Vecchie novità e nuove abitudini: ci siamo quasi

Editoriali del Direttore

Vecchie novità e nuove abitudini: ci siamo quasi

Un 2018 che farà pensare, dalle ombre di Federer alle luci di Djokovic

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Va chiudendosi una stagione che, quando verrà riconsiderata tra qualche tempo, sarà marchiata come quella del “ci siamo quasi”. Siamo a metà degli ultimi scampoli, tra l’ultimo Masters 1000 storicamente bistrattato eppure foriero di vento fresco e le Finals che tutti vorrebbero cambiare ma nessuno cambia mai (tutto sommato era così anche per la Davis, quindi chissà). Arriverà magari un altro acuto da chi sta ascoltando il suo milionesimo de profundis, o più probabilmente un ulteriore graffio di chi invece è tornato alla ribalta, prepotentemente, quando forse nessuno se lo aspettava più. C’è ancora tempo per qualche lampo e perché no, qualche sorpresa in questo scorcio finale di 2018, ma che piaccia o meno, anche ai più romantici in assoluto, ci siamo quasi.

Forse non il prossimo anno, ma converrebbe iniziare concretamente a valutare non l’ipotesi, bensì la certezza che l’attuale sta per diventare trascorso, che dietro l’angolo aspettano quiete novità e riforme, magari qualche fasto reale per i colori azzurri e una nuova dominatrice. Conviene davvero realizzare che questa stagione ne ha dette tante precise, e qualcuna tra le righe, probabilmente le più importanti: il vento sta cambiando, non per forza in meglio o peggio, piuttosto in nuovo e possibilmente diverso. Non è la prima volta che se ne parla, quello che non si conosce generalmente non solo non interessa, spaventa quasi, perché l’ignoto è poco attraente e a nessuno piace saltare nel buio (cit.) o quasi.

Nuovo, sia chiaro, in antitesi al vecchio e soprattutto in sostituzione del, quando non addirittura in contrasto con il, giovane. Quello che arriverà non sarà necessariamente (chiaro, il ciclo delle generazioni è quello eh, ci mancherebbe) da vedere come meno anziano, piuttosto dovrà essere concepito come mai visto prima, o giù di lì. E proprio per questo dovrà essere utilizzato come cuscino su cui sfogarsi quando alla prossima sconfitta si tornerà a dire che “farebbe meglio a smettere ora”, “ormai è cotto”. Smetterà, ora o poi, e nemmeno tanto poi, e questo dovrebbe già bastare per iniziare a concepire un futuro che sia, per l’appunto, nuovo, non migliore o peggiore. Ci siamo quasi e con lui, peraltro, smetteranno anche gli altri due o tre.

Nessuno se ne preoccupava dopo lo scorso anno da fantascienza, tutti se ne preoccupano dopo un 2018 appiattitosi dopo il botto iniziale. Tutti se ne preoccupavano quando quell’altro aveva grane in famiglia, adesso è un lontano pensiero, dati gli ultimi mesi fuori dal normale. È una giostra continua che forse diventa anche assuefacente, come se in fondo ci si aspettasse continuamente un colpo di coda, un ritorno, una quarta o quinta giovinezza. Dare per scontato questo come qualsiasi altra cosa è però un errore madornale, perché denota un orizzonte chiuso, un’abitudine, un adagiarsi senza visione d’insieme. E soprattutto, anche se potrebbe sembrare incomprensibile, una mancanza di rispetto.

Perché vanno rispettate le decisioni di tutti e sempre, a prescindere dal condividerle o meno. Va rispettata la dipendenza agonistica che ti porta a prendere schiaffi da Brands ad Amburgo o da Daniel a Indian Wells, la predisposizione al preservarsi che ti fa ritirare a tabellone in corso a Parigi o alle Finals. A maggior ragione andrà rispettata la decisione di voltare pagina quando sarà il momento, perché fan e addetti ai lavori, per quanto fondamentali, non possono essere motivo di un debito così grande. Di altri debiti come impegno e dedizione, quelli sì, e sono parte del rispetto che a loro volta i tifosi e gli addetti ai lavori meritano.

Voltare pagina, dunque, quando sarà il momento, beninteso quando lo sarà per chi dovrà farlo, non per chi guarda dall’esterno. Giudicare le scelte, andando a sviscerarne i moventi e le motivazioni senza (per forza di cose) avere un quadro completo della situazione, è deleterio e anche un tantino arrogante, specialmente se a conti fatti forse sono loro, ad avere un credito. Il libro la cui pagina sarà voltata parlerà infatti di una storia unica, in quanto tale, che volenti o nolenti avrà avuto un impatto su un numero imponderabile e sinceramente assurdo di persone e vite. Appassionati che hanno preso decisioni, spesso non proprio eccellenti, in base alla carriera e alle condizioni di questo o quell’idolo.

Ci si prepari quindi all’aria nuova. Un’altra era come questa non ci sarà mai, ma il movimento italiano magari cova finalmente qualcosa di positivo. Certo saranno altri tempi, eppure quella Yastremska là due cose da dire ce le avrà. Ci si goda quello che ancora deve venire, perché è sacrosanto sia così, ma non ci si permetta di paragonarlo con quello che poi arriverà oltre, in un futuro decisamente non remoto. Si rispetti quello che è stato senza etichettarlo, bacchettarlo, e più di tutto senza arrogarsi il diritto di poter dire come sarebbe stato meglio (o peggio). Nessun periodo sarà uguale a quello che va concludendosi, e dovesse mai, tra duemila anni, iniziarne uno ancora più fulgido, guai a ricominciare con altri rapporti e confronti. Rispettare e apprezzare anche quello che non si vorrebbe accadesse permette di dare la giusta concezione a quello che è accaduto. Quella di vecchio, come inizio del nuovo.

 

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