamento: finora è un tamarro villano e irrispettoso, ma se nei prossimi anni (ne ha solo 21) riuscirà a smussare alcuni aspetti del suo carattere, giusto quelli che gli fanno perdere partite tranquillamente alla portata, ha tutte le qualità per diventare un campione vero, uno che vince titoli Slam. A quel punto, celebreremmo il campione e lui diventerà come d’incanto il tamarro buono, quell’adorabile testa calda down under che continuava a incappare periodicamente in qualche squalifica, ma ci salvò dal vuoto cosmico in cui era piombato il tennis dalla fine dei Fab Four…