L'ultimo specialista

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L’ultimo specialista

Ventidue mesi fermo per infortunio. Oggi è stabilmente un top-30. Determinazione, talento e intelligenza le armi di uno degli ultimi specialisti della terra battuta

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(S)punti tecnici: Pablo Cuevas, il rovescio e il fisico (Baldissera)

Con molta probabilità in pochi conoscono la travagliata storia di Pablo Cuevas, uruguaiano di 31 anni, attualmente numero 27 al mondo, con un best ranking da top 20 (19 per la precisione). Innanzitutto tanto uruguaiano, Cuevas, non è visto che nasce a Concordia in Argentina, da padre albiceleste e da mamma uruguagia. Per Pablo però non ci sono dubbi, l’Uruguay è la nazione che vuole rappresentare, una terra altamente patriottica che fa dell’appartenenza una vera e propria religione.

Sul campo dimostra subito di essere un buon tennista, verso la fine del 2009 (ottobre) entra per la prima volta nella top 50, al numero 45. In precedenza aveva raggiunto la semi ad Amburgo, per il primo grande risultato della sua carriera: il titolo gli sfuma solo al terzo set (7-5) e a batterlo è Mathieu all’epoca numero 35 del ranking. Sono le basi, è chiaro, com’è subito chiaro che il ragazzo è uno specialista della terra battuta. Il suo stile di gioco lo grida a ogni minimo movimento del corpo. La successiva è una stagione a metà tra circuito maggiore e Challenger, nel primo arriva anche qualche quarto mentre nel secondo successi e finali si susseguono. Niente di epocale ma il percorso della sua carriera sembra proseguire nonostante alti e bassi. Senza particolari lodi arriva il 2011: l’anno non inizia per niente bene con quattro sconfitte consecutive nei primi quattro tornei della stagione (Auckland, Melbourne, Santiago e San Paolo). Non è nulla però in confronto a quanto succederà dopo qualche mese. Al Roland Garros è costretto al ritiro durante il quarto set del primo turno contro Antonio Veic; c’è da dire che arrivava all’appuntamento su terra più importante dell’anno dopo le semifinali di Estoril e Houston. Non male come iniezione di fiducia. A costringerlo al ritiro è il ginocchio, afflitto da osteocondrite degenerativa. La soluzione è solo una: l’operazione. Il recupero non va però come previsto e c’è bisogno di un nuovo intervento, questa volta in Ohio. In tutto saranno 22 i mesi lontano dai campi. Un’eternità per un tennista, parliamo quasi di ripartire da zero.

Il ritorno in campo è a metà aprile del 2013, siamo al Challenger di Santos in Brasile. Ed è proprio dai tornei Challenger che arrivano le basi per la nuova carriera. Il circuito maggiore, infatti, lo vede ancora poco, solo sei partite in tutto. Quattro sconfitte e due vittorie. Nel 2014 però si fa sul serio, i tornei si susseguono e luglio sarà un mese memorabile. Tra Bastad e Umago mette in fila i suoi primi due titoli della carriera. L’impresa è da ricordare per molto, in tutto sono tredici le partite vinte consecutivamente perché in Croazia parte addirittura dalle qualificazioni. Sarà in pratica un mese iniziato fuori dalla top 100 e concluso con la posizione numero 40 del ranking.

Ormai ci siamo, il 2015 è anche l’anno del terzo titolo, in finale con Luca Vanni a San Paolo. In più c’è una finale persa da Federer a Istanbul, dopo aver battuto Dimitrov (all’epoca numero 11 della classifica ATP). L’ultimo anno e mezzo è ormai storia recente, arrivano altri successi. Tutti con prestazioni convincenti che danno a Cuevas anche l’appellativo di “osso duro”. Sulla terra infatti sono probabilmente in molti a non volerlo incontrare. Chiedere a Nadal che a Rio viene eliminato dopo tre set nei quali – a tratti – pare veramente in difficoltà di fronte al gioco dell’uruguaiano.

Proprio il gioco è l’aspetto migliore, più bello, di questo tennista. In un’epoca di omologazioni, dove vogliono far sembrare la terra e il cemento quasi la stessa cosa, uno come Cuevas riporta tutto alla normalità. Sottolinea, con ogni suo colpo, che ci saranno sempre giocatori da veloce e giocatori da terra. Spesso siamo qui a elogiare gli ultimi panda del serve & volley ma bisognerebbe fare lo stesso con gente così. Quell’ampia sbracciata di rovescio non è bella quanto un tocco delicato a rete? E non chiamatelo “arrotino” o, ancor peggio, “pallettaro” perché il vero giocatore da terra ha un’arte di costruirsi il punto davvero unica. Inimmaginabile. Chiaramente nel tennis di oggi c’è bisogno di avere tante frecce nel proprio arco, prima esistevano specialisti della terra con delle “rimesse in campo” al posto del servizio, tennisti che giocavano ad alti livelli solo per pochi mesi all’anno: in quest’epoca non è possibile. Oggi si può essere specialisti quanto si vuole ma bisogna essere comunque tennisti completi (i quarti a Indian Wells non arrivano per puro caso).

Proprio questa completezza l’ha portato ai livelli di questo 2017. Ovvero in grado di giocarsi il match con tutti i migliori del circuito. L’animo però rimane sempre quello del lottatore, del gran lavoratore pronto a sporcarsi le mani ogni volta che serve. Oggi Cuevas lo troviamo stabilmente tra i primi trenta tennisti del mondo. Come detto non è un caso, è frutto di duro lavoro, senza dubbio. Ma guai a dimenticare il talento perché quello può celarsi sotto molteplici forme.

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