Federer e Nadal, lunga vita ai re (Marco Imarisio, Corriere della Sera)
L’ultima volta che Rafa, Roger e le sorelle Williams sono andati in semifinale nello stesso Slam, Barack Obama era uno sconosciuto senatore dell’Illinois. Basterebbe questo, per capire cosa sta succedendo a Melbourne e nel tennis moderno. Saranno anche gli ultimi fuochi. Ma ammettiamolo, sono belli a vedersi, e ancora piuttosto intensi, capaci persino, forse, di bruciare il primo Major della nuova stagione.
Serena non era mai andata via. Accende e spegne, come le pare a lei. Quando ne ha voglia, si prende una pausa dallo shopping compulsivo, si allena per due settimane, e tanto basta. Al momento il suo strapotere fisico è ancora vincente sul tempo che passa. Il ritorno di Venus a questi livelli e a quell’età, verso i 37 anni, è invece indicativo della pochezza del tennis femminile attuale, dove il ricambio generazionale ha giocato una serie di giocatrici-cloni, tutte uguali a se stesse, simili anche nella fragilità emotiva e nell’incapacità di qualunque variazione sul tema. Quando sai tirare forte e basta, le due sorelle hanno ancora un certo vantaggio che le è stato donato da madre natura.
Quella tra Roger e Rafa sarebbe una finale bellissima, quasi fuori dal tempo e dalla logica, sigillo di una rivalità da ufficio stampa. I due non si sono mai odiati neppure sul campo, avendo capito presto che uno serviva all’altro, l’amore incondizionato per il campione svizzero è esploso a livelli mondiali quando finalmente dopo un quadriennio di dominio senza avversari, dal 2002 al 2005, si è rivelato al mondo Rafa, che rappresentava il suo esatto opposto. Lo slancio vitale contro l’estetica neoclassicista, il tremendismo agonistico e la pura energia che speronavano sempre più spesso la metafisica della bellezza espressa dai gesti di Roger.
Guardiamoli, adesso. Federer ha dimostrato che staccare ogni tanto fa bene. Con la scusa di un ginocchio malconcio, ha chiuso i battenti dopo Wimbledon 2016. Al suo ritorno si è presentato com’era una volta. Almeno in apparenza, e sulla distanza di due ore, il suo straordinario gioco di gambe, quella capacità di impattare la palla sempre in posizione e con trasferimento di peso perfetti che è sempre stata il suo vero segreto, c’è ancora. Ci vorrà ancora qualche prova per stabilire se davvero il Re ha sconfitto anche il tempo, avversario all’apparenza imbattibile. Nessuno vuole rovinare la festa, ma va detto che il suo rientro trionfale è avvenuto nelle migliori condizioni possibili, per lui. A Melbourne hanno finalmente rifatto i campi. Era ora, dopo che una mescola assassina aveva fatto diventare il cemento australiano una superficie lentissima, collosa, in omaggio alla folle idea dell’Atp che prevede l’omologazione di tutti i campi, dalla sacra erba di Wimbledon alla terra rossa europea fino a campi duri americani, tutti più o meno uguali. Un modo per uccidere la differenza di stile, che dovrebbe essere il sale di ogni sport.
Fu un errore imperdonabile, che a Roger è costato qualche Slam. Ma ad essere sinceri gliene ha portato in dote uno, il più ambito. Nel 2007, quando l’idolatria nei suoi confronti era ormai diventata regola, gli organizzatori del Roland Garros velocizzarono il centrale per dare maggiori chance a Sua maestà, che infatti due anni dopo riuscì a vincere il suo Slam parigino, l’unico che ancora gli mancava, mai più ripetuto. Quest’anno i campi più veloci, soprattutto la Rod Laver Arena, dove giocano i campioni, abbreviano la durata degli scambi, favorendo chi ha maggiori variazioni nel suo bagaglio tecnico. Roger ne ha approfittato. E lo stesso ha fatto Grigor Dimitrov, il piccolo Federer che da anni deludeva ogni speranza riposta sulla sua capacità di prendersi la fiaccola del bel gioco. Anche Misha Zverev, autore della sorpresa del torneo con la vittoria su Andy Murray, è un panda del serve and volley, del gioco lento. Non è un caso che il ritorno a un tennis diverso, più verticale e meno orizzontale, più tocco e meno pedalate, stia avvenendo su questa superficie ormai inedita. ma dopo tanta vana attesa, non è proprio il casi di lamentarsi.
Lo strano caso di Rafael Nadal invece è la conferma del fatto che lo spagnolo è un campione come ne vedremo ancora pochi nelle nostre vite di spettatori. Non gode della stampa che meriterebbe, il maiorchino. Essere la nemesi di Federer, la sua kryptonite, aver fatto piangere più volte il sovrano amatissimo, comporta un prezzo da pagare. La sua rinascita dopo tanti guai fisici è stata lenta e progressiva. Ma soprattutto è avvenuta attraverso un cambio quasi radicale del suo gioco. Nadal non più la potenza di un tempo. Quel dritto mancino unico al mondo, un colpo di chela con la racchetta che viene richiamata sopra la testa con un movimento circolare, quasi a scaricare la forza in eccesso, non fa più male come una volta. Non è più l’arma devastante che gli consentiva, ad esempio, di umiliare il campione svizzero. «Perché dovrei servire o rispondere forte con Roger?» ci disse una volta al Foro Italico. «Con lui gioco in controllo. A me basta incrociare il dritto sul suo rovescio per fargli accorciare i colpi e guadagnare campo».
Il nuovo Rafa è nato dall’obbligo e dalla volontà di migliorare il resto del suo gioco. A cominciare dal rovescio. Contro Milos Raonic, da quel lato sono arrivati solo tre errori gratuiti e un mare di passanti vincenti. Nadal oggi cerca di rallentare il gioco per poi attaccare, non si limita ad aspettare lo sfinimento dell’avversario per poi finirlo con la mazzata mancina. Il top spin del dritto ha perso il 35 per cento dei giri impressi alla palla, che una volta toccato terra non schizza più come prima. Il distruttore di un tempo è diventato un geometra provetto, capace di usare ogni zona del campo per costruirsi il punto. Quanti giocatori sarebbero in grado di reinventarsi e cambiare così radicalmente la propria natura? E questo ci porta alla parte del corpo più importante per un tennista. Alla testa. Anche nei momenti più bui, Roger e Rafa hanno conservato la loro unica caratteristica comune. Si sono sempre sentiti campioni. Non hanno mai smesso di farlo. Bisognava guardare la faccia di Kei Nishikori e di Milos Raonic, le loro due ultime vittime. Il loro linguaggio del corpo. La loro carriera, fatta di una eterna attesa, quando invece quei due sono andati a prendersi quel che volevano, senza chiedere il permesso. Vassalli, subalterni. Forse saliranno ai vertici della classifica, ma non saranno mai dei numeri uno. Rafa e Roger invece possono scendere nel ranking, perdere, subire delusioni. Ma sanno chi sono, e cosa sono. Un campione è per sempre (…)
—————————————————
Nadal di forza tra i Fab Four: “Sono qui per vincere” (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)
Una, due, cento volte. Quella parola torna a risuonare piena, carica di adrenalina e di voglia di vincere, potente come quel dritto che ricama di nuovo traiettorie diaboliche. Vamos!», e le tribune vibrano e spasimano per il rinato toreador. La racchetta è ancora e sempre una muleta nelle mani di Nadal, l’indomabile guerriero dell’arena, mai così forte, feroce e determinato da quel pomeriggio di giugno del 2014, quando domò per la nona volta Parigi e si prese il suo ultimo Slam. Poi solo fatica, dubbi e dolori, che l’hanno piegato ma non spezzato: Murray e Djokovic, i freschi dominatori, sono già a casa, Federer e Rafa vivono e fanno vivere un sogno. Benvenuti a un decennio fa.
Il satanasso di Manacor non assaporava una semifinale Slam appunto dal Roland Garros poi vinto di tre anni fa, e non poteva essere il tenero Rabnic di una fresca serata australiana ad intimorirlo, malgrado il recente confronto diretto vinto a Brisbane. Perché questo Nadal, ritrovata la salute fisica, si riscopre ovviamente un cannone anche con la testa e risfodera le qualità caratteriali per cui non vorresti mai incrociarlo al di là della rete: nessun punto è perso e quando la palla scotta, in campo è lui e solo lui il migliore. Poi c’è il gioco, di nuovo fluido e incisivo, dalla risposta con i piedi sulla riga alle discese a rete per impedire all’attaccante di attaccare (evidentemente c’è la mano di Moya, ora al suo angolo e fino a due mesi fa consigliere tecnico del canadese), oltre all’unico errore gratuito concesso in un primo set quasi perfetto. Raonic potrebbe rimettersi in corsa con i 6 set point del secondo set, ma a parte un paio di sue sciocchezze (tra cui un sanguinoso doppio fallo sul 6-5 nel tie break), si trova davanti un muro che non abbassa sguardo e concentrazione, rendendo in pratica il terzo set un’esibizione muscolare: «È grandioso. Questa semifinale per me è un’ottima notizia, soprattutto dopo aver vinto contro ottimi giocatori come Monfils, Zverev e Raonic. lo li considero dei top player, e la cosa significa che io sono ancora competitivo e sto giocando bene. Sono così eccitato di essere ancora una volta nelle fasi decisive di un evento così importante. Sono qui per cercare di vincere. Ho avuto una grande carriera, ma anche molti momenti duri e di sofferenza. Ed è quel che mi fa godere ancora di più questo risultato».
Era dal primo Slam dell’Era Open, il Roland Garros del 1968, che in semifinale non approdavano tre ultratrentenni (allora furono Rosewall, Gime-ìno e Gonzales, preistoria) e adesso la fantasia vola: Fedal è il mantra magico. Cioè una finale tra Federer e Nadal, magari come quella indimenticabile del 2009 finita con il trionfo del maiorchino e le lacrime a dirotto dello svizzero. Non si affrontano dalla finale di Basilea del 2015 (vittoria in tre di Roger) e il mondo non vedrebbe l’ora. Il mondo, ma per adesso non certo Rafa: «Roger è una leggenda, ed è bello che sia tornato, perché come è accaduto anche a me, tanti pensavano che avremmo dovuto ritirarci. lo ho sempre dei dubbi, è una cosa normale per me, anche quando vincevo tanto avevo dubbi, dunque potete immaginare se non li ho avuti quando ero fuori dal circuito. Credo che Federer sia pronto per altri successi, ma io sono felice di essere qui, mi aspetta una partita durissima contro Dimitrov (che nel 2017 e in striscia positiva da 10 match, ndr) e dunque sono concentrato solo sulla mia semifinale (…)
———————————————–
A lezione di vita da Mirjana Lucic (Claudio Giua, repubblica.it)
Per vincere bisogna aver imparato a perdere. O almeno a soffrire (magari non troppo, se possibile). Nulla di obbligatorio, per carità: si potrebbe discutere per ore di donne e uomini felicemente vincenti “a prescindere” – predestinati, li definirebbe chi crede nel destino – oppure di sempiterni perdenti che non si schiodano dall’ultimo gradino dei loro contesti sociale, scolastico, lavorativo, sportivo o quel che vi pare.
Poi c’è chi sa risorgere dal disagio profondo. Come, nel tennis, Mischa Zverev, di cui tanto s’e parlato nei giorni scorsi. O come Mirjana Lucic-Baroni. E chi riesce a sovvertire ogni vaticinio negativo come Johanna “Jo” Konta, della quale Monday’s Net raccontò le traversie un anno fa quando approdò per la prima volta ai quarti degli Australian Open. In tempi diversi, la croata con casa in Florida e la britannica nata e cresciuta a Sydney furono archiviate come “speranze mal riposte”. Invece sono loro le protagoniste dell’ultima giornata dei quarti di finale agli AO nelle rispettive sfide con Karolina Pliskova, testa di serie numero 5, e con il mostro più sacro del tennis femminile dell’ultimo ventennio, Serena Williams. L’americana ha sbrigato rapidamente la pratica marcata Jo (6-2 6-3 in un’ora e un quarto), mentre la croata ha staccato per la seconda volta dopo quasi 18 anni il biglietto per l’ingresso alla semifinale di uno Slam (6-4 3-6 6-4 in un’ora e tre quarti). Che storia, la sua…
Nata a Dortmund da genitori della costa dalmata, classe 1982, segno dei Pesci, Mirjana Lucic (Baroni è il cognome del marito, ristoratore a Sarasota) superò a 15 anni due turni al debutto nel tabellone principale di Flushing Meadows, reduce da successi clamorosi come junior, dal titolo in singolare agli UsOpen 1996 a quelli agli Australian Open 1997 (singolare e doppio). Da professionista, nel gennaio 1998 dominò il torneo di doppio a Melbourne in coppia con Martina Hingis. Raggiunta la trentaduesima posizione nella classifica WTA e unanimemente pronosticata tra le regine del tennis del nuovo millennio, nel 1999 si spinse fino alle semifinali di Wimbledon, dove tenne testa alla numero 2 WTA Steffi Graf (7-6 4-6 3-6). Fu l’ultimo exploit, e poi si capirà il perché. Il suo 2000 fu deludente, nel 2001 rispuntò solo in occasione del Roland Garros, nel 2002 e nel 2003 le ultime apparizioni. Da allora missing, scomparsa.
Cos’era accaduto? Figlia di un ex olimpionico jugoslavo di decathlon e poi coach di tennis, raccontò di essere stata sottoposta a violenze fisiche e psichiche da parte del padre. Per anni, senza tregua. La sua compagna di Fed Cup Eva Majoli testimoniò in seguito: “Non le era concesso fare nulla, non poteva stare con le compagne, Marinko la seguiva sempre. Con lui vicino, Mirjana era spaventata”. Finì che nell’aprile 1998 la grande promessa del tennis croato fuggì negli Stati Uniti con la madre, Anjelka, i due fratelli e le due sorelle. Ma non sfuggì ai guai. Per un po’ venne seguita da Nick Bollettieri a Bradenton. Senza soldi nonostante le promesse di senatori e truffatori, la sua famiglia non ce la faceva a tirare avanti né a trovare abbastanza spazio mentale per occuparsi dei fantasmi di Mirjana, nel frattempo uscita dal tennis che conta. Con quei fantasmi – il padre orco, la fuga tumultuosa, i desideri negati – lei combattè cocciutamente. Da sola.
La luce s’è riaccesa dopo sette, otto anni. Mirjana, grazie anche al marito Daniele, ha ritrovato la fiducia nei propri mezzi. Tornata nel circuito nel 2010 (“Sono un osso duro”, dice di sé, “e quando voglio qualcosa, lavoro e faccio di tutto per ottenerlo”), ha poco per volta risalito il ranking partendo dai tornei Futures e Challenger, prendendosi un paio di titoli e molte soddisfazioni: “Credo che molti avrebbero rinunciato ma io ho davvero molto orgoglio. Non ho avuto alcun trattamento speciale. Ce l’ho fatta”. Del periodo buio non ha voluto più parlare. Dal 2012 ha incassato mediamente 450mila dollari l’anno in premi, e nel 2017 farà meglio, e di parecchio. A 34 anni, dopo la vittoria di oggi su Pliskova è virtualmente numero 29 al mondo. La sua miglior classifica di sempre.
Impressionante la progressione di marcia di Lucic-Baroni al Melbourne Park. Nel secondo turno ha eliminato Agnieszka Radwanska, testa di serie numero 3, e negli ottavi s’è presa la soddisfazione di battere la stellina americana Jennifer Brady, 21 anni, con un perentorio 6-4 6-2. Il match di oggi contro la gemella Pliskova più forte, già finalista a New York in settembre, è tanto veloce quanto incerto. Nel primo set (6-4 per la croata) è la qualità delle risposte di Mirjana a caratterizzare gli scambi, velocissimi. In più, sfoggia più volte un devastante dritto a sventaglio, mentre la ceca ha un’imbarazzante seconda di servizio. Nella seconda frazione Mirjana riparte alla grande e va 2-0. Karolina – 25 anni in marzo – appare frastornata, deve ricorrere al fisioterapista per farsi fasciare il piede destro, piagato. Alla ripresa del gioco, però, la croata ha un improvviso calo di rendimento e riesce, a furia di errori, a ottenere un solo altro game: 3-6.
Nel terzo set saltano gli schemi. Dopo tre break consecutivi, potrebbe risultare decisivo il turno di servizio mantenuto da Lucic-Baroni, che si porta sul 3-1. Invece no: Pliskova di rifà sotto e addirittura va sul 4-3. È Mirjana, a questo punto, a chiedere l’intervento medico. Quando torna in campo, sembra Superwoman: piazza ace, dritti e rovesci da ogni posizione fino a stroncare anche l’ultima resistenza di Karolina (6-4). La semifinale contro Serena sarà una premiere quasi assoluta (…)