Baricco A., Essere Roger Federer, Robinson (inserto di Repubblica), 2017
Tra gli infiniti record di Federer ne andrebbero menzionati almeno altri due: ha reso molto più tollerabile l’omosessualità e ha generato un vero sottogenere letterario. Sul primo c’è poco da dire, siamo tutti un po’ più omosessuali quando gioca lo svizzero, il secondo invece testimonia quanto Roger sia ormai fuoriuscito dall’orbita del semplice sport per entrare in un orizzonte più ampio, del quale non si vedono ancora i confini. Se per gli intellettuali scrivere di sport è da sempre una pratica comune – lodato sempre sia lodato Clerici – negli ultimi anni si è generato un vero sottogenere letterario che si potrebbe descrivere così: vado a vedere Federer e racconto quello che vedo. E provo. E penso. Nel misterioso contrasto tra quei gesti così semplici e puliti (per lui), e così impossibili (per noi), si scatenano le affinità segrete tra una pallina e il mondo. In due parole la letteratura. Quella capacità speciale di mentire sempre centrando matematicamente la verità segreta delle cose. Il sottogenere è stato inaugurato da Davis Foster Wallace e trova in Baricco l’ultima puntata. In mezzo episodi meno conosciuti, divagazioni filosofiche, una marea di blog e almeno un caso che conosco molto bene perché l’ho scritto io. Non stavo molto bene e ho deciso di andare a Federer dal vivo come terapia psicanalitica. Giuro. [1]
Quello che differenzia questo sottogenere letterario dalla marea di pagine scritte su Federer è questa: non si tratta di scrivere su Federer e inventare aggettivi nuovi, ma di andare a vederlo dal vivo e raccontare un’esperienza che, nell’epoca della riproducibilità digitale, ha i crismi auratici dell’unicità. Come un concerto di Paganini o essere stati a Woodstock nell’estate dell’amore del 1969, o andare alla mecca se siete musulmani. Se volete è la stessa differenza che c’è tra vedere sul vostro tablet la Gioconda e prendere il treno, andare a Parigi, fare due ore di fila e trovarsi davanti a quello di cui tutti parlano. Il viaggio s’incorpora con l’opera diventando un pellegrinaggio laico, con la sensibile differenza che una partita di Federer è un’opera d’arte aperta, in movimento e col finale non scritto (vero mr. Nadal?). Se di Wallace [2], di Scala [3] e del mio umile libello [4] in questa rubrica abbiamo già scritto, analizziamo oggi Baricco, il nuovo iscritto al Club dei pellegrini laici.
Premetto che con Baricco ho un rapporto conflittuale. Folgorato dal suo esordio letterario, non ho mai più trovato nei suoi libri un aggancio. Troppa intenzione, troppo stucchevole, troppo sabaudo forse, tranne quando esce dalla forma libro ed entra nella comunicazione più diretta col lettore. Lì da punti a quasi tutti. Il circolo Pickwick è stata la più bella trasmissione di libri di sempre, la sua immersione narrativa nello stadio River Plate è fantastica, la sua spiegazione dell’invasione pop dei nuovi Barbari è tremendamente efficace e il pezzo su Federer si colloca in questa direzione. Cliccate sul link in testa al pezzo e buona lettura. Sono solo un paio di pagine. Già dall’incipt si capisce il tono dello scritto: “Ci sono molti modi per scoprire cos’è la solitudine, ma solo due prevedono che lo si faccia in compagnia di un’altra persona e costretti in pochi metri quadri: il matrimonio e il tennis”. Non male vero? Per farci capire invece dove siamo la frase è questa: “Giuro che se Dio giocasse sarebbe socio lì, e non avrebbe neanche l’armadietto migliore”. Oppure: “Fatta eccezione, forse, per la sala da pranzo di mia madre, non vi è niente di più ordinato, al mondo, di Wimbledon. Anzi, a essere precisi non è neanche una questione di ordine: è piuttosto l’inaudita pretesa di ricondurre a una disciplina certa ogni frammento della realtà, che siano i fiori di un’aiuola o il flusso di migliaia di persone quando parte l’acquazzone”. Applausi signor Baricco. Senza spostarci di un millimetro cominciamo a visualizzare prati come biliardi, trifogli, gesso, uomini elegantissimi, donne dai cappellini discutibili e il tintinnare delle tazzine da tè.
La cosa più bella di questo sottogenere letterario è la capacità di osservare tutto quello che sfugge alla cronaca. “Tutto il tennis del mondo finisce sempre in un errore, è inevitabile. Lo scopo stesso del gioco, è un errore: gratuito o forzato, idiota o sublime, ma sempre un errore. Quindi, riassumendo, questo sembra essere il piano: mettono su un’enorme cattedrale dedicata all’ordine, costruita fin nei dettagli con la pietra dura della perfezione, e lo fanno per custodire, nel cuore di tutto, un errore. Geniale”. E tutta sta meraviglia funziona come caricamento drammaturgico nell’attesa di vedere l’oggetto di pellegrinaggio: Roger Federer.
Quello che vede la letteratura è invisibile alla cronaca. Lì c’è la tensione del risultato, l’esultare per un punto, la disperazione di un break, la meraviglia di una volée, insomma “la partita”. Qui è la cosa infinitamente meno importante (per la cronaca quel giorno Federer giocava con Dolgopolov). Se volete un paragone è come trovarsi davanti ad un quadro impressionista. Non è la realtà in sé a emergere ma il suo tuono nella tela. Nell’inchiostro dello scrittore c’è questo: “Molte cose, anche, compaiono dal nulla: pezzi di campo che non c’erano, salti di tempo che non conoscevi, angoli che non risultavano in nessuna geometria. Questa è una cosa che adoro dei grandi, di quelli che sono veramente grandi. Quando dribbla Messi, ad esempio, tu percepisci nitidamente la sparizione in lui di un pezzetto di tempo: lui lo deglutisce e quello sparisce proprio. Se ti capita di nascere in quell’istante, non nasci, secondo me. È un battito mancante, lo stesso che divide eternamente Bob Dylan dal tempo giusto di una canzone e Céline dalla frase che un altro avrebbe scritto e lui invece accartocciava. Rubano un tempo, non so se mi spiego. Altri, il tempo, lo dilatano: Michel Jordan che rimane in aria, le frasi fluviali di Conrad, le melodie di Bellini. Tutta gente per cui il creato è una cosa ancora da finire: per noi è la regola invalicabile del gioco. Per noi se una cosa è solida, è solida: non scriviamo versi liquidi come Petrarca; e se è imprendibile, è imprendibile: non facciamo diventare la luce qualcosa di toccabile, come i quadri di Hopper. Va così.”
Insomma il grande dono della letteratura è rendere visibile le cose invisibili. Guardare giocare Federer è meraviglioso, guardarlo dopo aver letto Wallace, Clerici, Baricco è come mettersi dei fottuti occhiali 4D e godere dell’esplosione di una realtà aumentata. Che ad aumentare la realtà sia un po’ d’inchiostro su un foglio bianco non è un retaggio antico destinato a scomparire con Internet ma la costante di un’umanità che sarà tale solo finché ci sarà qualcuno in grado di raccontarla. Il cantore, diceva Wenders, è più importante della storia. Senza Omero non sapremmo nulla né di Achille, né di Ettore e la guerra di Troia sarebbe solo una tra le tante. Buon anno dalla Piccola Biblioteca.
[1] Per la cronaca ha anche funzionato
[2] Vedi qui
[3] Vedi qui
[4] Vedi qui
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