Allora sì, cambiare

Editoriali del Direttore

Allora sì, cambiare

Come Agassi e Federer prima di lui. Ecco perché la separazione dal suo team storico potrebbe portare Novak Djokovic di nuovo in vetta

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Nel corso dell’ultimo anno, dalla tanto anelata vittoria al Roland Garros della scorsa stagione, la motivazione più addotta per le sempre più frequenti sconfitte di Novak Djokovic è stata una: mancanza di serenità. Lui che aveva sempre sfoderato, insieme al fisico da tiramolla, il suo spirito granitico come arma principale, si è ritrovato a dover fronteggiare continue crepe nella sua solidità: stress, aspettative, una vita privata non più limpidissima e via via nuove chiacchiere sul suo nucleo personale, dall’introduzione del guru Pepe nel suo team, al rimbrotto in diretta Twitter rifilatogli dalla moglie Jelena. Tutti granelli di sabbia che hanno fatto rallentare gli ingranaggi dell’orologio perfetto che era. E questa mancanza di serenità si è tradotta, evidentemente, in un progressivo disamorarsi per il gioco, un spostamento dei suoi riflettori dal campo alle stanze di casa propria. In buona fede, per carità, non ha certo deciso di non impegnarsi più, per quanto potrebbe perseguire eccome questa scelta, guardando al suo conto in banca. Semplicemente, per forza di cose, le sue priorità sono cambiate; dopo una vita di sacrifici per il tennis, adesso testa a se stesso, in primis. Anche perché come lui stesso ha dichiarato pochi giorni fa, il tennis ha smesso di essere fonte di stimoli.

“Voglio tornare ad avere la scintilla in campo, per vincere”. Ha commentato così, sul proprio sito internet, la decisione di interrompere il rapporto lavorativo che lo legava di fatto da sempre a Marian Vajda, il suo storico coach, al preparatore atletico Gebhard Phil Gritsch e al fisioterapista Miljan Amanovic. Basta con il nido che lo ha accolto e accompagnato per una vita, stop all’aria casalinga che una squadra consolidata regala ad ogni suo membro. Un taglio netto al dorato cordone ombelicale che lo legava agli albori della sua carriera, in una consuetudine che lo ha logorato, a quanto pare; una presa di posizione che già poteva intravedersi con l’aggiunta di Boris Becker prima, e del santone Imaz poi. Le prime avvisaglie di una malcelata insoddisfazione, come se alla fine quel porto sicuro fosse solo una catena che gli impediva di fare ulteriori esperienze, almeno nelle sue speranze, vincenti. Una scelta coraggiosa, sintomo di una forza d’animo tutt’altro che svanita, anzi quasi rinvigorita dalla decisione stessa. O si retrocede pian piano con le certezze di sempre, o si cerca di migliorarsi ponendosi nuovi interrogativi, anche quando il vertice è stato non solo raggiunto, addirittura dominato.

Una ricerca di nuove sensazioni positive in una dimensione mai affrontata prima d’ora: gli stimoli di cui è alla caccia possono essergli soltanto forniti da qualcun altro, e adesso Nole si trova nella delicatissima situazione di dover selezionare una compagnia che si incastri con la sua realtà. Un singolo (o più d’uno, ma improbabile) che non resti vittima dell’esposizione mediatica di cui Djokovic è protagonista, trascinandolo nella mediocrità, ma che allo stesso tempo non sia un personalità troppo invadente, che di fatto lo oscuri, come ha corso il rischio di fare con Becker. Non è certo una storia nuova: svariati grandi del passato e non, per ritrovare una condizione sopratutto psicologica ottimale, hanno deciso di affidarsi a nuove cure. Andre Agassi ricorse addirittura a Gil Reyes, che di tennis non capiva praticamente nulla, ma grazie al suo background di preparatore atletico lo tirò a lucido: una rinnovata tenuta fisica gli regalò una maggiore stabilità mentale, come se Agassi si piacesse di più. Fino a instaurare con Reyes un rapporto fraterno, che trascendeva di gran lunga il lavoro, arrivando addirittura a chiamare Jil la seconda figlia, in onore del coach e amico. Reyes poi ha lavorato con Sania Mirza e Sam Querrey, ma questa è un’altra storia. Anche Roger Federer ha intrapreso collaborazioni mirate con individualità determinate, quasi selezionate in modo maniacale, per ottenere il massimo di ciò di cui aveva bisogno in ogni dato periodo della sua carriera: solo negli ultimi anni si sono susseguiti Paul Annacone, Stefan Edberg e adesso Ivan Ljubicic, ognuno dei quali ha fornito allo svizzero un apporto diverso ma comunque fondamentale. A prescindere dall’ambito in cui essi potevano essere utili, se per tattica, tecnica o mentalità.

“Passerò del tempo da solo, viaggerò solo con la mia famiglia e il mio manager”, ha aggiunto Djokovic nella sua nota. E questa può essere vista come una dimostrazione di enorme fiducia in se stessi; solo la consapevolezza della propria persona può aiutare a trovare il modo per dissipare la nebbia, e questo strappo alla routine può essere un ottimo inizio. A differenza dei colleghi sopra citati, però, Novak dovrà ritrovare anche un terreno fermo nella propria sfera personale e familiare. Se Agassi aveva trovato in Reyes e poi in Graff due scogli di rara tenacia, se Federer ha da sempre avuto in Mirka e il suo manager Godsick una grandissima rete di protezione, il serbo dovrà stare attento a evitare che le proprie eventuali sabbie mobili inficino (ancora) il suo rapporto con il tennis. Che si è un po’ eroso, sì, ma non per questo sgretolato. Ben venga il cambiamento, ben venga l’addio (“Ma solo per il tennis, rimarremo una famiglia nella vita”); se l’unica strada da percorrere è quella dolorosa ma intrigante della separazione, allora ben venga anche la sofferenza di allontanarsi da chi si è sempre dimostrato fedele e disponibile a sacrificarsi per lui. Quando tutto era in ordine, senza sbavature da gossip, Djokovic è stato un cannibale come forse nessun altro prima. Ora che tutto in ordine potrebbe tornarci, forte anche dell’esperienza di “aver dovuto rallentare e anche perdere più spesso”, non sono da escludere del tutto exploit simili. La scintilla non è spenta, “con un ritmo fluente di vita nel cuore”.

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