Post to post: inizia un anno di tennis in rete. Murray, ci manchi!

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Post to post: inizia un anno di tennis in rete. Murray, ci manchi!

Né pietra filosofale, né male assoluto, i social guardano da anni al mondo del tennis. Tanto vale contraccambiare l’interesse. Andando a pescare, fra i tantissimi post, quelli che possano stimolare, divertire. O fare notizia

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“Fosse stato per me, i social avrebbero subito il destino di un tamagotchi qualsiasi”, dice il nostro amico, senza neanche staccare gli occhi dal suo smartphone. Deve essere uno di quelli affetti da cervicale precoce, come testimonia il collo, perennemente piegato a 45 gradi. E dire che avevamo malignato su quella postura, pensando subito a un’intensa attività di likingfollowingretweeting, sharing, le cosacce di cui ben sappiamo. Che riempiono le nostre giornate, animandole con continui trilli, arpeggi, gong vari a scimmiottare i suoni della quotidianità. Insomma, la cacofonica colonna sonora dei socializzatori solitari.

Comunque sia, fra tecno-entusiasmo e catastrofismo, i social esistono, proliferano, coinvolgono. E, spesso, ci informano. Possiamo minimizzarne l’importanza. Sottolineare quanto la stringatezza e la multimedialità imposte da queste piattaforme stridano con la vocazione all’approfondimento della carta stampata. Ma vale comunque la pena di tenere d’occhio questa porta, dalla quale passa un flusso ininterrotto di informazioni, non tutte da farti saltare sulla sedia – sia chiaro. Ed è proprio l’obiettivo di questa rubrica: parlare di chi parla via social dell’argomento che più ci appassiona. Che lo faccia con foto e video corredati da didascalie, o in 280 caratteri, compresi chiocciole cancellettinon ha tutta questa importanza. Se la notizia c’è.

Certo, nulla vieta di adottare un approccio luddista all’argomento. Rifiutare l’ineluttabile avanzare della tecnologia, moloch erroneamente considerato inarrestabile, che persegue finalità opposte a quelle dei suoi inventori. Scopi molto poco social (gira che ti rigira, sempre lì si va a parare). Soprattutto ora che le fake news hanno rovesciato l’etichetta libertaria applicata inizialmente alle nuove forme di comunicazione. Svelandone un cupo lato B, che rimanda a trame oscure di oligarchie votate a influenzare l’opinione pubblica attraverso la disinformazione. Altro che democrazia. Ma, fatti i distinguo del caso, sarebbe come deplorare l’esistenza delle automobili, in quanto strumento di morte. Dato incontrovertibile, che però non ha mai comportato la loro messa al bando.

Vista dalla cabina di commento riservata ai narratori del circuito tennistico, la questione prende la via della praticità. Non è certo un segreto che le redazioni, tutte, si abbeverano alla fontana dei social. Perché, i cinguettatori, quelli affidabili, sono fonti. Informate sui fatti perché dentro i fatti. In molti casi, redattori loro stessi, che utilizzano la duttilità di Twitter, Facebook, Instagram e simili per fornire spunti, scoop, retroscena, o semplicemente curiosità. A pochi minuti da quando avvengono. O addirittura mentre succedono. Posto che abbiano alzato la testa dallo smartphone in tempo.

L’intrico di post, citazioni, traduzioni non sempre fedeli, rischia di trasformare l’avventura social in una riedizione planetaria del telefono senza fili. Il giochino dove si passa in cinque minuti da “Toni Nadal pensa che il nipote avrebbe potuto vincere anche da destro” “Lo zio arrogante si attribuisce il merito delle vittorie di Rafa“. La finalità di questo spazio non è certo quella di rappresentare una bussola per i socialnauti, ma condividere i post interessanti proposti dalla settimana tennistica. Che siano commenti di influencer o di semplici sportivi della poltrona. Che si tratti della notizia del giorno o di una spigolatura da Forse non tutti sanno che. Trattando i social per quello che sono: il mezzo e non il fine. Per informare, ridere o – perché no – approfondire. È la stampa ai tempi dell’hashtag, bellezza!

 

CI PUOI CONTARE

Non c’è categoria peggiore dell’amico che vuole una puntata sicura. Per fare un gruzzoletto. Pochi soldi, ma garantiti. Ed eccolo lì che ti chiama chiedendoti il cavallo buono. A te, che sei esperto. Twitter è anche il luogo dei pronostici. E i post hanno a volte i tempi di obsolescenza di un’epigrafe scolpita nel granito. In questo caso, Ben Rothenberg, stimato columnist del New York Times, più che spingersi, si adagia cauto in una previsione immersa nel buonsenso fino al midollo. Lo stesso buonsenso che lo invita a usare il condizionale. Kiki Mladenovic, preda di una spaventosa crisi di risultati, ha pescato bene a Sydney. La numero 343 del mondo in un tabellone zeppo di nomi importanti. Dovrebbe (fra asterischi) vincere. Vuoi che non interrompa l’orrenda serie di 13 sconfitte consecutive? “Sì, lo voglio”, hanno risposto in coro gli dei del tennis.

Come diceva l’aruspice capo Rino Tommasi, i pronostici li sbaglia solo chi li fa. E questo anche quando l’informatica era roba per ingegneri in camice. Intenti a ottenere scontrini da elaboratori grandi quanto una parete. Nulla è cambiato ai tempi del web. Guardando dalla prospettiva social, sarebbe stupido ancor prima che infantile, non ammettere o glissare sul averne sbagliato uno. Anche perché a ricordarglielo ci penserà l’onda lunga dei LOL, che si propagherà indisturbata per l’enorme stagno virtuale dopo il lancio sbagliato del sasso. E allora tanto vale tornarci sopra e… riderne. Come fa, giustamente, Rothenberg. Il bello è proprio questo. Con tutti i margini che il tennis concede al giocatore più forte, siamo ancora qui a parlare dei vari Doohan, Söderling, Bastl. E siamo ancora qui a fare pronostici, mentre c’è ancora qualcuno che puntualmente ci chiede la puntata sicura. Ah, già che siamo in tema di dritte: il banco vince sempre.

 

ASTENERSI DEBOLI DI CUORE

È appena passata l’Epifania, che sostanzialmente fa rima con glicemia. E post ad alto tasso di glucosio, come quello dell’utente RashmiK01 sembrano un vero e proprio attentato alla salute. Ma, si sa, la passione sportiva rifiuta la morigeratezza. Allora, andiamo dove ci porta l’emoticon. Quei favolosi quattro ci hanno fatto, chi più, chi meno, vivere tre lustri di tennis incredibile. E si capiscono anche i vaticini catastrofici sul futuro di questo sport non appena il più longevo di loro avrà colpito l’ultima palla. Anche se un minimo di memoria storica smonta immediatamente l’argomento. L’atletica non è finita dopo che Jesse Owens si è ritirato, il nuoto ha retto benissimo all’abbandono di Phelps. E il tennis mostrerà lo stesso cinismo nell’abilità di rigenerarsi, lasciando i celebri quadrunviri a discorsi da hall of fame e alla contemplazione delle proprie bacheche.

Nel frattempo, prima di recitare il de profundis, rischiano di passare diversi anni. E parecchi slam ancora. Ma non per tutti. Da un lato, Federer si trova sempre più a suo agio nella parte del Papà buono – fra un po’, a Mirka piacendo, adotta anche la Bencic. Genitore magnanimo. Sì, ma, fra sorrisi e bagni di folla, se solo i figli provassero a batterlo al torneo di freccette della scuola scoprirebbero il sapore di una vita senza Nintendo Switch per almeno tre mesi. Su altri fronti, diciamolo, è difficile decidere dove archiviare le ultime dichiarazioni di Nadal e Djokovic, se nel cassetto dell’acciacco o in quello della pretattica. Infine, c’è il caso Murray, sulla cui sorte molti sollevano ragionevoli dubbi. Il campione scozzese ha finalmente deciso di operarsi. E spera di poter tornare per l’amata stagione erbivora. Tutti se lo augurano, sinceramente.

Ma si può dire che la mistica dei Fab Four ha un po’ stufato? Alzi la mano chi non sogna di vedere la scintilla della predestinazione illuminare lo sguardo di uno dei tanti nuovi pretendenti. Non certo nel campionato dei piccoli, con tutto il rispetto, No, là dove si gioca il tennis che ricorderemo. Ognuno parteggi per chi vuole. L’apollineo Tsitsipas? Le fiondate estemporanee di Shapovalov? Le trame dell’apolide De Minaur? Fate voi. Quello che vogliamo, in fondo, è assistere all’imprimatur della nuova stella da parte del gotha. Per poter dire: “Io c’ero”.

 

SCUSATE, MA CI SAREMMO ANCHE NOI

Ora che la loro generazione sta finalmente abbandonando quella terra di mezzo, e che non sono schiacciati tra i mostri sacri e i giovanissimi rampanti, snobbarli sarebbe irriguardoso. Hanno aspettato tanto, titubato troppo. E, messa finalmente la freccia per superare chi li ha sempre soverchiati, accetterebbero di farsi scavalcare a sinistra da un Rublev o un Chung? L’immagine di Grigor Dimitrov dice molto della determinazione e della consapevolezza che è ora o mai più (forse, Wawrinka docet) il tempo di vincere. E non basta un Masters 1000, non le ATP Finals. Obiettivi che solo 12 mesi fa potevano apparire chimere, adesso non li accontentano più. E, allora, diamoci dentro con i carichi di lavoro. Non è questa la stagione del dubbio, delle etichette scomode, dell’anoressia agonistica.

Grisha come rappresentante di chi pretende un posto al sole. Dell’Australia, degli Usa. Dell’Europa del mattone tritato. E via dicendo. E poi il diversamente normale Goffin, ma anche Raonic, che potrebbe vivere due settimane alla Krajicek. Altri? Sì, Cilic, perché chi si contenta gode, ma poco. Non abbiamo dimenticato Kyrgios. Il punto è che l’australiano è sfuggente per natura, è difficile persino incasellarlo anagraficamente. Dove metterlo? Fra i vincenti. E pensiamo possa bastare. Una schiera di campioni degni e fin troppo oscurati dall’ossessione di media e tifosi per Decime e collezionisti di major. Quella recordite contro la quale la generazione di mezzo potrebbe rappresentare un buon antidoto. E farci godere di un Happy Slam.

 

 

 

 

 

 

 

 

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