La Piccola Biblioteca. Gianni Clerici: dall’arte del tennis al tennis nell’arte

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La Piccola Biblioteca. Gianni Clerici: dall’arte del tennis al tennis nell’arte

Sei anni fa abbiamo inaugurato questa rubrica recensendo “500 anni di tennis”, la bibbia laica del tennis. Il libro che ogni appassionato dovrebbe avere, o almeno fare finta di avere letto. Oggi chiudiamo virtualmente il lungo cerchio con “Il tennis nell’arte”, l’ultimo lavoro di Gianni Clerici, il nostro piccolo Omero del tennis

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Gianni Clerici, bacheca delle balette (2014)
 

Clerici G. (con Naldi M.), Il tennis nell’arte, Mondadori, 2018

Se mi telefonasse il presidente della svizzera e mi proponesse uno scambio alla pari “vi diamo Federer e ci prendiamo Clerici” rifiuterei secco. Se sul fronte del tennis giocato la questione GOAT è ancora (forse) aperta, su quello raccontato no. Clerici ha avuto l’incredibile privilegio di spalancare le porte del passato remoto a uno sport irreversibilmente proiettato nel futuro e dalla memoria paradossalmente ogni giorno più corta. E poi, direi al presidente, il cantore è sempre superiore al guerriero e alla battaglia. Senza Omero non sapremmo nulla di Achille ed Ettore.

Senza Clerici poco sapremmo della Divina Lenglen e nulla ma proprio nulla sulla questione che nello splendido dipinto “Re Davide consegna la lettera a Uria” (Lucas Gassel, tra il 1500 e il 1530), accanto alla rappresentazione evocata dal titolo, viene raffigurato l’antenato di un campo e di una partita di tennis. Stesso scenario presente nel capolavoro di Giambattista Tiepolo (“La Morte di Giacinto”, 1752-53) dove accanto al corpo morente di Giacinto compare in bella vista una racchetta con “le corde perfettamente tese, il manico di legno fasciato da un telo azzurro e bianco”.

Per il mondo del tennis una specie di elettrochoc retroattivo che riscrive la vulgata contemporanea sulla datazione centenaria e anglosassone delle origini del tennis. Per Clerici il big bang della lunga ricerca che ha portato il nostro scriba alla realizzazione di “500 anni di Tennis”, il suo libro più famoso e temo la sua prigione dal punto di vista squisitamente letterario. Perché Clerici non andrebbe schiacciato solo sul cosa scrive ma bisognerebbe aprire una riflessione sul come lo scrive. Oltre ad aver alzato su Repubblica la cronaca tennistica a piccolo genere letterario, i suoi libri sono caratterizzati da una prosa delicata e sorprendentemente sintetica in grado di catturare in poche righe i luoghi e le persone incontrate sempre strette tra destino e fatalismo.

Una prosa che definirei acquarellistica dove italiano e dialetto non vanno mai in conflitto ma si nutrono a vicenda. Leggendo Clerici ho sempre la sensazione che pensi in dialetto (credo che la sintesi e il ritmo vengano da là), scriva in italiano e si rivolga a un orizzonte che per semplificazione direi anglosassone. Insomma un curiosissimo e non replicabile caso di provincialismo cosmopolita d’alta classe nutrito di gratitudine, grazia e spaesamento. Libri facilissimi da leggere e impossibili da collocare.

Non fa eccezione l’ultimo libro di Clerici “Il Tennis nell’arte”, un viaggio, credo mai tentato da nessuno, che riunisce in un unico volume i più importanti quadri (e sculture) a tema tennistico. Ogni capitolo un quadro. Ogni quadro un aneddoto. Ogni aneddoto una storia. Ogni storia un acquarello in prosa che racconta l’incontro tra il quadro e lo scriba. Se “500 anni di tennis” è una bibbia laica, “Il Tennis nell’arte” è il suo bignami visivo, la sua bussola segreta. Un museo cartaceo cucito insieme da passione e una grande intuizione che fa di Clerici il curatore virtuale di una mostra mai vista e che non si vedrà mai se non nel libro in questione.

Ne “Il tennis nell’arte” ci si può confrontare, anche grazie ad un’edizione curatissima con l’aggiunta delle preziose schede critiche di Milena Nardi, con l’incredibile potenza dell’arte in grado di incorporare dentro una cornice una miniera di informazioni e implicazioni in cui chi guarda, come ci ha spiegato Umberto Eco, non è certo la sua componente passiva. E così accanto alle prove di quanto il tennis, ma direi il gioco come componente fondamentale dell’essere umano per dirla alla Caillois, abbia attraversato sottotraccia la Storia europea – Caravaggio fu coinvolto in un omicidio a causa di screzi per un “giuoco di racchetta”, Carlo IX (Re di Francia) fu immortalato da bimbo con una racchetta in mano e addirittura la rivoluzione francese nacque dentro lo stadio della pallacorda – troviamo il contrappunto microstorico e aneddotico costituito dagli incontri tra lo scriba e quelle opere, alcune confluite in un acquisto e tutte restituite al lettore attraverso uno sguardo estremamente colto ma mai e poi mai accademico.

Credo che sia questo il valore aggiunto del libro e forse la sintesi dell’asimmetrico successo di Clerici. In un paese mai veramente uscito dai recinti del medioevo è quasi intollerabile accettare un dottor divago, amateur nell’animo, che entra come un bisturi in campi pensati e difesi da specialisti. Chiudere la carriera bibliografica di Clerici (24 libri) dentro la categoria “quello del tennis” è decisamente riduttivo. “Gesti Bianchi” (prossimamente) è un romanzo tout court che per atmosfere e passo dovrebbe stare accanto al grande Gatsby, “500 anni di Tennis” e “Divina” sono veri saggi di storia impreziositi dal posizionamento dell’autore, “Erba rossa” è un diario di viaggio trasformatosi in un acutissimo documento narrativo sulla transazione postcomunista dell’Est Europa e per restare a “Il tennis nell’arte” ci troviamo davanti a un bellissimo libro d’arte spogliato da quella tombale autoreferenzialità accademica che trasforma una cosa meravigliosa in un dialogo tra iniziati.

Insomma “Il tennis nell’arte” è un formidabile saggio d’arte che invece di spiegartela ti porta a spasso nel suo incanto e, va da sé, in quello del tennis, “il Re dei giochi e il gioco dei Re”.

 

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Premio “Gianni Mura”: vince Giorgia Mecca con “Serena e Venus Williams, nel nome del padre” come miglior libro sul tennis

Il libro sulle sorelle Williams si aggiudica, alla prima edizione, il premio “Gianni Mura” a Palazzo Madama e riceve la menzione speciale della giuria

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Sabato 12 novembre, una settimana prima che anche il direttore Ubaldo Scanagatta varcasse la soglia di Palazzo a Madama per chiudere la rassegna stampa di 8 giorni di ATP Finals, prendeva vita la prima edizione del premio Gianni Mura. Un premio intitolato a uno dei più illustri giornalisti sportivi italiani, storica firma del giornale Repubblica, scomparso a Senigallia nel marzo del 2020.

Giorgia Mecca, nata a Torino nel 1989, scrive per il quotidiano “Il Foglio”, per l’edizione torinese del “Corriere della Sera” e con il suo libro “Serena e Venus Williams, nel nome del padre” edito da 66thand2nd si è aggiudicata il premio con la menzione speciale della giuria come miglior libro sul tennis. Un libro che racconta la storia di due giovani tenniste di colore e del sogno di loro padre: farle diventare le più grandi.

Diciassette capitoli racchiudono in questo libro la forza, la paura, la tenacia e anche la vergogna di credere in un sogno. Un sogno che il padre di Serena e Venus aveva già in serbo per loro ancor prima che nascessero e che ha ispirato la giovane giornalista torinese a farne un libro di successo. Giorgia Mecca nei suoi capitoli ci racconta come queste due tenniste un giorno abbiano dovuto smettere di essere sorelle e siano dovute diventare avversarie. Ripercorre numerose sfide, la prima di tante nel capitolo intitolato “18 gennaio 1998 – Venus 7-6 6-1” dove racconta il giorno in cui Venus e Serena, al secondo turno degli Australian Open, hanno iniziato a giocare una contro l’altra. Ma ripercorre anche un’infanzia a tratti molto difficile e una storia di famiglia, più unica che rara. Questa la citazione più celebre del libro premiato: “Sono state nere in un mondo di bianchi, potenti in uno sport elegante, urlanti in un campo che richiede silenzio. Sempre dalla parte sbagliata. Per provocazione (loro), e per pregiudizio (altrui). Nel nome del padre due figlie sono state le prime afroamericane con la racchetta in mano, per non essere le ultime”.

 

Dopo aver elogiato il famoso giornalista sportivo Gianni Mura, la giornalista torinese, commossa e felice, ha chiuso così il discorso di ringraziamenti per aver ricevuto il premio: “Se anche loro si sono concesse di cadere qualche volta, forse dovremmo imparare a concedercelo tutti ogni tanto”.

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Esce oggi “Il Grande Libro di Roger Federer”, 542 pagine con il racconto (e i dati) dei giorni più memorabili del fenomeno svizzero

Stagione per stagione l’autore Remo Borgatti ripercorre tutta la sua straordinaria carriera. Tutti i suoi incontri, curiosità e statistiche, anche in rapporto alle caratteristiche tecniche degli avversari, da Nadal a Djokovic, Murray e Wawrinka, a seconda delle superfici

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Roger Federer - Laver Cup 2022, Londra (twitter @LaverCup)

IL GRANDE LIBRO DI ROGER FEDERER

AUTORE: REMO BORGATTI

PAGINE:  542

 

EURO:  24,00

EDITORE:  ULTRA SPORT

Autore del libro è Remo Borgatti, uno dei primissimi collaboratori di Ubitennis. Suo è il racconto ‘Uno contro tutti’ che ripercorre l’avvicendarsi di tutti i numeri 1 della storia del tennis, pubblicato a puntate su Ubitennis. Lo potete trovare a questo link.
Tra le sue rubriche c’è anche ‘Mercoledì da Leoni’, racconti di imprese più o meno grandi compiute da tennisti non particolarmente noti al grande pubblico. La serie la potete trovare a questo link.

Di Roger Federer, nel corso della sua lunga e meravigliosa carriera, si è detto e scritto di tutto. Il ritiro ufficiale, avvenuto durante lo svolgimento della Laver Cup di Londra, ha soltanto messo la parola fine a una vicenda umana e agonistica che ha cambiato per sempre la storia del tennis e più in generale dello sport. Nel volume dal titolo “IL GRANDE LIBRO DI ROGER FEDERER” (Ultra Edizioni, 542 pagine, 24 Euro), Remo Borgatti ha raccolto ed elaborato tutti i risultati e i numeri fatti registrare dal campione elvetico. Il libro è sostanzialmente diviso in due parti. Nella prima, ricca di testo, viene passata in rassegna tutta la carriera di Federer stagione per stagione e nei suoi 150 giorni più significativi. Nella seconda, vengono elencati in ordine cronologico tutti gli incontri disputati nel circuito e negli slam, con tanto di statistiche e percentuali, oltre a una serie di tabelle analitiche che vanno a sviscerare anche gli aspetti più curiosi ed inediti, come ad esempio il bilancio vinte-perse in base alla superficie e alla categoria del torneo, o in base al seeded-player degli avversari o dello stesso Federer, o ancora in base alla mano (destro o mancino) e al rovescio (una o due mani) degli avversari. Poi c’è altro, molto altro. Probabilmente c’è tutto quello che un tifoso o un appassionato vorrebbe sapere su “King Roger” e che forse nemmeno Federer conosce così bene. Certo, nell’era di internet e del web molti di questi dati (ma non tutti) si trovano anche in rete e vien da chiedersi quale sia lo scopo di un lavoro del genere. Ma pensiamo che la risposta sia semplice e venga dalla passione e dalla volontà da parte dell’autore di analizzare e svelare il fenomeno-Federer mediante le sue cifre, data l’evidente impossibilità di spiegarlo attraverso i numeri che ha fatto sui campi di tennis di tutto il mondo.

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John Lloyd, intervistato da Scanagatta, presenta l’autobiografia “Dear John” [ESCLUSIVA]

Intervistato in esclusiva per Ubitennis, l’ex-tennista britannico Lloyd si racconta tra aneddoti e ricordi. “Avrei dovuto vincere quel match” a proposito della finale all’Australian Open con Gerulaitis

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L’ex tennista britannico John Lloyd, presentando la sua autobiografia “Dear John”, viene intervistato in esclusiva dal direttore Ubaldo Scanagatta e racconta tanti aneddoti relativi alla sua carriera, inclusi i faccia a faccia con l’Italia in Coppa Davis. Le principali fortune di Lloyd arrivarono in Australia dove raggiunse la finale dello Slam nel 1977: “All’epoca era un grande torneo ma non come adesso” ricorda il 67enne Lloyd. “Mancavano molti tennisti perché si disputava a dicembre attorno a Natale, ma ad ogni modo sono arrivato in finale. Avrei dovuto vincerlo quel match– ammette con franchezza e una punta di rammarico –ho perso in cinque set dal mio amico Vitas (Gerulaitis). Fu una grande delusione ma se dovevo perdere da qualcuno, lui era quello giusto. Era una persona fantastica”.

Respirando aria di Wimbledon, era impossibile tralasciare l’argomento. Lo Slam di casa fu tuttavia quello che diede meno soddisfazioni a Lloyd, infatti il miglior risultato è il terzo turno raggiunto tre volte.Sentivo la pressione ma era davvero auto inflitta, da me stesso, perché giocavo bene in Davis e lì la pressione è la stessa che giocare per il tuo paese” ha spiegato l’ex marito di Chris Evert. “Ho vinto in doppio misto (con Wendy Turnbull, nel biennio ’83-’84) ed è fantastico ma sono sempre rimasto deluso dalle mie prestazioni lì. Ho ottenuto qualche bella vittoria: battei Roscoe Tunner (nel 1977) quando era testa di serie n.4 e tutti si aspettavano che avrebbe vinto il torneo. Giocammo sul campo 1. Ma era una caratteristica tipica delle mie prestazioni a Wimbledon, fare un grande exlpoit e poi perdere il giorno dopo. In quell’occasione persi contro un tennista tedesco, Karl Meiler”. In quel match di secondo turno tra i due, Lloyd si trovò due set a zero prima di perdere 2-6 3-6 6-2 6-4 9-7. Insomma cambieranno anche le tecnologie, gli stili di gioco, i nomi dei protagonisti… ma certe dinamiche nel tennis non cambieranno mai.

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