Nadal, il ritorno: «Felice, ho sofferto più degli altri» (Crivelli). Perché Nadal è tornato re del tennis mondiale (Bertolucci). Zverev va veloce (Semeraro). Azarenka, niente US Open: «Scelgo Leo» (Tuttosport). Guardare il tennis dall’alto in basso (Carotenuto)

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Nadal, il ritorno: «Felice, ho sofferto più degli altri» (Crivelli). Perché Nadal è tornato re del tennis mondiale (Bertolucci). Zverev va veloce (Semeraro). Azarenka, niente US Open: «Scelgo Leo» (Tuttosport). Guardare il tennis dall’alto in basso (Carotenuto)

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Nadal, il ritorno: “Felice, ho sofferto più degli altri” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Quattro come le volte (almeno) che è risorto dalle proprie ceneri, fenice spagnola con la volontà di un leone indomabile; quattro come le vite agonistiche che si è regalato e ha regalato al mondo. Di fronte ai fenomeni, il passato evapora, lascia memorie labili: così, nella stagione in cui il tennis torna indietro di almeno un decennio glorificando la più bella rivalità di sempre, tra Federer e Nadal, nessuno pensa più a dove fossero i due eroi soltanto un anno fa, a leccarsi ferite e a macerarsi nei dubbi. E il numero uno ritrovato da Rafa, per la quarta volta in carriera, sembra soltanto l’atto dovuto di una stagione incredibile e impensabile. Lui e Roger se la giocheranno fino alle Finals di novembre e il divertimento, statene certi, non mancherà. Da Cincinnati a Cincinnati, sono trascorsi giusto nove anni: il 18 agosto 2008, carico della gloria del Roland Garros e di Wimbledon (domato per la prima volta), il maiorchino debuttava al vertice della classifica proprio durante questo torneo. Lunedì, esattamente dopo nove anni e tre giorni, si siederà sul trono cancellando il record di Connors, capace di recuperare la vetta dopo 8 anni, 11 mesi e 4 giorni dalla prima volta (29 luglio 1974, 3 luglio 1983). Giusto così: Rafa ha vinto quattro finali nel 2017 (tra cui la Decima a Parigi), ne ha giocate altre tre e ha vinto più partite di tutti, 48. L’ultima la notte scorsa contro Gasquet, l’avversario ideale per festeggiare il traguardo: lo ha battuto per la 15′ volta su 15 e non ci perde un set dal 2008. «E’ sempre importante vincere all’esordio, giocare sapendo di essere comunque numero uno non mi condiziona, l’obiettivo resta far bene qui e anche agli Us Open. Tornare in vetta, dopo tutto quello che è accaduto in mezzo, è molto importante e mi dà tante emozioni. Ho lavorato duro per concedermi un’altra possibilità. Sono davvero felice. E se sono felice e sto bene di salute, non c’è motivo per cui io non continui a giocare a lungo. Amo il tennis e ho passione per quello che faccio, quando non accadrà più, smetterò». Sembra quasi un messaggio rivolto agli assenti illustri di questo momento particolare: fate come me, non perdete mai la voglia. Del resto, nessuno ha conosciuto il dolore come lui: «Il calendario non c’entra con gli infortuni, è lo stesso da vent’anni. Il problema è che siamo noi a non avere più vent’anni, e può succedere di fermarsi. Ma io mi sono ritrovato in situazioni simili più volte degli altri: Federer non ha avuto molti infortuni in carriera, stessa cosa per Murray, Djokovic e Wawrinka. Sono io che ho saltato più tornei di tutti». Versione confermata da zio Toni: «Gli infortuni hanno favorito il ritorno al numero uno, ma anche Federer e Djokovic erano avvantaggiati dagli infortuni di mio nipote. Il primato non era uno dei nostri obiettivi, ma adesso dà una motivazione extra. Ora bisogna portare a casa vittorie. Dobbiamo cercare di giocare bene a Cincinnati, ma soprattutto fare un grande Us Open, che è l’obiettivo principale da qui a fine stagione». Nadal trascorrerà sicuramente 21 giorni al vertice, fino al termine di New York, salendo a 144 settimane da numero uno. Vincendo a Cincinnati, allungherebbe il vantaggio su Federer a oltre mille punti. Ma nei giorni in cui Djokovic rivela di «essere consumato» gettando ombre sul futuro e Judy Murray confessa che il figlio «difficilmente giocherà ancora a lungo», la sfida tra i titani Rafa e Roger pare solo all’inizio. Saranno tre mesi di fuoco. Il cielo li abbia in gloria.

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Perché Nadal è tornato re del tennis mondiale (Paolo Bertolucci, La Gazzetta dello Sport)

All’età di 31 anni e dopo quattro di assenza Rafa Nadal torna a sedersi sul trono del tennis mondiale. Niente di clamoroso dopo che Djokovic si è fermato ai box, con Murray ancora alle prese con il recupero dopo gli sforzi del 2016, con il discontinuo Wawrinka appena operato e con un Federer bisognoso di centellinare gli impegni. In cima al mondo si arriva incamerando punti settimana dopo settimana e fin da Melbourne si era capito che lo spagnolo sarebbe tornato ad essere un protagonista assoluto nel panorama tennistico: la campagna sul rosso ha solo confermato quelle impressioni. Rafa è da tutti considerato il più grande di sempre sulla terra battuta e il decimo titolo parigino è la conferma ma non dobbiamo dimenticare che è stato capace di domare per due volte anche l’erba di Wimbledon e il cemento di New York. Il suo è un tennis di sofferenza costruito sul lavoro dove ogni colpo, ogni rincorsa, ogni recupero rimandano alla dedizione. Lui è un guerriero alla continua ricerca del successo non ama gli effetti speciali ma si affida alle pile inesauribili che si ricaricano a ogni punto guadagnato. Guai a catalogarlo elencando i muscoli, il sudore e gli schemi geometrici. Rafa, nel corso degli anni, si è evoluto inserendo nel proprio arsenale nuove soluzioni e un tennis meno legato all’attesa. Il servizio è maturato, negli scambi di rimbalzo si apprezza il bilanciamento e il dritto ha continuato a fare la differenza. Impareggiabile nel gestire le vittorie lo spagnolo accetta lucidamente le rare sconfitte e dopo le cadute si rialza più determinato di prima. Si adatta a tutte le situazioni e appare unico nel risolvere al meglio il corpo a corpo mostrando la classe cristallina che solo i fenomeni sanno mettere in mostra nei momenti salienti del match.

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Zverev va veloce (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Vi fidate dei numeri? Credete alle statistiche? Provate con queste: Alexander Zverev fino ad ora ha giocato quattro volte contro Roger Federer e ha vinto due volte. Quest’anno, poi, per il momento, è stato l’unico batterlo in finale: l’unica persa dal Genio, su sei giocate, è arrivata pochi giorni fa a Montreal. Il sesto titolo Atp vinto dal tedesco, il suo secondo Masters 1000 in carriera. Solo numeri, o qualcosa di più? Sin da quando è apparso nel radar dei guardoni professionisti del tennis, Sascha si è trovato addosso l’etichetta del Predestinato, del futuro numero 1, e in questo 2017, alla sua quinta stagione da professionista, il ragazzone di Amburgo sta confermando sia per quantità sia per qualità l’opinione di chi convinto che nei prossimi dieci anni nel tennis sarà soprattutto lui l’uomo con cui fare i conti. Tanto per dire: alla sua età – ha compiuto 20 anni il 20 aprile – fra i Fab Four solo Nadal aveva fatto meglio di lui. Ma il Niño è stato uno dei fenomeni di precocità più clamorosi della storia, un mostro di bravura che a 20 anni e 4 mesi si era già messo in tasca 2 Slam, 6 Master 1000, e complessivamente 17 titoli Atp. Tolto il Cannibale, Zverev quest’anno però ha già fatto pari e patta con Djokovic (6 tornei Atp di cui 2 Masters 1000) e superato in carrozza sia Murray (2 Atp), sia il fanalino di coda Federer (un solo titolo Atp, a Milano). È vero: i Fantastici Quattro si sono dovuti fare avanti sgomitando con una concorrenza apparentemente più agguerrita di quella attuale, anche se l’esplosione di Shapovalov e la maturazione di Rublev, Khachanov, Medvedev e Tiafoe potrebbero cambiare lo scenario. E Sascha deve ancora migliorare quanto a continuità, visto che quest’anno gli è già capitato tre volte di inciampare al primo turno dopo una vittoria: a Rotterdam con Thiem dopo il successo a Montpellier, al Roland Garros con Verdasco dopo il centro al Foro Italico, e con Tiafoe a Cincinnati due giorni dopo il trionfo canadese. Ma il numero 7 nel ranking mondiale e il 3 nella Race, appena dietro Rafa e Roger, con la qualificazione matematica per il Masters di Londra ormai a tiro (un migliaio di punti), sono il timbro definitivo di un’eccellenza non casuale. «Non sono ancora al livello dei Fab Four», ha detto a Montreal, «ma sto crescendo. E una cosa è certa: valgo un posto nei Top Ten». Facciamo qualcosa di più, Sascha.

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Azarenka, niente US Open: «Scelgo Leo» (Tuttosport)

La vicenda era emersa giorni fa: Vika Azarenka si è separata dal compagno e la lotta per l’affidamento del figlioletto le impedisce di giocare. Così Victoria rinuncerà anche agli Us Open. Lo ha annunciato via Facebook: «I fan e amici meritano di sapere. Il giorno in cui mio figlio Leo è nato, nel dicembre 2016, è stato di gran lunga il più felice della mia vita. Tuttavia, come la maggior parte delle madri che lavorano, nonostante il mio amore incondizionato, mi trovo ad affrontare una situazione difficile che non mi permetterà di ritornare in campo subito. In Bielorussia, a marzo, ho iniziato a lavorare con l’obiettivo di tornare a competere ad alto livello entro il 31 luglio. Sono riuscita a tornare presto, giocando a Maiorca e poi a Wimbledon. Poi il padre di Leo e io ci siamo separati e, mentre lavoriamo per risolvere alcuni cavilli legali, l’unico modo per giocare gli Us Open sarebbe lasciare Leo in California: cosa che non sono disposta a fare».

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Guardare il tennis dall’alto in basso (Angelo Carotenuto, La Repubblica – Venerdì)

Il povero signor Edward James lasciò quella mattina del giugno ’81 la camera d’albergo senza sapere ancora che stava arrivando un giorno speciale. Pettinò come al solito i capelli bianchi con la riga di lato, mise gli occhialetti e salì felice in cima al suo ufficio, un seggiolone a due metri d’altezza piazzato ai bordi del prato verde di Wimbledon, dove sarebbe finito per un istante e per sempre nella vita di John McEnroe, da lui insultato come “un pazzo incompetente”, “un’offesa verso il mondo”, anzi “the pits of the world”, come dire, la cosa peggiore sulla faccia della terra. “You cannot be serious”, non puoi dire sul serio. La frase con cui John protestò, tanto celebre da diventare il titolo della sua biografia e il marchio della sua fabbrica di neurodeliri, se la prese in faccia questo pacioso dentista gallese, che per una trentina di settimane l’anno faceva il giudice arbitro di tennis. Il primo nella storia a uscire dall’anonimato. Il mondo visto dall’alto di una sedia è fatto di linee bianche da sorvegliare e palline gialle di cui non perdere traccia, traiettorie che ormai viaggiano oltre i duecento chilometri orari da seguire con lo sguardo nell’aria, da sinistra a destra, da destra a sinistra, collo e testa che si spostano per almeno un paio d’ore. Lavorano per restare invisibili, ci accorgiamo di loro solo quando sbagliano. Hanno da sempre un microfono per aggiornare il risultato e chiedere alla folla di calmarsi («quiet, please»), ogni tanto un ombrellone per proteggersi dal sole, un telefono per ordinare gli asciugamani, un palmare, una radio e un auricolare. Fanno anche centomila chilometri in un anno per arbitrare una o due volte al giorno, partite dalla durata imprevedibile e con un’attesa tra l’una e l’altra incalcolabile. Un universo a parte. Esiste una rigorosa gerarchia contrassegnata da colori dentro questo mondo di uomini e donne che si sono scelti gli stessi ritmi confusi di Federer guadagnando migliaia di volte di meno: secondo una scala di bravura e di impegno, tra i 1.000 e i 3.500 euro al mese, spese per vitto e alloggio a parte. Ogni arbitro ha un badge che va dal bianco all’oro, il bronzo e l’argento sono i gradi intermedi. L’oro consente di arbitrare le partite più prestigiose, come le finali di Slam, ed è in tasca a 30 persone in tutto, 21 uomini e 9 donne. Si comincia dai livelli nazionali, dopo il corso che ciascuna federazione tiene nelle proprie scuole, si sale al gradino superiore fatto di piccoli tornei e di manifestazioni giovanili, e un po’ più su c’è questa vita da globetrotter. Il brasiliano Carlos Bernardes, uno che ha arbitrato cinque finali di Slam e quattro Olimpiadi, iniziò perché il papà era morto e servivano soldi per mandare avanti la famiglia. Ne sapeva di tennis, aveva giocato, e a sedici anni dava lezioni, finché il giornale locale annunciò che la federazione cercava con urgenza 139 arbitri. È l’uomo che due anni fa al torneo di Rio fece arrabbiare Nadal. Lo autorizzò a rientrare negli spogliatoi per cambiarsi i vestiti inzuppati di sudore, ma quando Nadal tornò con la maglietta asciutta e i pantaloncini bagnati ancora addosso, gli negò un secondo permesso e lo obbligò a toglierseli sul campo, con un telo legato intorno ai fianchi. Mohamed Lahyani, svedese, studiava invece per diventare chef e insegnante di educazione fisica. Ha preso una terza via. Lahyani teorizza che una delle doti di un arbitro è la voce: «Mai sovrapporsi al boato della folla». Come del resto sa bene Lynn Welch, fino a qualche anno fa la sola americana con il gold-badge, il giudice di sedia con la voce più bella del mondo. Una tv statunitense mandò in onda uno sketch in cui un pupazzo si innamorava di lei al suono dell’annuncio «time», la parola con cui i giocatori vengono richiamati in campo dopo il riposo. La greca Eva Asderaki-Moore, prima donna ad aver arbitrato una finale maschile a New York (2015), dice di aver visto posti incredibili nel mondo. «In cambio mi sono persa i compleanni dei miei amici» racconta, «ormai hanno smesso perfino di invitarmi, perché immaginano che io non ci sia mai». Si parte il giovedì e si rientra a casa a fine torneo, tredici giorni dopo, il martedì. Il tempo di rifare i bagagli e si ricomincia. L’Italia ha quattro arbitri di alto livello: Gianluca Moscarella (gold-badge), Manuel Messina, Damiano Torella e Cecilia Alberti. Il più popolare rimane Romano Grillotti, oggi settantenne, che si è ritirato nel 2007 dopo 25 anni di attività e settemila partite, compresa una finale Federer-Nadal al Foro Italico. Dice che non si diventa un buon arbitro azzeccando le risposte alle 32 domande del questionario a scuola. Conta di più avere equilibrio sulla sedia, la giusta relazione con i giocatori. «A me piaceva arbitrare quelli più burrascosi come Jeff Tarango. Devi conoscare i toni giusti quando un giocatore d’esperienza viene a pressarti cercando di farti pesare il suo nome. Io ho cominciato a 37 anni, mi dissero che era tardi, che non ce l’avrei fatta mai, ero già sposato, e sentivo di essere in pace con me e con il mondo. Non avevo conflitti interiori da risolvere e questo mi ha aiutato. I più giovani magari all’inizio faticano». Grillotti ha imparato col tempo che ai giocatori non si deve dire mai: la palla è fuori. «Meglio dire “io ho visto la palla fuori”. Le parole giuste aiutano a costruirsi una credibilità. Mai sporgersi dalla sedia, mai ritrarsi. La tecnologia ha ridotto il rapporto con i giocatori, ci sono meno discussioni. Per una palla incerta si va a guardare l’occhio di falco, ma ci sono colpi che escono di millimetri e che la macchina considera buoni. Un giorno ho messo una pallina sotto la mia sedia: la camera che inquadrava da una sola posizione la considerava in campo». Una vita di molte rinunce, dice Grillotti: «Chi si fa accompagnare dalla fidanzata arbitra peggio. Se hai un match fissato alle otto e lei chiede a che ora torni, tu cosa gli rispondi? Qualcuno si porta dietro i figli piccoli che piangono: un macello. In 25 anni, mia moglie mi ha seguito due volte, ed era meglio se rimaneva a casa». Poi c’è il sacrificio più alto. «A Wimbledon ho arbitrato un match durato 5 ore e 45 minuti. Meglio non bere troppo prima del match, così non devi andare a fare la pipi. Può capitare di dover scendere dal seggiolone e scappare in bagno, ma a me non è successo. L’importante è sbrigarsi, non come i tedeschi che escono con flemma e rientrano col passo di Wanda Osiris».

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