Sonego, allo Sporting per tornare bambino (Masi). In jeans e clarks sui muretti del Foro Italico (Semmola)

Rassegna stampa

Sonego, allo Sporting per tornare bambino (Masi). In jeans e clarks sui muretti del Foro Italico (Semmola)

La rassegna stampa di lunedì 23 dicembre 2019

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Sonego, allo Sporting per tornare bambino (Barbara Masi, La Stampa Torino)

Dopo quattro anni Lorenzo Sonego torna a varcare la soglia dello Sporting, come sempre sotto l’ala paterna del suo coach Gipo Arbino. L’ultima volta, nel luglio del 2015, aveva 19 anni: quindici giorni dopo avrebbe preso i suoi primi punti ATP. L’occasione per il ritorno, sabato mattina, qualche ora di allenamento con lo spagnolo Albert Ramos Vinolas, n. 41 ATP e n. 17 due anni fa: «L’ho incontrato a Rio a inizio anno, ci ho perso 7/6 6/3». Uno tosto, il mancino di Barcellona, con in carriera la finale nel Master 1000 di Montecarlo contro Nadal, venuto al Circolo della Stampa a Sporting per farsi settare le racchette da Andrea Candusso. «La mia prima impressione? Tutto uguale ad allora», sorride Lorenzo: George che lo accoglie alla porta, i vecchi soci mattinieri che lo abbracciano.

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«La verità? La prima cosa che mi è venuta in mente entrando è un ricordo da ragazzino — scoppia a ridere -. Con i miei amici, che sono quelli di adesso, ci infilavamo di nascosto sui campi in sintetico sotto il pallone: avevamo trovato il modo di entrare anche se erano chiusi, giocavamo al buio con le racchettine cercando di non farci sentire per non essere scoperti». Ragazzate felici. Oggi invece Sonego ha ventiquattro anni, un rankingATP da top 50, la convocazione in Davis, (…), un appartamento tutto suo nello stesso complesso in cui abitava e Alice, la fidanzata che gli dà stabilità: «Ha un anno più di me, è laureata, lavora. L’ho conosciuta durante il torneo di Miami: quel giorno avevo perso con Isner, ero un po’ demoralizzato. Matteo Berrettini mi ha proposto di uscire per distrarmi, in spiaggia aveva conosciuto questa ragazza di Torino che era insieme a un suo amico, e così me l’ha presentata. Pazzesco: se quel giorno non avessi perso, non l’avrei conosciuta». Matteo, l’amico del cuore proprio come Cupido: «Sto bene con lei, mi fa stare sereno. La sua qualità? Saper stare in mezzo a tutti in qualsiasi situazione. Non è facile, fra le ragazze». E Gipo cosa ne pensa? «Gli piace molto. E’ venuta in qualche torneo in Europa, vorrei portarla in America». Gipo Arbino, l’insostituibile: «Stiamo crescendo insieme, c’è più dialogo, maturità e riconoscenza reciproca». Ai Supertennis Awards alla Nuvola Lavazza Sonego era in gara con Salvatore Caruso e Jannik Sinner per il titolo di “Most Improved”:«Sinner, ovvio. E’ veramente forte. Mi sono allenato con lui sull’erba di Halle. E’ davvero uno che vuole arrivare. Freddo, determinato». Come lui e diversamente da lui, che lo ha riconosciuto:«La mia determinazione traspare, la mostro, lui no, non sai cosa pensa. Eppure è il più convinto di tutti, lo capisci anche da come si allena, sempre l’ultimo ad andare via dal campo». L’anno che verrà, fra qualche giorno, ripartirà da Doha, Auckland e poi gli Australian Open: obiettivo, «restare tra i top 50». Alla fine dell’allenamento con Ramos, Lorenzo regala una sorpresa agli ignari ragazzini della scuola tennis, riuniti per una festa di Natale proprio su quei campi su cui si infilava di nascosto.

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In jeans e clarks sui muretti del Foro Italico (Edoardo Semmola, Corriere fiorentino)

Gli studenti li trovi tutti lì, a cavalcioni del muretto che si alza alle spalle del «catino». Sono i posti meno costosi del Foro Italico, appollaiati come piccioni in verticale sul campo da gioco. Luca Bellingeri ha un ricordo cromaticamente nitido, simbolico, di quello scorcio di cielo e di stadio. E l’afoso pomeriggio del 28 maggio 1976: «Ricordo decine di gambe che penzolano, ondeggiando all’unisono al suono della pallina. Destra-sinistra, tic-toc. Tutte uguali: jeans azzurri e clarks ai piedi. E io tra loro. E l’immagine di un’epoca, ci riconosci una collettività che condivide emozioni, speranze, ideali: eravamo accomunati dall’essere giovani e con in testa tante idee, progetti individuali e collettivi. Qualcosa che forse oggi manca: la sensazione di essere parte di un tutto che va nella stessa direzione, che ti dà forza, e ti senti solidale col resto del mondo». Luca ha 20 anni, frequenta il primo anno di Lettere alla Sapienza. Ama due cose sopra ogni altre nella vita: i libri e il tennis. Quarant’anni esatti dopo diventerà il direttore della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Due sogni su due realizzati a 4 decenni di distanza. En plein. Quel 28 maggio Luca Bellingeri assiste alla sua «partita del cuore», quando Adriano Panatta «sconfigge» — tra virgolette — Harold Solomon ai quarti di finale degli Internazionali d’Italia. Panatta vince il primo set 6-2, perde 7-5 il secondo «quando sembra iniziare a esaurire le forze» e «più sale a rete, più Solomon lo infiala con i passanti». Nel terzo il tennista italiano sembra essersi ritrovato e «arriva addirittura sul 4-o» ma Solomon un colpo dopo l’altro recupera. «Panatta è stanco e si ritrova in svantaggio 5-4 ma a quel punto l’americano abbandona per proteste dopo alcuni errori arbitrali e per l’ostilità montante del pubblico. E dire che probabilmente avrebbe vinto». Invece Solomon si ritira, da qui il motivo delle virgolette. Così poi in semifinale Panatta sconfigge John Newcombe, in finale trionfa in quattro set su Guillermo Vilas, numero 2 al mondo. E vince il suo sesto titolo Atp. «Diventò l’idolo di Roma — ricorda Bellingeri — pochi giorni ancora e sarà incoronato anche al Roland Garros dove ri-batte proprio Solomon in 4 set, dimostrando questa volta la sua superiorità evidente. Poi conquista anche la Coppa Davis: il 1976 per Panatta, ma anche per me, fu l’anno perfetto». Lungo il percorso il campione italiano «si trova davanti i grandi australiani, i migliori del periodo, e li batte uno dopo l’altro. Non era considerato alla pari di quei mostri sacri ma sulla terra rossa gli australiani andavano in difficoltà. Infilò una serie di incontri uno migliore dell’altro». La sua «partita del cuore» fu il quarto di finale romano e non la finalissima parigina perché a Roma lui c’era mentre la finale di Parigi «me la sono persa per colpa dell’esame di storia medievale».

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Luca Bellingeri non è mai stato un calciofilo. «II tennis è sempre venuto prima». Anche se seguiva il campionato di Serie A «con moderazione». Non è mai andato allo stadio. Pur essendo romano fin nel midollo è tifoso della Fiorentina per via del padre.

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Quel giorno, quel ricordo di jeans e clarks che penzolano come un sol uomo, quella condivisione generazionale per lui rappresenta il senso di «sicurezza» contrapposta all’«incertezza» che alberga in «un ragazzo con molte paure e tanti dubbi, che ha appena intrapreso una strada di cui non era affatto sicuro». La facoltà di Lettere «anche allora era una scommessa rischiosa, sapevo per certo che non avrei mai voluto insegnare ma non volevo fare Giurisprudenza come ripiego, sarei stato un pessimo giurista».

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Parlando di simboli, Adriano Panatta «era l’opposto di come ci si può immaginare un campione dello sport: aveva problemi di peso, non era particolarmente competitivo e aggressivo, era molto romano in questo senso, pacioso. Mi ci riconoscevo». Una volta cresciuto però «sono cambiato, sono diventato parecchio combattivo», ma in quel momento «lo sentivo più vicino a me di tanti altri; ma lo avrei seguito qualunque fosse stato il suo carattere, non scegli un campione per emulazione ma perché ti insegna a vincere». Vederlo dal vivo, poi, sposta la percezione: «La possibilità di capire davvero, discutere di una questione di millimetri e osservare l’orma della palla sulla riga bianca. Tutto in un clima di partecipazione generale, con l’applauso liberatorio che si scatena sul punto vincente dopo un lungo scambio che rimane sospeso, l’ohhhh di delusione quando invece subisci il colpo avversario. Quel giorno ho scoperto un modo di partecipare allo sport diametralmente opposto a quello individualistico che si ha davanti al televisore». L’elemento collettivo, dice Bellingeri, è importante: «Tutto sommato io ci credo, anche se nel vivere quotidiano si finisce per essere tutti individualisti, ci credo che quel che si può fare insieme è molto di più e meglio di quello che si può fare da soli. La comunione con altri è un arricchimento per sé e per il raggiungimento dell’obiettivo. Nello sport e nella vita. Poi magari non ci si riesce, ma va bene lo stesso»

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