Federer ko allarma milioni di fans (Scanagatta). Le rughe di Federer, improvvisamente umano a 37 anni (Clerici). Federer, il ritiro e i nostri limiti (Arturi). Roger, un mondo di dubbi (Lopes Pegna). L'umile John: pizze in campo e mai un torneo (Crivelli). Federer in riserva (Azzolini). Il lungo addio (Semeraro)

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Federer ko allarma milioni di fans (Scanagatta). Le rughe di Federer, improvvisamente umano a 37 anni (Clerici). Federer, il ritiro e i nostri limiti (Arturi). Roger, un mondo di dubbi (Lopes Pegna). L’umile John: pizze in campo e mai un torneo (Crivelli). Federer in riserva (Azzolini). Il lungo addio (Semeraro)

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Federer ko allarma milioni di fans (Ubaldo Scanagatta, Giorno – Carlino – Nazione Sport)

Roger Federer aveva appena perso in 4 set e in maniera del tutto sorprendente (36 75 76 76) il suo match di ottavi di finale che tutti consideravano scontato da un semicarneade n.55 del mondo, l’australiano John Millman, che sui siti web di tutto il mondo si era già alzato un polverone di commenti: Roger il superuomo è finito? Se lo sarà chiesto anche Bill Clinton, che sudava anche lui nell’Ashe Stadium. Roger in 40 partite all’US Open contro giocatori non compresi fra i primi 50 non aveva mai perso. E non sembrava che potesse perdere neppure l’altra notte quando, vinto il primo set 6-3 stava servendo sul 5-4 e 40-15. Salvo poi cedere. Non c’erano più i 32 gradi del pomeriggio, ma l’umidità era pazzesca, intorno al 70% nella zona, ma probabilmente più dell’80% all’interno dell’Ashe Stadium: un fatto che può aver influito sul match. Addio quindi al sospirato 47mo duello contro Djokovic nei quarti. Al serbo non sarà troppo dispiaciuto. E ai due che si sono affrontati stanotte, Nadal e Thiem, nemmeno. Djokovic, anche lui vittima di un mezzo mancamento in due occasioni nel torneo, se non sviene prima… vince facile con Millman. Federer non può essere considerato finito, ma a 37 anni gli alti e bassi ci stanno. Edberg nell’ultimo anno di carriera ottenne ancora grandi exploit, ma anche clamorose figuracce. Federer ha sfidato gli anni e la logica del tennis. Ora, dopo averlo visto più lento nel cercare la palla per giocare i suoi formidabili dritti, troppo propenso a giocare le smorzate per uscire dallo scambio e soprattutto a battere così male, lo riscopriamo più… umano. Ma vincerà ancora. Magari non raggiungerà lo Slam n.21, ma per un po’ sarà ancora un grande protagonista. «L’età non c’entra, non riuscivo a respirare, dacchè c’è il tetto è tutto peggiorato», ha garantito Roger. Gli è sempre stato difficile ammettere una sconfitta.


Le rughe di Federer, improvvisamente umano a 37 anni (Gianni Clerici, Repubblica)

Il divino Federer è stato sconfitto. Da un tipo che non aveva mai vinto una partita vera, e che si chiama Millman, la traduzione inglese di mugnaio, che sembrerebbe addirittura un soprannome. Un tipo che avevo visto per la prima volta in televisione contro Fabio Fognini intento a scagliare la racchetta, e che non mi aveva impressionato, se non per la presenza in campo in una giornata più che negativa del nostro malato di nervi. Lunedì notte io stesso ero più che intontito, pensavo di assistere a una vittoria e al ritorno di Sharapova, e per mia fortuna mi trovavo davanti a un televisore su un divano, dove, verso l’una di notte, ogni tanto mi addormentavo. Visto il match di Sharapova e la sua sorprendente sconfitta contro Suarez Navarro, mi sono detto “Gianni andiamo a letto”, per poi chiedermi “Non succederà lo stesso a Federer?”. Nel dirmi “Non è possibile” e nell’allungarmi sul divano, mi sono detto: “Già che ci sei, resta qui a dormire, tanto Federer non è Fognini, e vince facile”. Ho insomma continuato un po’ a guardare, e un po’ a sonnecchiare, finché mi è venuto in mente che quel Millman l’avevo visto qualche settimana fa nella finale di Budapest vinta da Cecchinato. Ho anche ricordato che, nel cercare il nome del Mugnaio sulla Media Guide, le Pagine Gialle della ATP, non l’avevo trovato. Troppo poco importante, con più infortuni che tornei vinti, come mi ricordava un mio collega bene informato, un infortunio di undici mesi nel 2013 per la spalla destra, la conseguente impossibilità di servire per un anno, e poi l’anno scorso altra rottura, questa volta del bacino, mostrando una sventura insieme a una eccessiva fragilità ossea. Così, dopo essermi tenuto sveglio per una mezzoretta, visto che il solito Federer andava felicemente a rete, e che lo stesso Ijubicic sorrideva, grazie a un parziale di 5-4, 40-15, mi sono riaddormentato. Al seguente risveglio, mi sono detto che mi ero sbagliato, non potevo non sbagliarmi. Il Divino aveva perduto quel secondo set mezzo vinto, e addirittura il terzo, nel quale, secondo un mio amico che soffre d’insonnia, era stato avanti 3-1, e poi 6-5, sbagliando due punti già quasi vinti. Era un Federer sempre in ritardo, che attaccava sì, ma si faceva passare dal rovescio bimane di Millman, e insisteva ad attaccare, arrivando a rete troppo tardi. Incredulo, davo un’occhiata alle statistiche, e trovavo un’insufficiente percentuale di prime, 77 errori gratis contro 65 vincenti, e 10 doppi errori. Dopo una simile notte di angoscia mi sarei risvegliato a mezzogiorno, per ricordare che Federer, dopo il successo in Australia e il n. 1 conquistato a Rotterdam, è andato calando e, pur evitando la stagione sulla terra, ha mancato Wimbledon e un match point contro Anderson, e ha rigenerato Djokovic, perdendoci a Cincinnati. Dopo la mia notte semi-insonne ho telefonato, come sempre, a un mio amico tennista e psichiatra, per sapere cose ne pensasse. “Hai paragonato Federer a Tilden all’inizio dello US Open”, mi ha risposto. “Ti sei dimenticato che, come il Superdivino Big Bill, ha 37 anni anche lui. Mi par che basti”.


Federer, il ritiro e i nostri limiti (Franco Arturi, Gazzetta dello Sport)

Fermati, Roger. Non pensarci nemmeno, Roger. La sconfitta a Flushing Meadow di Federer, lo Shakespeare del tennis, riapre un eterno dibattito sul tema del ritiro dei grandissimi. Le due posizioni sono opposte nella sostanza, ma hanno la stessa radice: il nostro egoismo e l’amore sconfinato per un genio inarrivabile, baciato contemporaneamente dagli dei della bellezza e della guerra. Da una parte c’è chi non vuole soffrire al pensiero di una prossima sconfitta o dell’umano declino di un fenomeno unico e dunque chiede un sacrificio finale: stop e non ne parliamo più. Dall’altra, sulla stessa spinta, un esercito altrettanto numeroso di adoratori non vorrebbe privarsi anche di un solo colpo fra i tanti che potrebbero uscire dalla racchetta magica e pensa di prolungare la propria stessa vita emotiva, insieme a quella del campione. In realtà nessuno intende misurarsi con ciò che passa nella testa e nel cuore dello svizzero più amato della storia. Pensiamo solo a noi. Ritiro: basta la parola per entrare in un groviglio di sentimenti, nel quale non esistono via d’uscita giuste o sbagliate, ma solo sentenze sentite come implacabilmente ingiuste. Bolt e Gianni Rivera hanno salutato al top della gloria, Ginobili e Mennea l’hanno tirata molto in lungo, Michael Jordan e Ali sono tornati sui loro passi. Sono le tre grandi categorie in cui si suddividono le conclusioni di carriere straordinarie. La prima sembra avere un fascino particolare per noi umani: lo stop al culmine delle rispettive parabole di Pennetta, Nico Rosberg, Marciano, Sampras, Spitz, Steffi Graf e Joe Di Maggio richiama antichi miti greci, nei quali i giovani eroi venivano rapiti nell’Olimpo perché rimanesse sulla terra soltanto il ricordo della loro potenza, senza quasi che si potesse pronunciare la parola morte. Il momento di dire basta è in realtà un vero e proprio lutto che ciascun agonista elabora a suo modo. Tutti sono consapevoli che non vivranno mai i momenti di gioia suprema provati mentre vincevano sul campo ed istintivamente cercano di protrarli fino al limite. Ed è esattamente ciò che noi spettatori non potremo capire mai fino in fondo, perché il destino non ci ha creato per quelle esplosioni di vita. Il «dopo» è un buco nero che risucchia ogni domanda. Affrontarlo in compagnia di una montagna di dollari o soltanto dello scricchiolio delle articolazioni dopo anonime carriere in sport lontani dal grande pubblico è emotivamente la stessa cosa, per strano che possa sembrare. All’agonista vengono sottratti di colpo il gioco, la gratificazione, il divertimento in cambio apparentemente di nulla. Un’incomprensibile crudeltà. Federer sa bene che niente potrebbe aggiungere al suo mito vincendo ancora e ancora: se riterrà di andare avanti sarà perché prova piacere incontenibile in quei gesti e nella sfida rabbiosa agli avversari… [SEGUE].


Roger, un mondo di dubbi (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)

Dopo aver superato di slancio il primo round per la 18a volta (su 18), era stato proprio Roger Federer a tirare fuori la «R word», la parola che comincia con la lettera a cui spesso si riferisce come fosse un tabù. «Adesso mi posso anche ritirare», aveva detto. Scherzava. «Ma no, che cosa avete capito? Ho detto che non giocherò qui il prossimo anno, così posso preservare questo record». Risate. Tre turni dopo, tutti vorrebbero tornare sul tema, ma nessuno si azzarda. La sconfitta con il numero 55 del mondo, l’australiano John Millman, si porta dietro una scia di inevitabili dubbi. Anche se non va dimenticato che Re Roger è il numero 2 al mondo e ha iniziato la stagione con la conquista per la sesta volta degli Australian Open, ritoccando il suo primato di Slam, ora a quota 20. Lui ha incolpato il caldo: «Mi mancava l’aria, non riuscivo a respirare». Ma quello di lunedì sera è probabilmente il suo tonfo più fragoroso. Qui a Flushing con un giocatore fuori dai 50 non aveva mai perso (in 40 match), negli Slam era 127-1: impressionante. Federer è affondato prevalentemente per colpa sua: era avanti un set, ha sprecato due set point per andare 2-0, uno nel tie-break del terzo parziale in vantaggio 6-5. Ha commesso errori inusuali: 76 gratuiti (contro i 28 dell’avversario), ha servito una miseria di 49% di prime palle, due doppi falli consecutivi nel tie-break del 4° set, sempre in ritardo a rete. È una batosta che fa male all’anima. Rod Achermann, editorialista dell’elvetico Neue Zurcher Zeitung, che conosce Federer da quando era un ragazzino, è certo: «Può essere fra un mese o un anno: la fine sta per arrivare». L’argomento ritiro si era innescato di nuovo anche dopo la vittoria in tre set al secondo round contro il francese Paire. Roger si era bonariamente risentito: «Me lo chiedete da nove anni. Al principio pensavo: “Cosa? Ma perché me lo domandano?” Poi ho capito che fa parte del vostro lavoro. Ormai è un tema che mi viene riproposto a ogni intervista. Non sarete mai i primi a saperlo, lo deciderò con la mia famiglia». Nessuno adesso ne parla apertamente. È vero che c’era stata l’eliminazione ai quarti di Wimbledon per mano di Anderson in una maratona di cinque set, ma neppure un mese fa lo svizzero era stato definito Superman per aver vinto due partite nello stesso giorno a Cincinnati prima di lasciare la finale a Djokovic. Ora lo scivolone con Millman ha fatto rumore. Dice Paolo Bertolucci: «Non ricordo un Federer così brutto e spento. È sembrato accusare all’improvviso i 37 anni e aver smarrito le sue certezze. Ma spesso i fenomeni risorgono». Più diretto Boris Becker a Eurosport: «Forse non è il momento per dirlo, ma Padre Tempo non dà scampo a nessuno e immagino che Federer debba cominciare a rendersene conto». Nicola Pietrangeli, che non ha mollato fino a 40 anni, chiarisce: «Oggi nel tennis conta soprattutto il fisico. Ci sono già stati segnali del declino di Roger, ma voglio credere che quello con Millman sia stato solo un incidente di percorso. Però se entro la fine dell’anno perderà un altro paio di match come questo, dovrà pensare seriamente se andare avanti oppure no». Quel dubbio gli era venuto a metà del 2016, l’unica stagione della carriera in cui è andato davvero in crisi… [SEGUE]. Ma la sconfitta di ieri contro il mediocre Millman potrebbe essere la campana dell’ultimo giro? Ha gridato John McEnroe durante la telecronaca: «È la più grossa sorpresa nella storia del tennis». Forse un’esagerazione. Dicono che Federer voglia andare avanti. Ha firmato recentemente un contratto ultramilionario con il nuovo sponsor tecnico Uniqlo, il brand giapponese che vorrebbe portarlo all’Olimpiade di Tokyo del 2020. In un colloquio post Wimbledon, Michael Luevano, direttore del torneo di Shanghai, ha assicurato che nel 2019 Federer parteciperà. Supposizioni. La «R word» galleggia nell’aria di Flushing. E Roger sa che giocare non più da top player appannerebbe un curriculum carico di gloria.


L’umile John: pizze in campo e mai un torneo (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

Gimcheon è una città di 136.000 abitanti piazzata proprio nel cuore della Corea del Sud. Qualche anno fa, John Millman era lì per giocare un Future in doppio e siccome almeno la metà dei giocatori iscritti si era presa un’intossicazione alimentare frequentando i ristoranti della zona, lui decise di rimanere dentro il circolo dalle sette del mattino alle dieci di sera, ordinando solo pizze. Però accadde che un giorno il fattorino arrivasse nel mezzo di una partita e siccome aveva fretta, gli chiese i soldi in campo, tra un punto e l’altro. Perse la partita. L’episodio inquadra alla perfezione quella che è stata la carriera di John Millman almeno fino all’inizio di quest’anno: il solito onesto, umile e ammirevole manovale della racchetta che rimane attaccato al tennis attraverso il pane duro dei circuiti minori. Figlio di un ex giocatore di football australiano, John vince la prima partita Atp a 23 anni suonati, nel 2013, e poi si perde anche a causa di due seri infortuni, uno alla spalla destra e uno all’inguine, che gli fa perdere metà del 2017. Per anni viaggia con una vecchia Holden Astra di papà ormai fuori produzione e dorme negli aeroporti: «Non ho mai giocato per soldi, altrimenti avrei già smesso». Con i quarti agli Us Open intascherà 410.000 euro, ma i suoi valori restano altri: gli amici e la famiglia… [SEGUE]. Un anno fa era 235 del mondo, a inizio 2018 era 128, adesso è l’uomo che potrebbe aver portato il Più Grande sull’orlo del baratro. La classe operaia va in Paradiso.


Federer in riserva (Daniele Azzolini, Tuttosport)

«Vi sono momenti in cui il fisico vi lascia», ammette Federer. Non sembra sorpreso dalla sconfitta. Affranto certamente, ma non impreparato… [SEGUE]. Riesce persino a riderci su, Roger. Anche quando aggiunge alla spiegazione principale che dà della sua sconfitta, una battuta che la dice lunga sul fatto che non abbia alcuna intenzione di nascondersi la verità. «Sapete, succedono cose del genere quando uno ha 120 anni». Contro Millman è sembrato proprio che fosse quella l’età. Un centoventenne… Il carburante è finito con il primo set, e non è un caso che Federer – almeno quello – lo abbia vinto a mani basse. Poi il Più Grande si è ingobbito, ha preso ad arrancare, ha servito per il secondo set sul 5-4 e ha consegnato il game con un doppio fallo disastroso. Con orgoglio ha tenuto vivi anche i set finali, entrambi persi al tie break, ma commettendo errori di ogni sorta. Alla fine sono stati 76 gli errori non forzati. «Non respiravo, ero davvero affaticato. La chiusura del tetto ha impedito la circolazione dell’aria, boccheggiavo. Anche Millman avrà avuto suoi problemi, se non altro lui, a Brisbane, è più abituato di me a questi climi». Non sono sembrate scuse. Né in alcun momento Federer è sembrato frustrato al punto da poter prendere in considerazione un’ipotesi di ritiro. «Voglio chiudere bene la stagione, ci sono ancora obiettivi da raggiungere. Tornerò in America perla Laver Cup a Chicago, poi mi preparerò per gli impegni che restano». E sia. Ma il messaggio crediamo sia arrivato. Stavolta quanto mai forte e chiaro. Nel motore di Federer non c’è più benzina per exploit continui, il Bengodi di cui fu protagonista nel 2017, con la vittoria agli Australian Open, subito doppiata e triplicata dai successi a Indian Wells e Miami, non se lo potrà più permettere. Lo stesso giocare tre tornei di fila. Infine, gli Us Open vinti l’ultima volta dieci anni fa, nel 2008, sono ormai fuori della sua portata, non solo per il caldo (che quest’anno c’è e magari l’anno prossimo ce n’è meno) quanto per la scelta di un cemento lentissimo. Lo ha detto subito Federer… «Sembra di giocare sulla terra». In tutto questo vi sarà ancora spazio per qualche vittoria? È possibile, ma chissà se anche a livello Slam. Australian Open e Wimbledon gli offrono le migliori possibilità, a Melbourne perché la palla corre, ai Championships per l’amatissima erba. Le possibilità maggiori verranno però dai tornei due su tre, quelli con il bye al primo turno… [SEGUE]. Però Roger vuole giocare ancora. Un anno di sicuro, magari fino alla Laver Cup che nel 2019 organizzerà a Ginevra. E forse di più se ritroverà una forma fisica sufficiente (gli stimoli, almeno quelli, non gli mancano davvero). La conclusione della sua carriera, a questo punto, può essere fissata a ottobre 2019, circondato da tutti i giocatori più importanti radunati nella Laver Cup, oppure nell’estate del 2020, ai Giochi di Tokyo, come vorrebbe lo sponsor nipponico. Si vedrà. Siamo alle ultime battute, questo è certo. Caldo, sfinimento, mancanza di circolazione dell’aria, sono tutte spiegazioni veritiere, ma anche i sintomi di una sindrome difficile da combattere, quella della tarda età.


Il lungo addio (Stefano Semeraro, La Stampa)

Sostengono i geriatri, i medici della terza età, che da anziani diventiamo la caricatura di noi stessi: sbiadiscono le qualità, si accentuano i difetti. Roger Federer, arzillissimo Patriarca del tennis, fino allo scorso gennaio era riuscito a schivare lo stereotipo, vincendo l’ultimo dei suoi 20 Slam in Australia e riacchiappando addirittura il numero 1 del mondo a Rotterdam in febbraio, a 36 anni 6 mesi e 15 giorni. Da allora, in un anno che ora piega al malinconico, è riuscito a mettersi in tasca solo un altro titolo, il 98esimo della sua carriera, sull’erba laterale di Stoccarda, dopo aver saltato l’intera stagione sul rosso. Nel frattempo ha compiuto 37 anni. Le sconfitte precoci a Wimbledon, nei quarti contro Anderson dopo aver avuto anche un match point a favore, e lunedì sera negli ottavi contro il molto volenteroso ma non certo irresistibile John Millman, numero 55 del mondo, rischiano insomma di confermare il parere medico. «Non riuscivo a respirare». È la prima volta che Roger — cinque titoli vinti nel brusio di Flushing Meadows, l’ultimo dieci anni fa — a New York perde da un collega non compreso fra i primi 50, e a scoraggiare è soprattutto il modo: in quattro set, sciupando un vantaggio di un set e di 5-4, 40-15 nel secondo. Anche nel quarto il Genio è stato avanti (4-2) e il tie-break finale lo ha praticamente consegnato nelle mani dell’incredulo e quasi dispiaciuto Millman, regalandogli sei punti e infarinandosi anche con due doppi falli. «Da quando c’è il tetto sul centrale New York è cambiata», si è difeso Federer. «Oggi non c’era circolazione d’aria, non riuscivo a respirare. Poi John è di Brisbane e sopporta il caldo meglio di me…». Un’arrampicata sugli specchi che ha qualche giustificazione — l’umidità altissima -, ma non gli rende onore. A non mentire mai sono i numeri, impietosi: 77 errori gratuiti, appena il 49% di prime palle, una quantità di occasioni sprecate per dare il colpo di grazia all’australiano che, parole sue, a inizio partita si era sentito «come un cervo accecato dai fari». Per sua fortuna, la frizione del Suv svizzero dalla fine del secondo set ha iniziato a slittare. Ma i suoi piani non cambiano. Il vizietto di farsi scappare partite abbordabili o già vinte Federer se lo trascina fin da inizio carriera — se vogliamo addirittura dal quarto di finale di Wimbledon lasciato nel 2001 a Tim Henman dopo aver seccato Sampras. «Altrimenti di Slam ne avrebbe vinti 40, non 20, perdendo solo ogni tanto sulla terra contro Nadal», sostiene un anonimo ma esperto (e un po’ severo) suiver… [SEGUE]. Non è una sconfitta, anche molto dolorosa, che può cambiare i suoi programmi che prevedono a breve la Laver Cup, il Masters 1000 di Shangai e il Masters a Londra, e a lungo termine ancora un anno o due di gare. Ma il Tempo, e qualche malanno cronico e nobilmente mascherato, incalzano. Aspettiamoci altri titoli, più o meno luminosi. Ma per non soffrire troppo quando sullo schermo comparirà l’inevitabile The End, rassegniamoci a considerarli titoli di coda.

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