Vincere o non vincere non è la stessa cosa

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Vincere o non vincere non è la stessa cosa

“Lui non ha niente da perdere, io non ho niente da perdere: si comincia 50-50” dice Fognini. Ma non è vero: questa finale è una ghiotta occasione per entrambi

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Fabio Fognini - Montecarlo 2019 (foto Roberto Dell'Olivo)
 

Diciannove finali non sono uno scherzo, da qualsiasi lato si consideri la questione. Diciannove settimane durante le quali Fognini non ha perso una partita; perché è così che si arriva in finale, non c’è un altro modo. Ed è così che Fabio ci è arrivato anche questa settimana, nonostante la passeggiatina sul cornicione nel primo turno contro Rublev che certamente diventerà il simbolo del suo successo, qualora dovesse battere anche Lajovic (si comincia alle 14:30). Di quel quattro-a-uno-quasi-cinque-a-uno si continuerà a parlare tanto, ma in realtà Fognini ha fatto seguire tutto un torneo coi fiocchi battendo Zverev, Coric, Nadal ancor più di quanto abbia battuto il se stesso ‘grottesco’ che ogni tanto ha provato a frapporsi tra il se stesso ‘sublime’ e la vittoria.

Il dubbio, in questi casi, è l’estremo al quale strizzare l’occhio. Quando l’impresa sportiva è grande, e per forza di cose un tennista italiano in finale di un Masters 1000 lo è, si tende più facilmente al sensazionalismo. D’altro canto se c’è qualcosa che a Fabio è sempre mancata è ‘l’impresa eccezionale di essere normale‘, come ha mirabilmente riassunto qualcuno. Posto che i media non dovrebbero sperare di poter modificare le faccende di campo, ma semmai limitarsi a raccontarle, insistere sul fatto che Fabio abbia già fatto qualcosa di eccezionale potrebbe fuorviare persino lui. C’è un torneo da vincere, perché tra vincere e non vincere c’è comunque una grandissima differenza anche se arrivi in finale. Ecco: l’impresa eccezionale di Fabio, la classica prova del nove – anche in senso strettamente numerico, perché sarebbe per Fognini il nono titolo in carriera – corrisponde adesso a battere Dusan Lajovic, che il braccio lo ha di qualità ma non quanto quello del ligure.

Già lo scorso anno Lajovic aveva giocato un bellissimo torneo a Madrid, superando le qualificazioni e poi battendo Khachanov, Gasquet e del Potro. Qui al Country Club ha fatto di più. Le premesse per arrivare in fondo, sostanzialmente, se l’è create sbattendo fuori Thiem (che se non era il secondo favorito, alla vigilia, era al massimo il terzo). Poi si è occupato di domare il mai domo Sonego e di raccogliere i cocci di Medvedev, un ragazzo la cui sensibilità dal lato del rovescio è almeno pari alla sensazione che in ogni partita, da un momento all’altro, possa mandare tutto per aria e sempre per aria prendere a calci la polvere di mattone. Lajovic ha fatto tutto questo nel segno di un tennis elegante e morigerato, rovescio bello bello e geometrie intelligenti. Che siano piuttosto gli avversari a strafare, che siano loro a cadere sotto i limiti dell’eccesso di personalità. Lui, Dusan, che forse cuor di leone non lo sarà mai, il coraggio che gli serviva l’ha rubacchiato qui e lì agli avversari. E alla fine eccolo, a giocare la prima finale della carriera addirittura in un Masters 1000. A quasi 29 anni.

Qualcuno non sarà felice perché aveva comprato il biglietto convinto di vedere Rafa in finale, ma eccoci qui. Sarà dura, molto dura, sia per me che per lui. È una finale a sorpresa” ha detto Fognini, che un occhio al suo prossimo avversario lo aveva già dedicato. “Ha giocato benissimo questa settimana, l’ho visto contro Thiem e Goffin. Contro Medvedev era 5-1 sotto nel primo set. Lui non ha niente da perdere, io non ho niente da perdere: si comincia 50-50, anche se il mio ranking è più alto del suo“.

Che nessuno dei due abbia nulla da perdere è opinabile, perché per entrambi si tratta dell’occasione che potrebbe non tornare. Sul resto sì, ha ragione Fabio, è inutile metterla sul piano della classifica. Tante e tante partite sono state perse da chi doveva vincerle, tante anche dallo stesso Fognini. Cresciuto e diventato tennista di vertice con la convinzione, più o meno taciuta, che il suo braccio e i suoi piedi veloci potessero bastare se non sempre, quasi sempre. La verità è che non bastano quasi mai, sicuramente non quando ci si gioca un trofeo (e mezzo milione di euro, occorre sottolinearlo). Bisogna essere più forti della propria convinzione di essere forti e dedicarsi alla dimostrazione pratica sul campo. Guardare con troppo sospetto quell’impercettibile talento di non annoiarsi a fare le cose banali, a volte anche bruttine ma sicuramente quelle giuste, può farti ritrovare in mano un piatto al posto di una coppa.

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