A passeggio nella storia di Wimbledon

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A passeggio nella storia di Wimbledon

Un giro all’interno di Wimbledon, per iniziare a vivere l’atmosfera del torneo più affascinante del mondo. Tra pochi giorni si comincia

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Prendere la District Line, arrivare a dieci chilometri dal centro di Londra, in un sobborgo così famoso, epico, dà già il brivido che i giocatori d’azzardo conoscono quando vengono distribuite le carte. Anche qui non sai cosa ti capiterà, non sai cosa ti aspetta, perché siti e brochure nulla possono restituire dell’emozione che proverai. Quando si entra nello storico “All England Lawn Tennis and Croquet Club”, quasi 150 anni di storia ti travolgono e abbracciano, sovrastano e invitano ad entrare, col passo pesante e il cuore in gola, e il rispetto del fedele che entra in un tempio. Dal primo torneo del 1877 di cose ne sono cambiate, e tante, ma la gioia di vedere da vicino i propri beniamini e l’emozione di alzare quei trofei non può mutare, non può essere davvero diversa, perché le emozioni degli uomini sono le stesse, come il punteggio, come le regole principali, come il fascino di questo gioco così diabolico e così simile alla vita.

Visitare il museo di Wimbledon significa girare fra i 19 campi da gioco, entrare per qualche minuto nel Centre Court, ammirare la copertura mobile che in dieci minuti protegge i giocatori dalla pioggia. Significa sbirciare nella sala interviste, nello studio della BBC dal quale vengono proiettate le immagini che in breve faranno il giro del mondo, e sentirsi per qualche minuto vicini ai propri eroi. L’eco delle Olimpiadi del 2012, la gioia per la vittoria di un britannico, il messia Murray, i quindicimila posti di altrettanti fortunati, che sorseggiano champagne e mangiano fragole con panna, come nella più spumeggiante delle tradizioni, si perdoni la facile ironia, sono ancora lì dentro, ad ammaliare i fan. Ma c’è anche un po’ d’Italia in questa erba sempre verde: c’è il nome di Nargiso che trionfò nell’87 fra i juniores, quello di Quinzi che ci riuscì nel 2013, e quelli di Bracciali, campione nel ’96 nel doppio juniores, e di Lopez e Trevisan che vinsero in coppia il torneo giovanile nel 2007. Più avaro di soddisfazioni è invece, per le donne, il torneo di Wimbledon, annoverando solo Rita Grande in una finale, tra l’altro persa nel ’93 per mano della belga Feber.

Il museo ha mille altri motivi per essere visitato. Dalla realtà aumentata che catapulta in campo, ai cimeli dei grandi che l’hanno vinto, come Sampras e Federer, recordman con 7 affermazioni, e Navratilova con 9. Ci sono poi le sorelle Williams che portarono personalmente i loro completini e visitarono il museo. L’abbigliamento così modaiolo di Borg, la storia di Lacoste che dal campo di gioco è poi passato a costruire un impero nell’abbigliamento tecnico, acquisendo nella sua scuderia Novak Djokovic, recentemente. C’è anche la possibilità di indossare i capi storici, quelli con cui si giocava a tennis negli anni ’30, o ammirare filmati d’epoca, e mettere il naso in un’antica falegnameria in cui si costruivano racchette nei decenni scorsi. Anche la storia e l’evoluzione di racchette e palline ha un fascino misterioso, ti avvicina ai colleghi delle partitelle, ma anche ai campioni che le hanno testate, usate, maledette. Degna conclusione del tour, la coppa e il piatto, i simboli dei vincitori, dei campioni assoluti che per un anno saranno idolatrati, ammirati, odiati forse dai rivali, ma soprattutto rispettati, perché non si vince per caso un torneo così importante, perché non sarà per caso che verranno ricordati. Vincere Wimbledon è abbracciare idealmente tutti i campioni passati, è entrare nell’olimpo, è lasciare per un istante la terra, sollevare al cielo le braccia, e sentirsi per un attimo vicini al maggiore Wingfield, ringraziandolo per avere inventato lo sport più bello che ci possa essere, eterna metafora della vita.

Antonio Petrucci

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