La Roma a cui il tennis non importa

Editoriali del Direttore

La Roma a cui il tennis non importa

ROMA – Ha vinto Nadal, ha perso Zverev. Ma attorno ai campi del Foro c’è una vita che vale la pena di essere ammirata

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da Roma, il nostro inviato

Buongiorno, caffè?“. Per una settimana il Foro Italico è casa, la sala stampa una camera con scrivania, i colleghi sono coinquilini. È una bolla estemporanea che vive il tempo di un torneo, e si alimenta dell’energia umana di chi la popola, fortissima soprattutto perché in pochi si conoscono e tutti hanno da dire e dare qualcosa. L’intero parco del tennis ribolle nel sole bollente che ha preso il posto dei nuvoloni neri, una marea di anime che si mescolano per diciotto ore al giorno, ognuna fondamentale per l’altra pur senza conoscerne l’esistenza. C’è un lato umano di valore sterminato intorno ai campi, di quelli che fanno imbestialire e riconciliare con l’esistenza, allo stesso tempo.

C’è un tennista che sembra un passante qualsiasi. Magro, con il naso a uncino e un sorriso un po’ stralunato. Albert Ramos ha perso al terzo turno contro Novak Djokovic, dopo una vittoria-battaglia di quasi tre ore (e altrettanti tie-break) vinta con John Isner. Djokovic è calante, o quantomeno lontano dai suoi massimi, si sa. Molti indicano la sua mancanza di serenità come motivazione principale, non è tranquillo e quindi non vince, al di là dello stop per infortunio. Di certo non è facile bilanciare vita privata e frenesia del tour, c’è sempre un gran casino da gestire tra campo, media, tifosi. Ramos però non ha idea di cosa voglia dire: “Non posso giudicare la sua situazione personale. Io non sono così famoso, posso andare dove mi pare e non ho lo stress di essere assalito da pubblico e fotografi, non ho l’ansia di essere sempre controllato. E comunque faccio una vita abbastanza normale, mangio fuori, mi alleno. Niente di che”. Quando i big arrivano al Foro sono scortati dalla security. Quando ci arriva Ramos sembra uno sparring qualsiasi.

Undici vincitrici Slam si erano presentate allo start. Lo scorso anno si erano iscritti due nuovi nomi al club: Jelena Ostapenko al Roland Garros, Sloane Stephens agli US Open. Entrambe under 25, sorridenti, spigliate. Personaggi interessanti, una ballerina di sala, l’altra attaccatissima alla madre e ricostruitasi dopo un brutto infortunio che l’ha costretta immobile per mesi. Due vittorie all’esordio per entrambe, due conferenze stampa. Un solo giornalista. Nessuno si è presentato per le dichiarazioni di due campionesse Major in carica: Ostapenko ha esultato scappando (“Nobody wants to talk to me!“), Stephens ha risposta all’unico presente commentando che ci è pure abituata. “Non è la prima volta, almeno posso andare subito a fare la doccia”.

Ci sono decine e decine di ragazzi e ragazze, uno più bello dell’altra nei loro completi neri elegantissimi. 5,40 euro l’ora, due turni che vanno dalle sette alle sedici e dalle sedici fino alla fine della giornata: potenzialmente anche dopo mezzanotte. Indirizzano le auto al parcheggio, smistano il pubblico, gestiscono ingressi e biglietteria, controllano che la tribuna stampa non sia occupata da chi non è autorizzato. Ma soprattutto chiacchierano, scherzano, si confidano e si raccontano. Uno si laurea in settimana, un’altra lotta per se stessa e con il suo futuro, tra università e incertezze. Un microcosmo di vite giovani che con il tennis non hanno il minimo contatto e per i dieci giorni di torneo abitano e animano il Foro.

C’è Nadal incazzato nero. Già nella conferenza pre-torneo era stato lapidario, quasi feroce nei confronti degli interlocutori che gli domandavano della sconfitta con Thiem a Madrid. “Ma sapete come funziona lo sport? Sapete che si può anche perdere?“. Il primo match del suo torneo è stato una sgambata di allenamento, un’ora di pallate per affondare il povero Dzumhur, che per puro caso conquista anche un game prima di passare alla cassa per pagare la lezione. E dopo la gara ancora smorfie e fronte aggrottata, come se Nadal non volesse essere lì, come se l’unica cosa che volesse fare fosse tornare in campo a mulinare con la racchetta. O ammazzare qualcuno, dato il cipiglio. Poi il trionfo, in una finale che una volta di più ha dimostrato che gli altri bravi, sì, ma lui è un’altra cosa: la cattiveria con cui è rientrato dopo la pausa per pioggia faceva impressione anche vista alla televisione.

Ci sono le proverbiali famiglie con bambini al seguito. Un nonno e un padre stanno portando il nipotino sul Centrale, per l’esordio assoluto del bimbetto al Foro Italico. C’è un giovinastro belloccio e tatuato che ha comprato i biglietti del ground dei primi quattro giorni per poter raggiungere il fratello, che lavora qui e non vedeva da mesi. Ci sono le scolaresche, le coppie. E ci sono i solitari, quelli che siedono spesso nelle file più in alto, lontano da tutti e perché no anche a serata inoltrata, per potersi godere qualche ora di relax e sentire lo schiocco sordo della palla che rompe il silenzio. Qualcuno è competente, qualcun altro è qui perché fa figo e alimenta una critica sacrosanta, quella alla sete esasperante di notorietà, foto da Instagram e testa bassa sullo smartphone, perché l’importante è che si sappia dove si è, non apprezzare quello che si ha attorno.

Si vive e si lascia vivere al Foro. Per ricordarsi che il tennis importa, ma un altro milione di cose si respira a due passi dai campi e dai campioni. Domani un altro match ci sarà di sicuro. Un altro caffè pure.

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